Eleonora Voltolina
Scritto il 13 Ago 2021 in Interviste
Agenda digitale aziende virtuose consulenza digitale smart working
Nino Lo Bianco ha ottantadue anni. Bisogna scriverlo subito, come prima cosa, perché altrimenti è impossibile tenerlo a mente. Quando parla, quando discute, parla sempre al presente e al futuro: di quello che verrà piuttosto che di quel che è stato, di quel che vuole fare piuttosto di quel che ha fatto. Al suo attivo ha la creazione di due grandi società – Telos Management Consulting all'inizio degli anni Settanta, poi fusa con Deloitte; Bip all'inizio del Duemila – e nel cassetto una onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana e un Ambrogino d’oro del Comune di Milano. E sopratutto uno spirito imprenditoriale che sembra tutto tranne che sopito: basti vedere l'ultima domanda di questa intervista, in cui la sua risposta è proiettata a quattro anni da oggi.
L'anno scorso, in pieno Covid (forse proprio grazie alla cattività forzata dovuta al Covid) si è seduto alla scrivania e ha scritto un libro: “È il momento di osare – Here to dare” sottotitolo: “Riusciranno le aziende a sfruttare il potere del digitale?”, in cui ripercorre la storia di Bip (che da molti anni è una delle aziende virtuose del nostro RdS network), della professione della consulenza, ma sopratutto riflette sugli enormi cambiamenti che il digitale ha portato nella vita quotidiana, nel business e nell'economia di tutto il mondo. La Repubblica degli Stagisti lo ha intervistato per chiedergli la sua visione rispetto al futuro prossimo e alle opportunità per i giovani.
Come andranno i prossimi mesi? Le imprese italiane ricominceranno ad assumere, o resteranno nella posizione che lei spesso nel libro definisce “attendista”?
L’attendismo è finito con l’allentamento della pandemia e già si vedono degli importanti sintomi di ripresa. Con una impostazione nuova: fra i tanti danni che possiamo ascrivere al Covid c’è il fatto positivo di un cambiamento epocale. Abbiamo usato tutti molto più digitale di quanto ne usassimo prima; ci ha reso ubiqui, poliglotti, ci ha messo in condizione non solo di comunicare ma anche di lavorare. Essere passati da 600mila lavoratori che, dopo trent'anni di lotte sindacali, erano autorizzati a fare lo smart working, a otto milioni in due settimane ha creato uno sconquasso anche psicologico, ma che adesso è rimasto.
C'è una ripresa della fiducia?
Lo stiamo vedendo sui clienti [di Bip, ndr] e su nuove iniziative. A fronte di settori che accentueranno la loro crisi, ce ne sono molti altri che sono in fase invece di fortissimo lancio.
Il sistema scolastico italiano è secondo lei troppo poco orientato alle nuove tecnologie: pochi giovani scelgono di studiare materie Stem, e in particolare ingegneria. Come si risolve questo handicap italiano? Come, usando le sue parole, si “rigenera la scuola”?
Prima ancora della scuola bisogna intervenire spiegando ai genitori che la vita non è fatta solo di ingegneri e medici, ma ci sono gli istituti tecnici che non hanno in questo momento la considerazione e il ruolo che dovrebbero avere; ci mancano una serie di professionalità di tipo manuale e tecnico che devono essere potenziate. Per chi va scuola bisogna intervenire sui docenti: oggi noi abbiamo programmi in larga misura superati, sappiamo tutto sui fenici e sui greci ma non sappiamo quasi nulla di quel che sta succedendo in Silicon Valley o di quali sono i ritrovati del digitale diffuso. E questo è un problema. Che rimangano indietro o che siano bisognosi di formazione i 40-50enni si può capire, ma se i neolaureati si preparano su programmi dello scorso secolo vuol dire c'è qualcosa che non funziona. Io mi sono laureato nel 1961 in Legge, ho fatto tre esami di Diritto romano, Storia del diritto romano e Istituzioni di diritto romano. Mia nipote che sta facendo legge alla Statale oggi fa gli stessi tre esami. C’è qualcosa che non va: oggi bisognerebbe studiare e capire perché non funzionano i tribunali, perché non funzionano le conservatorie dei registri, perché non è avvenuta l'automazione degli archivi.
