Il primo lavoro di Massimo Bonini, vent'anni fa, è stato in un call center. In quell'azienda, nel giro di poco, è stato eletto delegato sindacale, e lo è rimasto per tre anni. Poi è diventato funzionario nella Filcams, la sigla sindacale del commercio. Dopo qualche anno è entrato nella segreteria, ha seguito prima il settore della grande distribuzione e poi quello del turismo, fino a diventarne segretario generale. Pochi mesi dopo, a dicembre 2015, è stato eletto alla guida della Cgil di Milano. Abbiamo spulciato la sua relazione programmatica a sette mesi dalla sua elezione (su Linkiesta in contemporanea le risposte sull'attualità e la politica), chiedendogli di spiegare ai lettori della Repubblica degli Stagisti le sue dichiazioni su giovani e lavoro.
«Credo in un mix generazionale ma quello che chiedo a chi ha più esperienza è di fidarsi della capacità di lettura dei più giovani». Si sono fidati e hanno votato lei. Se lo aspettava?
È successo tutto rapidamente, quindi non c'è stata una vera presa di coscienza, prima, di quello che stava cambiando. È una decisione dell'intero gruppo dirigente, che prima di andare alla votazione ha ragionato insieme alla Cgil nazionale di come avviare una fase di rinnovamento, e si è caduti sul mio nome; io credo anche per la provenienza, quella del mondo del terziario e commercio – la categoria che è la fotografia della città, quella ha interpretato meglio il cambiamento di questi anni. Dal punto di vista dell'elezione noi siamo un po' complicati: la Cgil nazionale fa una proposta all'assemblea della Camera del lavoro, in quel caso c'è sempre un solo nome; poi le regole prevedono che qualcun altro si possa candidare in alternativa. C'è una fase di ascolto da parte di quelli che noi chiamiamo “saggi”, che ha dato esito positivo, e il voto ha confermato. La sorpresa c'è stata nel senso che nel giro di una settimana, questo sì è inusuale, è arrivata la candidatura, la proposta e il voto; generalmente si sa un bel po' prima chi deve prendere il posto di comando.
Ha detto che, se eletto, avrebbe avuto bisogno di un «periodo di apprendistato». Come sta andando?
Penso bene, ma non vorrei peccare di immodestia. I percorsi di carriera in un'organizzazione grande come la nostra sono complicati. Un conto è gestire una categoria come la Filcams, anche se la più grande d'Italia – 26mila iscritti, non c'è nessun'altra che ha quei numeri! Era già una macchina complicata di suo. Però passando da una categoria alla Cgil, che è la confederazione, i problemi si allargano: hai più rapporti con la politica esterna, ti devi occupare di tanto altro, di previdenza, servizi interni, di come offrire servizio al pubblico; è un ruolo meno contrattuale, più gestionale e politico. Nessuno nasce imparato, la complessità della macchina andava studiata. Io sono molto abituato a lavorare in squadra: intendere così l'apprendistato è più semplice.
«Faremo probabilmente cose strane, apparentemente bizzarre o poco istituzionali». Cos'ha fatto finora di bizzarro?
Per esempio, abbiamo tentato di cambiare l'armamentario musicale che accompagna i nostri cortei. A volte criticati, abbiamo introdotto qualche musica un po' fuori dai classici schemi dei canti di popolo di sinistra dei lavoratori – che vanno benissimo in alcuni momenti, ma ci vuole anche un po' musica brillante! Oppure, quando facciamo iniziative come il 1° maggio, chiamare gruppi di giovani a gestire l'intrattenimento musicale. Se portiamo gli Inti Illimani non siamo aggregativi verso le nuove generazioni: ammiccano molto bene agli over 60, forse anche a me perché li ho conosciuti nella mia giovinezza, ma con loro i ventenni di oggi non si agganciano! Altra cosa: abbiamo fatto una iniziativa di presentazione della Carta dei diritti in un pub. In maniera fresca, senza i soliti discorsi polpettoni, in cinque parole abbiamo spiegato perché eravamo lì, la Carta dei diritti tra una birra e l'altra, musica col dj set, cinque minuti su cosa sono i voucher – che secondo noi sono il fenomeno negativo del momento – e poi il banchetto di fianco per raccogliere le firme: abbiamo raccolto quelle di tutti i presenti. Il mondo è cambiato, ci piaccia o no. Oggi conta molto il livello comunicativo – anche qui, ci piaccia o no: dobbiamo cambiarlo.
