Antonio Piemontese
Scritto il 10 Feb 2020 in Interviste
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Donna, manager, mamma. Nel tempo libero, mentor per giovani universitari. Isabella Falautano è Chief Communication e Stakeholder Engagement Officer di illimity, la banca innovativa fondata da Corrado Passera, che dallo scorso luglio fa parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti. Falautano ha esperienze in istituzioni internazionali e think tank, cui ha fatto seguito un lungo percorso in una multinazionale, Axa. Come si fa a tenere tutto insieme? In questa intervista con Repubblica degli Stagisti, la dirigente di illimity ripercorre la propria carriera. Una chiacchierata informale, lontana dallo storytelling, e ricca di spunti per le giovani che si apprestano a entrare in azienda. E che si chiude con un consiglio: mai rinnegare i valori dei vent'anni.
Quali sono le motivazioni che l’hanno sostenuta nel suo percorso professionale?
Quello di adesso è il punto di atterraggio di una navigazione esistenziale e professionale cominciata molto tempo fa. Oggi sono molto fiera, da manager donna, di far parte della dirigenza di una realtà che sta tracciando percorsi nuovi in Italia, a dimostrazione che anche da noi si può, con le giuste idee, persone e partner. Ma ci sono dei fili rossi che ci portiamo dietro nel nostro percorso, e vale anche in ambito lavorativo. Nel caso di Axa, il tema principale per me era quello dell’importanza del merito. Lo stesso che ho ritrovato in illimity.
E le motivazioni?
Ognuno di noi ha dei cicli professionali e di vita che deve imparare a riconoscere. Appena si entra in un nuovo percorso lavorativo ci si trova su una curva di apprendimento accelerata che col tempo va a consolidarsi e, dopo un po’, inevitabilmente, comincia a rallentare. Penso che ognuno di noi debba imparare a riconoscere i propri cicli di apprendimento, le proprie curve: quando cominciano ad appiattirsi, è il momento di muoversi.
Cioè di cambiare azienda?
Non necessariamente. Se l’azienda è molto grande, e il management lo consente, ci si può reinventare nella propria. Il mio percorso in multinazionale è durato diciott'anni, durante i quali ho avuto la possibilità di cambiare ruolo e crescere. Non c’è niente di più pericoloso che restare nelle comfort zone, quelle in cui si smette di imparare, soprattutto quando si è giovani. Il tempo vola: e, nonostante il grande affetto e il legame che si può creare per un gruppo, a un certo punto arriva il momento di guardarsi intorno.
Però lei ha cambiato.
Bisogna avere coraggio anche quando si ricoprono ruoli molto consolidati, come quello che avevo io. Se la leggiamo nell’ottica delle curve di apprendimento, una decisione del genere acquista senso. Dopo diciotto anni avevo voglia di ricominciare a imparare a fare cose nuove, di sviluppare progetti innovativi, quello che sto facendo in illimity. A rendermene conto mi hanno aiutato due snodi illuminanti avvenuti al tempo dei miei trent’anni: uno alla Presidenza del consiglio dei ministri e un altro alla World Bank. Nelle istituzioni impari a connettere “pezzettini” apparentemente scollegati tra loro per guardare il quadro d’insieme. La capacità di filtrare deve necessariamente far parte della cassetta degli attrezzi, nella società dell’informazione in cui viviamo.
Che altro c’è?
L’esperienza a Washington è stata importante per imparare a essere resiliente. Arrivare in una metropoli oltreoceano parlando un inglese corretto ma, in fondo, scolastico ha significato trovarsi in un mare freddo e dover imparare a nuotare per forza. Un’altra grande lezione: non arrendersi alle prime difficoltà. Da donna, o meglio da persona, sono contenta di aver camminato solo sulle mie gambe, faticando ma cercando di trovare la gioia e il bello del fare le cose. Ho imparato a tener duro, con tanta determinazione. E anche a riconoscere le mie vulnerabilità, per farne un’arma, perché significano intelligenza emotiva ed empatia: doti fondamentali in quest’epoca di complessità e rapporti liquidi. In un mondo sfuggente, avere la capacità di leggere i contesti e capire le persone diventa particolarmente importante, forse anche più di prima.
Alla fine è diventata manager. Tra gli executive la prevalenza è storicamente maschile. I tempi stanno cambiando, certo. Ma non pensa che lo stile dirigenziale delle donne tenda a imitare quello degli uomini? Insomma, che più che trovare la propria strada, si tenda a riproporre il modello che si conosce?
Come nel caso degli uomini, anche tra le donne si riscontrano stili manageriali diversi. La chiave sta nel valorizzare l’intelligenza emotiva: perché alla fine aziende e istituzioni sono fatte di persone, ciascuna col proprio bagaglio di aspettative, preoccupazioni e dubbi. E se in qualche modo si riesce ad attivare non solo la competenza, ma anche a stabilire un contatto con il soggetto che si ha di fronte, tutto diventa molto più agevole. Passiamo tante ore al lavoro: è importante, laddove possibile, riempire questo tempo di qualità non solo professionali, ma umane. L’intelligenza emotiva caratterizza anche tanti uomini, parte del femminile che alberga in ciascuno di noi. Quello che è certo è che l’emotività fa paura: e dal mio punto di vista, essere un ceo non significa solo essere un Chief Executive Officer, ma anche un “Chief Emotional Officer”.