La rivoluzione digitale per il tessuto aziendale tradizionale comporta anche chiusure e ridimensionamenti, dunque perdita di posti di lavoro. Questi posti persi vengono davvero rimpiazzati da posti in aziende nuove, più orientate al digitale? E in quelle vecchie che non chiudono, le nuove “protesi” possono davvero pesare, a livello occupazionale, quanto le necessarie “amputazioni”?
Non per ottimismo acritico, ma seguendo la storia ho gli esempi che ogni innovazione ha comportato più attività di quella che ha lasciato in passato. Prenda l'esempio delle carrozze: quando l'uomo andava a cavallo c’erano fior di artigiani che facevano bellissime carrozze, oggi nessuno usa più le carrozze, a parte la regina d'Inghilterra e qualche turista a Central Park a NY. Se qualcuno le producesse, anche se le facesse benissimo, nessuno le comprerebbe – e fallirebbe. Ma le carrozze sono state sostituite dalle automobili. Quanta occupazione ha creato l'automobile rispetto a chi faceva le selle e i finimenti per i cavalli? Oggi noi siamo di fronte a un salto nella storia. Si passa dalla preistoria che arriva all’anno 2000 alla storia che comincia proprio nel 2000. Il digitale sta creando opportunità ogni giorno di più. E' chiaro che stanno entrando in crisi altri tipi di organizzazioni, ma il saldo alla fine sarà certamente e di gran lunga positivo. Il mio è un ottimismo misurato. Nessuno prima pensava alla sicurezza informatica; noi nel giro di sei anni in Bip abbiamo creato una struttura di 220 persone dedicata alla cybersecurity, 220 professionisti che si occupano di mettere in sicurezza in tutto il mondo le plant dei produttori di energia. E questo è solo un esempio: vi è una quantità di lavori impensabili prima, e che stiamo scoprendo giorno per giorno.
Più volte nel libro lei sottolinea, con rammarico, che l’Italia è un paese di retroguardia rispetto all’innovazione e al digitale, in una posizione “subalterna”. I giovani che oggi hanno vent’anni dovrebbero dunque guardare all’estero? Andare a fare esperienza, magari per qualche anno, nei Paesi più all’avanguardia?
Non necessariamente. Oggi il know-how è disponibile ovunque; non bisogna andare necessariamente in California per seguire i programmi e i progetti della Singolarity University, puoi seguirteli da casa a Milano, o in Valtellina, o nel profondo Sud. Non è questo il problema. E' avere la testa e la voglia di provarsi. Noi abbiamo un grande gap imprenditivo in questo momento nel digitale. Questa è la preoccupazione che mi angoscia di più. Gli uomini più ricchi al mondo non avevano un dollaro trent'anni fa. Ma gli “unicorni” sono quasi tutti americani e asiatici: in Europa sono pochissimi. Siamo in qualche modo passivi, usiamo moltissimo i device ma in maniera edonistica. Ci scambiamo messaggini, fotografie del cane, nella migliore delle ipotesi.
Bisognerebbe invece sfruttare questi spunti per usare il digitale, come accade in altri Paesi, in maniera imprenditoriale?
Bisogna affittare un garage, senza un garage pare che nessuno possa andare da nessuna parte; andare lì dentro con un computer, essere in due – perché pare che sia anche obbligatorio anche essere in due! – e tirare fuori un'app che valga qualche decina di milioni. Io dico sempre ai nuovi colleghi: voi non diventerete mai ricchi con la nostra professione. Benestanti, certamente; ma ricchi, difficilmente. Se volete diventare ricchi affittate il garage... e inventate l'app!
Il tema della lontananza fisica che impatto ha e avrà sul mondo del lavoro? Va bene l’ubiquità, ma per lavorare bene insieme non c’è bisogno di toccarsi, qualche volta? Per i giovanissimi che entrano nel mondo del lavoro proprio in questo periodo, non poter fare esperienza “di persona” non rischia di essere una criticità?