Per coinvolgere più giovani.
Sì, io arrivo dalla Filcams, una categoria che ha lavorato tantissimo con i giovani. Tant'è che oggi lì segretario generale e segretario organizzativo, il numero uno e il numero due della categoria, hanno meno di quarant'anni. Abbiamo fatto investimenti su ragazzi e ragazze under 30, in aziende tradizionali come i supermercati abbiamo lavorato sui delegati giovani, sugli iscritti giovani, che poi hanno anche interagito in modo diverso con l'organizzazione: non a caso, è diventata la categoria più giovane, più aggregativa, quella con più iscritti in Camera del lavoro e in tutta Italia. Spazi ce ne sono.
«Nella contrattazione è necessaria una maggiore coerenza con le parole d’ordine che lanciamo soprattutto in tema di giovani e solidarietà generazionale: dai contratti aziendali fino a temi generali come ad esempio quello delle pensioni». Intende facendo un po' più l'interesse dei giovani precari e un po' meno quello dei pensionati?
No, la divido: contrattazione e pensioni. Contrattazione: negli ultimi 30 anni abbiamo agito in una contrattazione di difesa e di difesa generazionale. Traduco: quando tu fai una trattativa complessa ti trovi di fronte a delle scelte, per fare un accordo devi accettare delle mediazioni. Nelle aziende, nel corso degli anni, abbiamo fatto accordi che hanno diversificato il salario. Negli anni Novanta, nei luoghi di lavoro sindacalizzati dove si contrattava, si consolidò il “premio”, che andò a finire in una voce di salario fisso. Cosa è successo quando è arrivata la crisi? Le aziende chiamavano e dicevano: se a tutti i dipendenti diamo 300 euro, o ai nuovi assunti gliene diamo 100 o altrimenti cancelliamo il contratto aziendale. Il sindacato scioperava, però poi faceva l'accordo. Preferendo scaricare su chi viene dopo...
Quindi in alcune buste paga degli anziani c'erano...
300 euro, in quelle dei più giovani 100. Poi siamo arrivati al disastro di questa crisi, che ha creato 300 e zero. Nei luoghi di lavoro tradizionali ci sono – a parità di livello, di lavoro, di paga – trattamenti diversi. La mia domanda è: se noi come Cgil lanciamo la parola d'ordine “giovani, giovani, giovani”, nei luoghi di lavoro com'è che gliela spieghi, visto che ogni volta fai accordi che li penalizzano? Li ho firmati anch'io questi accordi, non voglio scaricare le responsabilità sui sindacalisti anziani. Però dico: riflettiamo, cambiamo. Sulle pensioni è analogo. La Cgil e il sindacato in generale parla di pensioni per quelli che ce l'hanno e per quelli che ci stanno per arrivare, ma mai per quelli che se la devono costruire.
La Cgil potrebbe aprire un fronte sulle pensioni che verranno erogate tra trent'anni?
Vorrei che già da oggi, quando si va davanti al governo, la Cgil si sieda al tavolo dicendo “Voglio parlare anche della pensione dei giovani”.
Mi piace questo. Ma non accadrà.
Noi abbiamo specificato al governo la richiesta di affrontare la discontinuità contributiva. E lì ci occupiamo anche, in larga parte, di giovani. Giovani lavoratori, punto: il subordinato ha i suoi bei problemi, così come ce li ha l'autonomo. Lo diciamo da questo territorio dove c'è il più alto turn-over: tre milanesi su dieci cambiano spesso contratto di lavoro. I contributi faranno una fine tragica.
Perchè saranno spezzettati.
