La laurea in Italia non “paga” come dovrebbe: le piccole imprese (e non solo) ne capiscono poco il valore

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 16 Ott 2019 in Notizie

disoccupazione giovanile Laurea specialistica Laurea triennale laureati post laurea

I laureati in Italia sono merce rara, sostiene il rapporto annuale sull'Istruzione dell'Ocse, Education at a Glance. Meno di uno su cinque (il 19%) ha infatti un'educazione 'terziaria', dunque superiore al diploma, nella popolazione della fascia d'età 25-64 anni, contro una media Ocse quasi doppia (37%). Eppure, pur essendo pochi, i laureati da noi non sono contesi e coccolati dal mercato del lavoro: anzi, sono penalizzati in fatto di stipendio.

Apparentemente tutto bene, perché mediamente un laureato in Italia guadagna il 39% in più rispetto a chi possiede unicamente il diploma: dunque un vantaggio ce l'ha, di fatto. Ma il confronto con il resto dei Paesi Ocse fa capire che invece la situazione italiana è ben lungi dall'essere rosea: all'estero i laureati vengono premiati con un una busta paga più pesante del 57% rispetto a chi non ha fatto l'università.

Una spiegazione c'è. Le nostre aziende andrebbero spinte «a innovare, e le innovazioni partono dalle competenze dei lavoratori. E a stare sul mercato con maggiori livelli di produttività con parallelo incremento del livello salariale di chi ha contribuito alla creazione del maggior valore» è il commento di Daniele Livon, il 46enne udinese oggi alla guida di Anvur, l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario, e in precedenza dirigente presso il Miur. Ma la realtà è che «in Italia scontiamo troppo la piccola dimensione delle imprese che per loro natura sono poco propense a investire nel capitale umano e in politiche di medio termine». I laureati e le loro competenze passano dunque in secondo piano perché la grande maggioranza del tessuto imprenditoriale italiano, appunto composto da piccole imprese, «deve affrontare quotidianamente politiche di sopravvivenza».

Spacchettando i dati per fasce di età si capisce ancor meglio il problema. A fare le spese dello scarso riguardo delle aziende nei confronti dei laureati sono soprattutto – e come sempre verrebbe proprio da dire – le generazioni più giovani. «Se i 45-54enni laureati guadagnano in Italia il 44% in più rispetto a chi, nella stessa fascia d’età, si è fermato al diploma di maturità, contro una media Ocse del 70% in più» snocciola Giovanni Maria Semeraro, uno dei curatori del report, sono i 25-34enni i più colpiti «con un guadagno che è maggiore solo del 19%, contro una media Ocse del 38».

Il tutto si riflette anche nelle prospettive di trovare un lavoro e di fare carriera, che non sono poi così differenti – anzi «sono simili» secondo la definizione del rapporto 
per chi ha un titolo di studio elevato rispetto a chi si è invece fermato alla maturità. «Il 68% dei 25-34enni con una qualifica tecnico-professionale ha un lavoro rispetto al 67% dei giovani adulti con un’istruzione terziaria». Uno scenario che potrebbe scoraggiare chi pensa di iscriversi all'università, una strada che non sembrerebbe riservare nessuna garanzia dal punto di vista professionale.

La Crui, la Conferenza dei rettori delle Università italiani, interpellata dalla Repubblica degli Stagisti sulla questione preferisce non commentare.

Ma volendo, certo, si può cercare di guardare il bicchiere mezzo pieno: «I dati confermano comunque che le retribuzioni dei laureati sono superiori rispetto a quelle dei diplomati» dice ancora Livon. E poi «dal punto di vista culturale la laurea ha un valore in sé, lo dicono le statistiche sulle aspettative e sugli stili di vita, sulla capacità di esercitare pienamente un ruolo di cittadinanza attiva, di partecipare alla vita sociale e culturale». Ai laureati andrebbe insomma il premio di consolazione.