Tutti abbiamo perso qualche cosa in questo anno – e i giovani di più. Ma se facciamo il saldo tra cosa ci ha tolto la reclusione e cosa ci ha insegnato – e quindi la fantasia, la spinta per trovare modalità per entrare in contatto, che è diventato un patrimonio acquisito che non perderemo con la ripresa del lavoro in presenza – io credo che alla fine per tutti noi sarà stato un bagno positivo. Ormai stiamo ricominciando a lavorare, ed è per tutti acquisito il fatto che lo smart working non è più un lusso o una cosa da sperimentare. Io non sono preoccupato tanto per i giovani, tutti quelli che noi abbiamo inserito hanno continuato a lavorare senza abbassare la produttività: per noi è stato un test di realtà eccezionale e l'abbiamo anche spinto sui nostri clienti. E' finito il tabù del “timbrare in cartellino”. Il problema vero sono le persone di mezza età, che possono reagire in due modi: primo, incuriosirsi, rimettersi in discussione, accettare la sfida e darsi da fare; oppure abbattersi definitivamente. In Italia abbiamo un'altissima presenza di analfabeti funzionali, più di quanto noi pensiamo.
La sua preoccupazione dunque non sta sui giovani.
I giovani si stanno adattando perché sono nati digitali. Bip per esempio sta crescendo molto, e con moltissimi giovani: abbiamo la popolazione più giovane di tutte le società di consulenza in Italia. Perché? Perché noi siamo nati nel 2003, che può sembrare una grande sfortuna: gli altri hanno la tradizione, il brand, il marchio, la storia, i 150-160 anni di vita precedente. Ma noi siamo nati digitali! Quindi il vantaggio è di avere persone che pensano e ragionano e vivono avendo acquisito abitudini, cultura, e strumentazioni che gli altri fanno un po’ fatica ad adottare. E’ strano che glielo dica io, alla mia età, ma secondo me oggi il problema è proprio dai cinquantenni in su.
Lei si ritiene molto fortunato per le stagioni che ha vissuto, le cose che ha potuto realizzare nella sua carriera professionale, non ultima la creazione di Bip diciotto anni fa. I giovani di oggi avranno le stesse opportunità? Sinceramente, farebbe a cambio con un ventenne?
La mia risposta è sempre sì: non perché io sia un ottimista inveterato, ma perché ogni epoca ha avuto delle opportunità. Oggi ci sono più opportunità di qualunque altra epoca storica. Ci si può muovere con pochissimo, ci si può non muovere e visitare ogni giorno un Paese diverso; si può fare networking con persone sconosciute. Oggi le opportunità si sono esponenzialmente moltiplicate: ma non bisogna avere paura, chiudersi in se stessi. Io ho avuto una grande fortuna: non ho mai pensato di lavorare per qualcuno, sono sempre stato indipendente, ho pensato che dovevo trovare la mia strada. E’ il paio di occhiali che ti metti e con cui guardi la realtà che fa la differenza.
Se dovesse dire a un ventenne di oggi “You’ve got to dare”, che cosa in particolare suggerirebbe di osare?
La base per osare è sviluppare la propria curiosità e andare alla ricerca dello spazio in cui si pensa di potersi realizzare in maniera compiuta. Essere informati. Leggere molto sulle aree che si stanno aprendo. Sulla base di queste curiosità cercare di capire cosa si vuole nella vita. Ogni giovane dovrebbe chiedersi: cosa voglio? Reddito? Ricchezza? Reputazione sociale? Potere? Capire quali sono i suoi driver e cercare di realizzare le cose che sono più in linea con i suoi driver.
Qual era il suo, di driver?
Io non sono andato a lavorare per McKinsey, o per aziende americane; ho un pensiero indipendente, non volevo essere “americano con il k” negli anni Sessanta. Ho creato prima la Telos e poi Bip: non è stata una passeggiata. Però oggi con Bip siamo quarantesimi al mondo, e nel giro di quattro anni potemmo riuscire ad arrivare tra i primi quindici-venti, superare di miliardo di fatturato, raddoppiare il numero dei nostri colleghi in giro per il mondo. Questo è il mio tipo di driver: indipendenza con successo.
intervista di Eleonora Voltolina
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