Valorizzare le donne sul lavoro, trenta aziende firmano il «Manifesto per l'occupazione femminile»

Giada Scotto

Giada Scotto

Scritto il 22 Set 2017 in Notizie

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Valorizzare la diversità, il talento, la leadership femminile nelle aziende, promuovendo un approccio concreto per superare lo storico gap tra i due sessi nei luoghi di lavoro. È animati da questa volontà che trenta amministratori delegati d’importanti aziende italiane e straniere hanno firmato, nella sede della Luiss Business School di Roma e alla presenza di rappresentanti istituzionali quali la Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Maria Elena Boschi e la viceministra allo Sviluppo economico Teresa Bellanova, il Manifesto per l’occupazione femminile promosso da Valore D, associazione d’imprese nata nel 2009 che raggruppa oltre 160 aziende che hanno scelto d’impegnarsi, appunto, nella promozione dell’occupazione femminile.

Il Manifesto si propone come un documento programmatico in 9 punti, per ognuno dei quali «l’azienda si impegna, con gradualità e compatibilmente con le proprie specificità di settore e dimensionali, a dotarsi di obiettivi chiari e misurabili» che assicurino «il riconoscimento del valore della diversità di genere come risorsa chiave per l’innovazione, la produttività e la crescita».

Essenziale in questa direzione è anzitutto l’impegno da parte delle aziende, in fase di selezione, ad avere un gruppo di candidati rappresentativi di entrambi i generi (punto 1). Stando ai dati Eurostat per il 2016, infatti, la presenza delle donne nel mondo del lavoro è piuttosto scarsa: solo la metà delle donne in Italia lavora (il 51,6% contro il 71,7% degli uomini), a differenza di quanto si verifica in paesi come Norvegia e Svezia (le cui percentuali sono rispettivamente il 76,7% e il 79,2%) ma anche in Francia e Germania, dove le donne lavoratrici sono il 66,3% e il 74,5%. Eppure una maggiore occupazione femminile significherebbe anche una maggiore crescita economica per le aziende e per l’intero paese, come dimostra l’indagine di The Boston Consulting secondo cui l’allineamento del tasso di occupazione femminile a quello maschile porterebbe il Pil italiano a crescere del 12%. Per questo, ha sottolineato la presidente di Valore D Sandra Mori, «il percorso sostenuto dal Manifesto dovrebbe diventare un tema d’attualità anche nell’agenda paese, ed essere intrapreso da tutte le aziende, non solo da quelle attualmente firmatarie».

Ma un incremento quantitativo non basta. Accanto al numero delle donne lavoratrici deve necessariamente aumentare anche la qualità del lavoro. Per questo le aziende devono impegnarsi a monitorare, analizzandone i principali indicatori, come le opportunità di crescita e il divario salariale, e la presenza femminile al loro interno (punto 3), oltre che a favorire un incremento della presenza femminile nelle posizioni di rilevanza strategica (punto 8).

Le donne lavoratrici guadagnano infatti in media un quinto in meno rispetto ai colleghi uomini e il loro numero, già in partenza nettamente inferiore, diminuisce man mano che ci si avvicina ai ruoli di responsabilità (il 29% del totale), come ha evidenziato l’amministratore delegato del Gruppo Generali Philippe Donnet: «Generali ha in tutto il mondo 75mila dipendenti, di cui la metà sono donne; quindi potremmo pensare di essere a posto. Ma così non è. Nei ruoli dirigenziali le donne sono molte meno e il nostro dipartimento di risorse umane sta lavorando affinché la presenza femminile ai vertici aumenti». A fargli eco è la presidente del Gruppo Ferrovie dello Stato Gioia Ghezzi: «In nessuna azienda si è al 50 e 50 tra uomini e donne, e più si sale ai vertici più cresce il gap nei salari e, dunque, nelle pensioni. Anche in Fs siamo indietro ma stiamo lavorando per migliorare, adottando una policy che prevede, nei meccanismi di selezione, il 50% di donne a tutti i livelli».

Sulla qualità, oltre che sulla quantità, del lavoro femminile si è soffermato anche l’intervento di Maria Elena Boschi: «Nonostante l’Istat abbia rilevato a giugno il record storico dell’occupazione femminile (49,1%) a partire dal ’77», sia ancora necessario migliorare non solo la quantità dell’occupazione femminile (l’obiettivo fissato dall’Ue è quello del 70% entro il 2020), ma anche la qualità del lavoro, dando la possibilità a molte donne di «assurgere a ruoli dirigenziali».

È proprio per far fronte a queste scarse opportunità che tante donne hanno infatti dato vita a imprese proprie, «facendo dell’Italia il secondo paese in Europa per numero di aziende femminili». «Il governo
è da tempo impegnato su tutti i punti evidenziati dal Manifesto» ha proseguito «come dimostra lo stanziamento di 55 milioni per il 2018 e di altrettanti per il 2019 per la contrattazione aziendale di II° livello, che mira a valorizzare le misure che favoriscono nelle aziende la conciliazione vita-lavoro, ma anche l’introduzione, a partire da quest’anno, di misure atte alla valutazione dell’impatto che le varie riforme hanno sulla differenza di genere». Insomma bisogna ancora lavorare molto «affinché ogni donna sia messa nelle condizioni di dimostrare quanto vale, nelle stesse condizioni degli uomini. Non vogliamo favoritismi, ma uguali condizioni di partenza».