Perché tra un contratto e l'altro, passassero anche solo 15 giorni – il problema è che parliamo di mesi – quando tu arriverai all'età fatidica, over 60 ovviamente, forse anche 65, ti troverai di fronte a una gruviera: mancheranno un sacco di contributi.
In alcuni casi vengono accreditati i contributi figurativi, quando si riceve la Naspi per esempio.
Sì, però poi ci sono altri casi. Ecco la nostra contestazione al Jobs Act: dicono di essersi occupati di tutti i lavoratori, ma non è vero. Nel turismo il lavoratore stagionale non ha la copertura della Naspi piena. Siamo in estate: pensiamo alla riviera romagnola, alla riviera toscana, a tutti i luoghi turistici del nostro paese. Quante centinaia di migliaia di persone sono coinvolte? Abbiamo sollecitato il governo, non ci ha mai dato retta. Oppure: nei supermercati il rapporto tradizionale è il part-time, ma non per scelta – perchè li costringono. È più semplice fare i turni part-time, son due mezze giornate.
Però sono lavoratori che magari vorrebbero avere un full-time.
Tutti vorrebbero il full-time! È chiaro che il part-time lo vuoi quando sei studente, o per un rientro morbido al lavoro dopo la maternità, o per esigenze temporanee di vita, motivi di salute magari. Lì invece entri col part-time da giovane, in quel momento ti accontenti. Dopodiché arrivi a 35 anni e ti dici “ma c'ho ancora il part-time, dove vado?”. Per esempio qui a Milano, dove uno stipendio a part-time è 550 euro al mese, 600 se va bene con le maggiorazioni, un affitto costa 700 euro. Fine dei giochi.
Quali sono le «domande scomode, ragionamenti che di primo acchito ci fanno anche inorridire» che vi pongono i più giovani quando riuscite ad avvicinarli?
Nel corso della mia breve carriera ne ho viste di cotte e di crude, magari più di quelli che sono qui da quarant'anni. In quel passaggio mi riferivo a un caso “divertente” che mi è capitato di gestire. In una grande azienda di abbigliamento ci troviamo di fronte a 700 contratti a chiamata – sui quali la Cgil aveva fatto “le macumbe”, cercando di contrastarlo, in qualsiasi tavolo sindacale. A qualsiasi azienda che diceva “contratto a chiamata” rispondevamo “per noi non esiste: non trattiamo”. Il risultato è che poi... le aziende fan quel che vogliono. Io seguivo il turismo, e il contratto a chiamata sfido chiunque a dire che non serva in un ristorante o in un albergo.
Però in un'azienda di abbigliamento...
No, non servono a niente, certo. Però ci siamo trovati di fronte 700 ragazzi e ragazze, studenti, che ci dicevano “mi raccomando, noi non ti stiamo chiedendo di trasformarci a part-time. Ti stiamo chiedendo di tenere questo contratto, regolamentandolo meglio”.
E perché a loro piaceva il contratto a chiamata?
Perché il part-time è un contratto molto rigido: l'orario dev'essere quello, dev'essere rispettato, se l'azienda vuole cambiarlo tu devi dare il consenso. Nella loro vita, nella loro visione moderna – tutti con meno di 25 anni, una visione che non è neanche la mia che ne ho 42 – “io voglio la flessibilità, voglio un po' fare quello che voglio: e il contratto a chiamata me lo permette”.
Ecco perchè siete inorriditi: non ve lo sareste mai aspettato, che piacesse.
Eh no. La Cgil aveva di fronte due strade per affrontare quel caso, quella tradizionale e quella di opportunità. Quella tradizionale era andare di fronte a questi 700 e dire “vabbè ragazzi, noi siamo la Cgil, non riconosciamo quel contratto, andremo dall'azienda combattendo per farvi assumere tutti quanti a part-time”. Risultato: portavamo a casa 5 o 10 tessere e dopo qualche anno non avevamo più neanche quelle. L'altra strada è stata quella di dire: “va bene, parliamo. Iniziamo una serie di assemblee, studiamo la materia, iniziamo a dialogare con l'azienda, vediamo di mettere a posto problemi che avete sugli inquadramenti” – perché c'erano anche persone assunte, con inquadramenti sbagliati, paghe sbagliate. Insomma, cose che non funzionavano. Lavorazioni nuove, mai viste in una catena di abbigliamento, che abbiamo dovuto contrattare, a patto che si regolamentasse un minimo il fatto che tutti avessero il diritto di accedere a quel contratto, dandi a tutti le stesse opportunità.