Ho assistito a un panel a cui partecipava come relatrice, recentemente, e una sua frase mi ha colpito: “Diamo per scontato che le ragazze più giovani abbiano le idee chiare, ma non è così”. Cosa intendeva?
Tanto tempo fa mi ripromisi una cosa a cui ho cercato di tener fede: non dimenticarmi di com’ero a vent'anni, non scordare i dubbi, le insicurezze, né quello che contestavo. Perché è troppo facile criticare quando si è nella fase ascendente della carriera per poi, guadagnate certe posizioni, far calare l’oblio. Non ci si deve trasformare in quello che si è contestato allora. Non voglio dimenticarmi com’ero. A vent’anni non sapevo come sarei stata a quaranta, non funziona così: bisogna andare avanti per tentativi, provare con determinazione. E può anche andare male; all’improvviso si può capire che la strada non era quella. Insomma, i percorsi possono non essere lineari: ed è importante non dimenticarselo, soprattutto quando si hanno di fronte interlocutori giovani. Neanche noi sapevamo cosa avremmo fatto, e chi si racconta così come minimo è più un unicum che la norma. Ecco perché un consiglio, un instradamento da parte di chi è più esperto possono essere importanti: quello che è ovvio per noi spesso non lo è per i giovani. Bisogna investire tempo per raccontare ai ragazzi cose magari per noi scontate. Faccio un esempio tratto dalla mia esperienza di mentoring a universitari. Lei è una studentessa calabrese, bravissima, iscritta all’università a Roma. Un giorno mi dice: “Sei stata l’unica a dirmi che io, donna del sud, potevo veramente farcela. Tutti mi consigliavano di lasciar perdere, laurearmi e poi tornare al paese, che tanto il titolo non serve a niente. Mi hai convinto a non mollare”. Il consiglio a me poteva sembrare ovvio, non lo era. A quell’età c’è bisogno di quei piccoli incoraggiamenti che oggi ci sembrano superflui.
Spesso si dichiara di cercare un equilibrio tra privato e carriera. È davvero possibile trovare un bilanciamento?
È il grande interrogativo che si pone ciascuno di noi. Penso che ci siano diverse fasi nella carriera e nella vita privata di una persona, e le priorità si scelgano a seconda di quella in cui ci si trova. Partiamo dal fatto che avere un lavoro soddisfacente non significa solo conquistare potere e carriera, ma è parte dell’identità di un individuo. Direi che una chiave fondamentale sta nel trovare i giusti compagni di percorso: e per questo, non nego serva anche un po’ di fortuna. Ma la fortuna bisogna anche cercarla, fermarla, trattenerla prendendola “per le orecchie” a volte. Anche nella vita privata. Questo è vero, a maggior ragione, per le donne che vogliono anche avere una carriera: è importante trovare un partner incoraggiante e tollerante. Ed esserlo reciprocamente.
Tutto qui?
È chiaro che per le donne esiste un altro tema: in certi contesti conta ancora troppo la quantità di tempo che si trascorre in ufficio. Si guarda poco alla qualità, e quando la presenza fisica determina buona parte del percorso di carriera, le donne tendono ad avere più problemi: lo dico perché ho un bimbo piccolo. Ma qui conta la scelta che si fa: bisogna cercare percorsi, luoghi dove si valuta il raggiungimento degli obiettivi e non quante volte un dipendente resta alla scrivania fino alle undici di sera. In questo senso illimity dà piena valorizzazione al merito e ai risultati che si portano. Personalmente, ho sempre scelto posti di lavoro in cui questa componente fosse molto forte. Poi, ribadisco, a casa è importante avere qualcuno che ti sostenga.
Sintetizzo: il posto di lavoro va scelto, non subìto.
Direi che è fondamentale avere un’opinione sulle cose, soprattutto quando si ricoprono ruoli manageriali, e scegliere ambienti coerenti con i propri valori e obiettivi di vita. Non conta solo lo stipendio: a un certo punto bisogna concedersi il lusso di scegliere le aziende anche sulla base di queste indicazioni. Di valutare qual è l’anima dell’azienda.
Si apre una nuova decade. Qual è la dritta che darebbe a una ragazza che oggi ha venticinque anni e sta finendo l’università?
Sono due. La prima è avere il coraggio di farsi avanti, di buttarsi. Le donne, anche brave, quando c’è una posizione libera non si propongono. Pensano “Ma non ho proprio tutti i requisiti…” Il punto è che non si può essere perfetti al 100% per ogni posizione, conferenza, progetto. Bisogna farsi avanti anche quando si è pronti all’80%: nessuno lo è mai totalmente. E non farsi limitare da forme di autocensura: le abbiamo tutti, ma spesso non le mettiamo a fuoco. Siate molto franche con voi stesse, valutate se quell’esitazione è una forma di censura, una paura, oppure un problema reale. E poi, trovatevi persone di esperienza in grado di darvi consigli. Quelli della mia generazione hanno già fatto un bel pezzo di strada, ed è importante che inizino a restituire qualcosa. Certo, l’esperienza non si impara sui libri, ma può arrivare anche da qualche chiacchierata. Proponete a qualcuno che stimate di prendere un caffè: i mentor non cascano dagli alberi. Sono un po’ come la fortuna: bisogna sceglierseli e farsi avanti. Io, a questa cosa, ci credo molto.
intervista di Antonio Piemontese
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