Le politiche per il lavoro messe in campo negli ultimi decenni nel nostro Paese non sono state decisive. Il lavoro continua a scarseggiare, a essere mal pagato e di bassa qualità. E ancora, le restrizioni dell'austerity hanno portato a un peggioramento delle condizioni di vita degli europei, con un aumento esponenziale delle disuguaglianze. Allora perché non ripensare il sistema nel suo complesso, guardando a economie più sviluppate, o addirittura alla prima al mondo, vale a dire quella statunitense? A fornire lo spunto è il libro Lavorare tutti? del giornalista e ricercatore Martino Mazzonis, esperto di Stati Uniti, e che per Ediesse ha pubblicato un volume (164 pagine, 13 euro) che raccoglie le proposte politiche più convincenti per il lavoro nell'America di Trump.
E che sono sostanzialmente due: il lavoro garantito pubblico, il cosiddetto 'Job Guarantee', un piano che ipotizza che sia lo Stato il datore di lavoro di ultima istanza. Una riforma di cui si discute molto negli States, non solo in convegni marginali - sottolinea Mazzonis - ma a livello mainstream, e per cui sono state formulate e anche simulate diverse proposte. E il Green New Deal lanciato dalla nuova stella della sinistra statunitense, Alexandra Ocasio-Cortez, che parte dall'idea di trasformare il cambio climatico – i Fridays for Future tanto per fare un esempio – in una leva per costruire nuovo lavoro, anche pubblico.
Mazzonis parte da un assunto nella sua analisi, e cioè che anche la società americana è stata colpita dalla crisi economica vissuta dalle civiltà occidentali come la nostra. E che - sintomo più evidente ne è stata l'elezione di Trump - anche oltreoceano la cittadinanza soffre per un mercato del lavoro sempre più escludente, salari che precipitano e una forbice sociale che si allarga. La middle class, o quella che ne resta, si è sgretolata anche lì, l'American Dream viene meno. «Se c'è una cosa che si può dire con certezza sugli effetti della Grande recessione cominciata nel 2007 con la crisi dei subprime» scrive Mazzonis all'inizio del primo capitolo, «è che questa ha accentuato le diseguaglianze e reso più evidenti e insopportabili quelle esistenti». Il lavoro pubblico potrebbe allora essere la risposta, anche nell'Italia del Reddito di cittadinanza, ipotizza. Per di più a ragion del fatto che «la letteratura esistente evidenzia la non incompatibilità tra strumenti di distribuzione del reddito e creazione di lavoro». Una politica non escluderebbe l'altra insomma.
Il giornalista va a fondo della questione, e del Job Guarantee analizza le diverse facce, costi e benifici (il primo sarebbe «un salario minimo che garantirebbe l'uscita dalla povertà»), ma anche critiche. Partendo però dalla spiegazione del suo funzionamento. Una delle idee più strutturate è quella del Levy Institute, ricorda il libro, secondo i cui calcoli i beneficiari di questa misura oscillerebbero «tra gli 11 e i 16 milioni», comprendendo «disoccupati, working poors, persone a part time involontario» si legge ancora nel primo capitolo. I vantaggi sarebbero diversi. «Scomparsa del lavoro povero» ne è uno, scrive l'autore, «grazie all'effetto sui salari di un'offerta di lavoro pubblico che garantirebbe un minimo orario di 15 dollari». E ancora aumento della raccolta fiscale, vale a dire più persone che pagano le tasse, «miglioramento della qualità urbana, e dei servizi di cura che diventerebbero sostenibili anche per chi non ha molto da pagare». E poi «ammodernamento del sistema infrastrutturale minore». Perché è proprio in questi ambiti elencati che il lavoro pubblico andrebbe a innestarsi.
Nel libro ci sono anche esempi concreti di lavori che si andrebbero a creare: «riparazione e manutenzione delle infrastrutture, del parco immobiliare e degli edifici pubblici, aggiornamento dell'efficienza energetica degli edifici pubblici, servizi per i bambini in età prescolare e doposcuola di qualità, assistenza agli anziani, ringiovanimento del servizio postale». Perché al Job Guarantee andrebbe applicato il principio del Green New Deal, secondo cui i nuovi lavori potrebbero sfruttare le opportunità che nascono dalla crisi climatica. Ci sono esempi ancora più puntuali: «Le scuole pubbliche di una città» si legge, «si iscrivono alla Community Jobs bank, fornendo un inventario di progetti». Che potrebbero essere mansioni come «riverniciatura di edifici e campi da gioco», così come di «sostegno agli insegnanti per seguire nel pomeriggio gli alunni che rimangono indietro con compiti e lavori».
E i costi? Mazzonis lascia intendere che sia proprio questo il risvolto più controverso della questione. Le ipotesi sono diverse, anche se molte sono lacunose sull'aspetto principale, che è quello di trovare le risorse: «Il costo totale previsto dai ricercatori del Center on Budget and Policy Priorities è di 543 miliardi l'anno, per l'equivalente di 10,7 milioni di posti di lavoro full time» riporta Mazzonis. A fronte di tali esborsi ci sarebbero però i guadagni derivati dalla crescita. Altre simulazioni, per esempio quella del Levy Institute, che il giornalista considera tra le più articolate, parlano di «un aumento del Pil medio annuo di 474 miliardi».
«Avrebbe senso creare lavoro pubblico in Italia?» si chiede Mazzonis in un tweet in cui promuove il suo libro. E la risposta è «sì, avrebbe senso», in un mercato «disastroso» come il nostro sotto diversi punti di vista: partecipazione al mercato del lavoro, numeri sulla disoccupazione, ore lavorate, precarietà, tutti aspetti che il giornalista passa in rassegna nelle ultime pagine del libro. «Con tutte le differenze del caso rispetto agli Stati Uniti» scrive, «ci pare di aver delineato un quadro negativo che segnala la necessità di misure non convenzionali capaci di portare il paese fuori da una lunga crisi». Come quella del lavoro garantito. L'endorsement all'idea arriva anche da Maurizio Landini, alla guida della Cgil, che intervenendo alla presentazione del libro nella sede del sindacato ha ricordato come in Italia «sia in atto una svalutazione del lavoro a partire dagli anni Novanta, che ha portato a una precarietà senza precedenti». Circostanze che aprono alla necessità di «parlare di un nuovo modello di sviluppo».
Ilaria Mariotti
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