Anche sul basso tasso di propensione agli studi universitari c'è da tirarsi su pensando che, tutto sommato, «sulla classe dei 25-34enni registriamo un aumento dal 27% del 2017 al 28% del 2018». E poi va fatta una precisazione, perché «nella lettura del dato sul numero dei laureati, tutte le organizzazioni internazionali non tengono mai in debito conto il fatto che in Italia non esiste un vero sistema duale, come in molti altri Paesi europei». Se infatti «si considerassero solo i laureati della formazione di tipo accademico la proporzione dei laureati magistrali sarebbe allineata alla media europea» ragiona Livon. Insomma gli altri Paesi avrebbero più laureati perché esistono modi di arrivare alla laurea che in Italia non hanno ancora preso piede, come quello dell'alternare lo studio all'apprendistato.

Ma Education at a Glance 2019 mette in luce anche un'altra contraddizione del nostro sistema universitario, ovvero lo scarto tra chance di assunzione post laurea di determinati settori e le immatricolazioni che vanno in tutt'altra direzione. «Il tasso di impiego per gli adulti laureati nel campo delle tecnologie informatiche e della comunicazione (87%) e in ingegneria, industria manifatturiera ed edilizia (85%) è vicino alla media Ocse» chiariscono dall'Ocse. Eppure «la quota di 25-64enni con un titolo d’istruzione terziaria in ingegneria, industria manifatturiera ed edilizia è bassa (15%)», il che spiegherebbe anche la quasi totale assenza di disoccupazione per questo gruppo di laureati.

Di contro però «l’Italia registra la seconda quota più alta (29%) di adulti laureati nelle discipline artistiche e umanistiche, in scienze sociali, giornalismo e nel settore dell’informazione tra i Paesi dell’Ocse». Pazienza a detta di Livon, perché «la libertà di scelta va garantita agli studenti, anche se è giusto renderli informati sulle opportunità di lavoro che offrono le diverse lauree, sapendo benissimo che si tratta di un mercato in continua e forte trasformazione».

Una soluzione potrebbe essere però quella di prevedere «anche in campo umanistico insegnamenti tipici dell’ambito scientifico, il che potrebbe aumentare l’attrattività del mercato di lavoro anche per queste discipline». Più nel dettaglio, andrebbero inserite «conoscenze di base di matematica, statistica e di livello più avanzato in ambito linguistico e digitale, oggi necessarie per qualsiasi disciplina».

A corollario di una situazione non certo rosea per l'istruzione del nostro paese, resta poi per l'Italia il macigno peggiore, ovvero il record dei giovani che non studiano e non lavorano: siamo al terzo posto in questa classifica negativa dopo Grecia e Turchia.

«Il 26% dei giovani di età compresa tra 18 e 24 anni è Neet, rispetto alla media Ocse del 14%»
 si legge. Con picchi del 29% per i 20-24enni e fino al 37% per le donne di età compresa tra i 25 e i 29 anni. Una delle ricette per invogliare allo studio secondo Livon potrebbe essere quella di «migliorare il collegamento tra scuola e università sensibilizzando insegnanti, studenti e famiglie, in particolare negli istituti tecnici e professionali, sull’importanza dell’investimento in formazione terziaria e investire nell’orientamento e tutoraggio nei primi due anni di università, anche rendendo più semplice l’eventuale passaggio tra corsi di laurea di classi diverse».

Per poi «ridurre il tempo di passaggio tra conseguimento del titolo e ingresso nel mondo del lavoro, attraverso iniziative di orientamento in uscita e, a monte, una maggiore attenzione alle competenze richieste al momento della programmazione dell’offerta formativa». Anche perché restare per troppo tempo fuori dal mondo del lavoro «può portare a conseguenze nel lungo termine» avverte l'Ocse nel report. Motivo per cui le persone che si trovano attualmente nella condizione di Neet «devono rappresentare una preoccupazione per la politica odierna» prosegue il report, lanciando un grido di allarme: «Ci saranno problemi significativi sugli individui e sulla società intera se non saranno prese misure sufficienti per risolvere la situazione».

Ilaria Mariotti

Community