L’ascensore sociale? È rotto ormai da tempo, e il sistema educativo non offre più a chi studia la garanzia di poter migliorare la propria condizione. Una ricerca del Censis conferma questa preoccupante tendenza: al primo impiego solo il 16,4% dei giovani nati tra il 1980 e il 1984 è salito nella scala sociale rispetto alla famiglia di origine, mentre quasi un terzo (il 29,5%) ha sperimentato la cosiddetta “mobilità discendente”, trovandosi in una condizione meno agiata di quella della famiglia di provenienza. «Accade sempre più spesso che i genitori senza laurea lavorino, mentre i figli, pur laureati, non trovano un’occupazione», spiega a La Repubblica degli Stagisti Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro all’università La Sapienza di Roma. «L’ascensore funziona sempre più al contrario: una frazione crescente della classe media si sta proletarizzando. In Italia ci sono 8 milioni di poveri, e prima della crisi erano 5 milioni: il loro ascensore è sceso, così come è sceso quello dei disoccupati», aggiunge il sociologo.
La scuola sembra aver ormai abdicato alla sua funzione di riequilibratore sociale, che consentiva ai capaci e meritevoli, sia pur provenienti da famiglie disagiate, di farsi avanti e raggiungere una condizione migliore: l’abbandono scolastico è marginale tra i figli dei laureati (2,9%), sale al 7,8% tra i figli dei diplomati e arriva addirittura al 27,7% tra i figli di genitori che si sono fermati alla scuola dell’obbligo. Un ragazzo su tre tra quelli che concludono anzitempo il percorso di studi viene da una famiglia in cui i genitori svolgono professioni non qualificate, contro il 3,9% dei figli di genitori che sono impiegati in professioni qualificate.
Una buona istruzione non basta a salvare i ragazzi dalla disoccupazione: anzi, la crisi ha portato a un rafforzamento del fenomeno dell'«overeducation», cioè del possesso di un titolo di studio superiore a quello richiesto. Tra il 2008 e il 2013 la domanda di lavoro in Italia ha continuato a concentrarsi soprattutto sui livelli di studio bassi, gli unici a registrare un andamento positivo (+16,8%), a scapito sia dei titoli medi (-3,9%), sia di quelli più elevati (-9,9%). Aumentano i diplomati (+32,7%) e ancora di più i laureati (+36,6%) impiegati in mestieri che richiedono una bassa qualifica: e non sembra valere più nemmeno la distinzione tra lauree “forti”, come quelle in materie economiche, statistiche o in ingegneria, e “deboli”, come quelle in scienze sociali e umanistiche: oltre un laureato su due in materie economiche e un ingegnere su tre sono costretti a ripiegare su lavori meno qualificati, contro il 43,7% dei laureati in materie umanistiche o sociologiche.
In questo quadro, la sfiducia regna sovrana: se in Europa due terzi dei giovani tra 18 e 29 anni si dichiarano ottimisti verso il futuro, in Italia la percentuale non arriva alla metà. Questo atteggiamento influisce anche sulla crescita degli abbandoni scolastici: secondo i dati del Censis, nel giro di 15 anni la scuola statale ha “perso” circa 2,8 milioni di giovani, di cui solo 700mila hanno continuato a studiare in istituti non statali o hanno trovato un lavoro. I giovani italiani diplomati tra i 20 e i 24 anni sono il 77,9%, contro una media europea dell'81,1%. La sfiducia nell’istituzione scolastica è legata anche al rapporto sempre più difficile tra i genitori e gli educatori: solo un genitore su dieci partecipa alle elezioni degli organi collegiali, e il 24,6% dei presidi evidenzia che le famiglie assumono un atteggiamento sempre meno collaborativo. «Il problema della scuola in Italia è vastissimo e ha diverse cause», commenta De Masi. «Prima di tutto, è dovuto alla serie di ministri che si sono succeduti negli ultimi anni e non hanno saputo gestire la situazione. Poi c’è la questione della scarsa corrispondenza tra scuola e lavoro: in Italia si sceglie l’indirizzo scolastico a 15 anni, e al termine del percorso, quando lo studente ne ha 25, il mondo è cambiato e le esigenze sono diverse. Infine, la scuola italiana è stata massacrata dai tagli, ed è in fondo alle classifiche dei Paesi Ocse».
Il clima di disincanto e demotivazione si riflette anche sull’università, che continua a perdere iscritti: nella fascia di età tra i 30 e i 34 anni solo un italiano su cinque è laureato, contro una media europea del 34,6%. E le immatricolazioni continuano a calare: nell’anno accademico 2011-2012 sono state circa 9.400 in meno rispetto all’anno precedente, per un tasso di passaggio dall’istruzione superiore a quella universitaria calato dal 50,8% al 47,3% in due anni. Ma anche chi decide di iscriversi non sempre tiene fede all’impegno: solo uno studente italiano su quattro si laurea in corso, nei tre anni canonici, e solo il 55% degli iscritti arriva a conseguire il titolo, contro una media del 70% nei Paesi Ocse.
Sempre più studenti scelgono di puntare su un corso di studi all’estero, alla ricerca di una migliore offerta formativa e di maggiori prospettive occupazionali. Il numero di studenti italiani iscritti in università straniere è aumentato del 51,2% tra il 2007 e il 2011, passando da 41.394 a 62.580. A muoverli è la speranza di trovare migliori opportunità di realizzazione sociale fuori dai confini nazionali. «Anche l’università italiana risente dei suoi mali storici, come la cattiva selezione dei docenti e dei programmi e la cattiva distribuzione delle risorse», commenta De Masi. «Non è un caso che nelle graduatorie mondiali nessun ateneo italiano si classifica prima del centesimo posto». Andare all’estero è la soluzione? «Purtroppo studiare fuori dall’Italia non è un’opzione per tutti, ma solo per chi se lo può permettere», risponde il sociologo. «Dovrebbero esserci buone scuole qui, ma per averle occorrerebbero soluzioni drastiche, che al momento nessuno sembra in grado di adottare».
Chiara Merico
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