Gli stagisti inglesi visti dal Guardian: «carne da macello». E non è solo una metafora

Annalisa Di Palo

Annalisa Di Palo

Scritto il 20 Mar 2011 in Approfondimenti

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Lo spunto viene dalla cronaca recente: il 27 febbraio il calciatore del Chelsea Ashley Cole spara «accidentalmente» un colpo di fucile sul campo di allenamento e ferisce Tom Cowan, 21enne studente di scienze motorie che presso il blasonato club londinese svolgeva il suo tirocinio annuale. Quali fossero le finalità formative di un simile stage e, prima ancora, cosa sia saltato in mente al difensore da 440mila sterline al mese, per ora non è dato sapere.

L'input però non è sfuggito al 24enne
blogger e freelance Oliver Laughland  – laurea in Scienze Politiche e master in giornalismo d'inchiesta [a fianco, nella foto] che dalle pagine web del Guardian fa notare, con il solito umorismo britannico, che «Con il tirocinio sono dolori e non è solo colpa di Ashley Cole» [sotto, uno screenshot dell'articolo].

La metafora in effetti è ghiotta: se naturalmente davvero in pochi sono finiti in ospedale come diretta conseguenza di uno stage, il senso di malessere che circonda questo momento di passaggio tra formazione e lavoro certo non risparmia gli studenti e laureati d'oltremanica, come molti dei loro colleghi europei.

L'autore dell'articolo cita una ricerca pubblicata dalla University of Westminster: il 90% degli stagisti in Gran Bretagna non sono retribuiti e quasi i due terzi ritiene che il suo internship sia una perdita di tempo. Solo uno su dieci è consapevole dei propri diritti, tra cui quello sancito per legge ad essere retribuito con un salario minimo garantito pari a 5,93 sterline all'ora, quasi 7 euro (che ad esempio, per un tirocinio part-time di venti ore settimanali, darebbe diritto all'equivalente di 560 euro mensili). Obbligo che vale però solo per progetti di learning-by-doing al di fuori di qualsiasi percorso di studio. Se sono invece curriculari  – come avviene di solito – il minimum wage viene applicato solo se i tirocini superano l'anno - e questo è molto raro. Nel caso del malcapitato Tom, trattandosi di uno studente impegnato in uno tirocinio di un anno esatto, il club calcistico non era tenuto a versare nulla, come poi ha fatto.

L'incredibile incidente diventa allora pretesto per sottolineare una volta di più che «le migliaia di giovani che oggi smaniano per entrare nel mondo del lavoro sono carne da macello [cannon fodder] per i potenziali datori di lavoro», afferma Laughland senza troppi giri di parole. Si è pronti a tutto: a passare un mese – laurea in arte in tasca – riorganizzando un archivio fotografico di 6mila foto  per un'azienda produttrice di tessuti; a stare in un negozio di arredamento invece che alla progettazione dei mobili come previsto in virtù di una laurea in design industriale; «a sorridere e dire che va tutto bene anche sapendo benissimo di essere sprecati per quel lavoro». Senza vedere il becco di un quattrino, e anzi rimettendoci di tasca propria, senza per altro molte speranze di vedersi ripagati con un'assunzione. «È ora che i datori di lavoro si prendano le loro responsabilità – e inizino a tirare fuori i soldi» è il condivisibile anche se un po' generico appello dell'autore. 

Un centinaio i commenti all'articolo. Al di là della battute al vetriolo – «Si può avere un altro ragazzino? Questo è per terra che sanguina» –  qualcuno interpreta lo stage come un test di classe che solo chi viene da famiglie agiate può superare, a meno di non essere «sufficientemente eccezionale». C'è chi mette in discussione la non applicabilità del salario minimo alle esperienze lavorative universitarie e chi invece mira con più precisione:  «Sfruttamento degli stagisti... Vogliamo parlare del Guardian che non retribuisce i suoi?», toccando un tasto dolente. Un lettore forse non più giovanissimo ricorda poi i suoi inizi lavorativi («Lo stage non esisteva. Tutto ciò che sapevamo è che era una cosa americana che implicava cose sconce con il Presidente» – era il 1995 e l'affaire Monica Lewinski scuoteva la Casa Bianca) e impartisce un saggio consiglio finale: «Non lavorate mai gratis. Non importa il prestigio o le opportunità che pensate ne verranno, o la figura che farà sul vostro curriculum. Lavorare gratis è una mancanza di stima verso se stessi».

Annalisa Di Palo

Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:
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Il Daily Telegraph mette il naso nella vita degli stagisti inglesi. Conclusione: non se la passano bene neanche loro
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La denuncia del Financial Times:
«Le aziende smettano di prendere stagisti per coprire i loro buchi di organico, e comincino a pagarli»
- Stagisti inglesi, il Guardian svela: un ente vigilerà affinché le aziende non li sfruttino

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