Ed essenziale alla parità nelle condizioni di partenza è l’impegno dell’azienda a supportare le proprie dipendenti in uno dei momenti più “critici” per la loro vita lavorativa, la maternità, proponendosi di migliorare la gestione del periodo di assenza e favorire una più fluida riorganizzazione del lavoro che tenga in considerazione le esigenze delle neo mamme al rientro (punto 4). «Molte donne madri corrono infatti il rischio di essere licenziate, e queste interruzioni e discontinuità nel lavoro le conducono ad avere poi, a fine carriera, una pensione bassa» ha evidenziato il presidente Inps Tito Boeri: «Una donna che decide di avere un figlio senza tornare poi a lavorare perde mediamente il 35% delle retribuzioni, mentre una che dopo la maternità rientra a lavoro perde circa il 10%. Un valido aiuto sarebbe in questa direzione anche il congedo di paternità (punto 5), se non fosse che solo 1/3 dei papà ne ha usufruito» Per questo, secondo Boeri, il congedo di paternità dovrebbe essere «imposto e ampliato», dando così un segnale forte di cambiamento nella cultura del lavoro.

Un segnale forte può venire anche dall’impegno delle aziende a sviluppare politiche di welfare aziendale a sostegno dei propri dipendenti (punto 6), così come dall’implementazione di modalità di lavoro flessibile (punto 7). È in questo senso che molte aziende come Bip, Microsoft e Dla Piper si stanno muovendo, dando ai propri dipendenti la possibilità di lavorare anche da casa, in quanto «ciò che conta è il risultato, non il numero di ore passate in sede». Ma attenzione a che queste forme di smart working non finiscano per «togliere l’orario di lavoro e, allo stesso tempo, far sì che il lavoro invada la vita», ha fatto notare il partner Dla Piper Giampiero Falasca, secondo cui «lo smart working non va adottato in maniera neutra, ma applicato a progetti determinati, prestando dunque una certa attenzione».

A generare condivisione ma allo stesso tempo confronto è stato il secondo punto del Manifesto, secondo cui «l’azienda riconosce l’importanza sempre crescente delle competenze in ambito Stem (science, technology, engineering e mathematics)» ma, «consapevole che, se da un lato queste saranno le professioni del futuro, dall’altro le donne rischiano di essere ancora più penalizzate perché meno presenti in queste discipline, s’impegna a raggiungere una situazione quanto più paritetica possibile tra i generi a parità di competenze e professionalità». I presidenti di varie aziende tecnologiche hanno infatti osservato a tal proposito come sia per loro difficile assicurare la parità di genere in un contesto in cui il numero di ragazze formate in discipline tecnologiche risulta nettamente inferiore a quello dei ragazzi. Per questo, come evidenziato dagli amministratori delegati di Avanade e General Electric Mauro Meanti e Sandro De Poli, «l’impegno dell’azienda non basta. Serve anche un intervento sul sistema scolastico che parta dalla scuola secondaria, dove i ragazzi iniziano a decidere cosa fare da grandi. Un ottimo mezzo risulta in quest’ottica l’alternanza scuola-lavoro, che deve però essere estesa. L’impegno deve poi proseguire nell’università, che deve dotarsi di meccanismi che consentano di produrre talenti di entrambi i generi».

Il mito secondo cui il lavoro scientifico è «roba da uomini» deve infatti essere sfatato, deve essere oggetto di un cambiamento culturale che riguardi più in generale il ruolo delle donne nei luoghi di lavoro. Per questo serve un impegno, da parte delle aziende, a coinvolgere attivamente il management sui temi dell’occupazione e della crescita professionale femminile (punto 9), con «attività di formazione per manager aventi moduli dedicati alla differenza di genere», ma anche di «networking e mentoring, per dare fiducia e sostegno alla donne, affinché credano nelle loro capacità», ha affermato la vicedirettrice della Banca d’Italia Valeria Sannucci.

Nella stessa direzione è andato anche l’intervento di Teresa Bellanova, che ha sottolineato come il governo abbia fatto un’importante riforma del lavoro, ottenendo il congedo a ore ma anche quello baby-sitting. «Ma il cambiamento non può venire solo dall’alto, dalle istituzioni, perché gli interventi devono anche essere accettati e messi in opera. Serve quindi un cambiamento dal basso, un cambiamento culturale, poiché ancor oggi capita di trovare annunci di lavoro rivolti a soli uomini; e non si tratta di lavori fisici, ma di impieghi normalissimi». «Questi pregiudizi
non si cambiano con una legge» ha ammesso Bellanova «È una sfida che deve essere affrontata dalle imprese e dalle organizzazioni sindacali e che, se accettata, migliorerà non soltanto la vita delle donne, ma anche quella delle imprese. Perché più aumenta la soddisfazione nel fare il proprio lavoro, più aumenta la produttività».

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