Chiamando i 700 a rotazione.
Perfetto. L'azienda aveva un'organizzazione del lavoro non completamente tradizionale; cioè figure che non erano quelle del classico commesso, non mettevano a posto le magliette, erano più persone di immagine. Ci siamo dovuti inventare il livello di inquadramento di queste persone, combattendo contro la Cgil che ci diceva “voi non potete fare una roba del genere”. E noi abbiamo detto “Cinque tessere o trecento?”. Beh noi siamo per le trecento, siamo andati avanti, e ora là c'è un'azienda americana sindacalizzata, che parla con il sindacato, che ha migliorato le condizioni delle persone: abbiamo iniziato un dialogo inaspettato con l'azienda ma sopratutto coi giovani. Ancora una volta è stata un'occasione di dire “forse ogni tanto vale la pena ascoltare”.
Vale la pena “inorridire”!
Eh sì!
L'ultima domanda è su due parole che invece nella sua relazione programmatica non c'erano: «studenti» e «stagisti». Eppure la Lombardia è la Regione che da sola ospita un sesto degli stagisti di tutta Italia, e Milano è la capitale degli stagisti. Non è importante che un sindacato si apra anche a loro?
Sì. I temi mancavano per ottimizzare i tempi: siccome il difetto dei sindacalisti è quello di parlare per ore, uno degli elementi di innovazione è che la mia relazione è durata 15 minuti, quindi tutto non ci stava. Noi il tema ce l'abbiamo sotto osservazione. Sugli studenti arriva adesso l'alternanza scuola-lavoro, con un po' di ritardo cominciamo a orientarci, a studiarla. Poi tutto il tema degli stagisti ce l'abbiamo nel mirino, abbiamo chi se ne occupa. Io sono uno che ha sempre detto che la Camera del lavoro deve essere aperta a tutti coloro che lavorano: questo è un cambio culturale che va di pari passo con la Carta dei diritti. Gli stagisti sono un po' un ibrido, ma noi parliamo con gli studenti e dunque dobbiamo parlare anche con chi si trova in questa situazione ibrida, a volte – anzi: spesso – illegittima, anomala... Lo stagista che infila le scatolette nel supermercato, come può esistere?
A noi della Repubblica degli Stagisti non piacciono gli stage nella grande distribuzione.
Infatti noi li abbiamo sempre combattuti: siamo intervenuti, li abbiamo sistemati. Non c'è un solo accordo che parli di stage con la grande distribuzione; ci sono accordi di rientro, ovviamente, perché quando ce ne accorgiamo interveniamo. Il problema poi non sta nelle grandi realtà aziendali, ma nel piccolo. Se parliamo di commercio, nei negozietti si trova di tutto: ma chi fa i controlli? Il sindacato non è una guardia, anche perché in quei negozi lì noi non ci entriamo, il lavoratore è da solo, non ha protezioni. Io agisco con l'assistenza, ma posso metterla in campo nel momento in cui il lavoratore esce da quel negozio, non ha più il lavoro, e allora viene da me.
Se uno stagista si trova in difficoltà può bussare alla porta della Camera del lavoro?
Assolutamente sì. Noi abbiamo assistenza legale; se poi fosse uno stagista che sta dentro un'azienda in cui noi siamo presenti è tutto molto più facile, allertiamo le nostre categorie, i delegati aziendali ad aprire il confronto con l'azienda. E poi siamo aperti al confronto di idee, all'interlocuzione con la Repubblica degli Stagisti. Potrebbe essere bello trovarci ogni tanto e confrontarci su quello che pensiamo noi, che magari a volte non è completamente tarato. Avere l'aiuto e il contributo di chi si occupa tutti i giorni di queste cose per noi è un valore.
Intervista di Eleonora Voltolina
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