Il dottorato di ricerca serve per trovare lavoro? Sì, ma non all'università

Marianna Lepore

Marianna Lepore

Scritto il 30 Dic 2018 in Notizie

A sei anni dal conseguimento del dottorato più di nove dottori di ricerca su dieci lavorano. L’occupazione, poi, si mantiene elevata in tutte le aree disciplinari. La stessa università pubblica italiana continua a reggersi per la maggior parte su personale precario: oltre 40mila tra assegnisti, borsisti, cococo e ricercatori a tempo determinato – ma in realtà offre pochi sbocchi a chi conclude il dottorato di ricerca. Sono questi alcuni dei dati pubblicati qualche settimana fa dall’Istat sull’inserimento professionale dei dottori di ricerca.

Numeri che a prima vista sembrano positivi, con un alto tasso di occupazione e un buon livello retributivo, quasi 1.800 euro in media, ma che in realtà presentano diverse ombre. «In primo luogo solo il dieci per cento dei dottori di ricerca diventa professore, in linea con quanto già evidenziato dalle nostre indagini» dice alla Repubblica degli Stagisti Andrea Claudi, responsabile comunicazione nazionale dell’Associazione dottori di ricerca italiani. «Cifra che all’estero è pari al venticinque per cento. E, infatti, quasi due dottori di ricerca italiani su dieci vivono lontano dall’Italia». Una scelta che dall’Adi definiscono «non solo logica, ma quasi forzata in un sistema incapace di rinnovare l’università, con un corpo docente sempre più vecchio, e di adottare l’innovazione come volano per la crescita».

I dati Istat certificano che a sei anni dal titolo solo due dottori occupati su dieci sono impiegati nel settore dell’istruzione universitaria e tra quelli occupati circa il settanta per cento svolge attività di ricerca e sviluppo, in diminuzione rispetto ai dati del 2008. Cifre che forse possono spiegare perché è cresciuta di moltissimo la quota dei dottori che sperimentano periodi di studio all’estero, arrivata al quarantacinque per cento. Un’esperienza riconosciuta come importante anche all’interno del Programma nazionale delle ricerche 2015-2020 per rafforzare l’integrazione della ricerca nel contesto internazionale. L’esperienza all’estero è forse l’elemento giudicato migliore
dai dottori – in un percorso in cui la soddisfazione è molto, molto contenuta, tanto che meno della metà degli interpellati oggi rifarebbe la stessa scelta.

Tra le principali cause di insoddisfazione c’è la bassa qualità della didattica offerta nei corsi di dottorato dagli atenei italiani. Ma anche la percentuale di futuro inserimento all’interno delle università. «Una sostanziale differenza tra Italia e resto d’Europa riguarda l’accessibilità ai finanziamenti: Gran Bretagna e Germania sono le prime in Europa ad avere accesso a fondi di ricerca pubblici, sia statali sia europei, e privati. Ma anche altri paesi, ad esempio la Polonia, stanno incrementando gli investimenti su questo fronte», spiega alla Repubblica degli Stagisti Giulia Malaguarnera, social media coordinator dell’European council of doctoral candidates and junior researchers (Eurodoc). «La carenza di bandi pubblici a livello nazionale, la lentezza delle procedure, tanto che del bando Prin 2017 ancora non si conoscono i vincitori, e la quasi totale assenza di specifici fondi per i giovani ricercatori, l’ultimo risale al 2014, costringono i gruppi di ricerca italiani a rivolgersi principalmente a canali di finanziamento europei»(*). E in questo contesto non meraviglia quindi che l’Italia sia il Paese in Europa con il più alto numero di cervelli in fuga, mentre la Gran Bretagna è quello con il più alto numero di ricercatori in entrata, come dimostra una recente analisi sui dati migratori riguardanti chi fa ricerca.

Le cause principali del basso tasso di reclutamento italiano possono essere individuate secondo Adi nel costante definanziamento della ricerca pubblica  – con tagli continuativi dal 2008 ad oggi  – e poi nel blocco del turn over e nella precarizzazione del “pre ruolo” universitario. Un insieme di fattori che ha portato negli ultimi dieci anni alla riduzione di quasi il venticinque per cento del personale di ricerca negli a
tenei statali, con una perdita netta di oltre 15mila docenti. E con il ricorso a contratti sempre con meno tutele.

Né sembra che nei prossimi anni andrà meglio: secondo le stime
Adi dell’ultima indagine nazionale sul post-doc, appena un ventesimo degli attuali assegnisti di ricerca avrà qualche possibilità di lavorare a lungo termine nell’università italiana. Come se non bastasse, «nella legge di bilancio approvata al Senato spunta la riduzione del piano straordinario dei ricercatori a tempo determinato di tipo B. Degli 80 milioni previsti dal maxiemendamento, solo quaranta saranno utilizzabili per questo reclutamento», osservano i vertici Adi. «Dieci milioni saranno invece utilizzati per l'avanzamento di carriera dei ricercatori a tempo indeterminato in possesso di abilitazione scientifica nazionale. All'appello mancano quindi 30 milioni, sacrificati sull'altare delle clausole di salvaguardia. Il governo smentisce i proclami dei mesi scorsi» concludono «perdendo anche quest'occasione per evitare l'implosione dell'università italiana, ormai depauperata del capitale umano e con un rapporto sempre più sbilanciato tra pensionamenti e reclutamento».

E sono sempre i dati a mostrare come l’Italia investa pochissimo nella ricerca: poco più dell’un per cento di Pil, percentuale che ci piazza al 12esimo posto su 28 paesi europei. Per questo l’Adi chiede un netto incremento nella spesa pubblica per gli atenei e un piano di reclutamento ordinato e stabile che riporti il sistema universitario a livelli europei, con non meno di 20mila assunzioni nei prossimi cinque anni. «Anche a livello europeo, però, è necessario incrementare le risorse per ricerca e sviluppo» specifica Malaguarnera: «Insieme ad altre organizzazioni europee, come Marie Curie Alumni Association e la League of european research universities, come Eurodoc rileviamo che nel nuovo piano di investimenti europeo per la ricerca il budget previsto sia al di sotto delle aspettative e chiediamo con forza un aumento del finanziamento indirizzato ai programmi Horizon rivolti ai giovani ricercatori».

Non solo più fondi, però, perché secondo Adi ci sono varie altre best practices che andrebbero prese a prestito dagli altri paesi europei. Come «prevedere durante il dottorato corsi che favoriscano la conoscenza del mondo del lavoro extra accademico e che siano in grado di indirizzare le competenze trasversali naturalmente acquisite durante il percorso anche verso i settori pubblico e privato» elenca Andrea Claudi, ma anche creare dei «canali dedicati al dottorato all’interno dei career day universitari e nei centri per l’impiego, capaci di mettere in contatto l’industria che intende fare innovazione con i dottori di ricerca che abbiano le competenze richieste». E non da ultimo introdurre modifiche normative nei regolamenti di ateneo che facilitino l’imprenditorialità dei dottori di ricerca all’interno delle università stesse.

Anche nel campo della raccolta dati, però, c’è molta strada da fare. Tanto che Eurodoc ha lanciato lo scorso ottobre un sondaggio rivolto ai postdoc europei con l’obiettivo di comprendere meglio le condizioni di vita e di lavoro, le prospettive e le ambizioni lavorative dei giovani ricercatori in Europa. E cercare grazie al confronto con i sistemi accademici dei vari Paesi di migliorare le proposte sviluppate da Adi e Eurodoc a livello nazionale ed europeo. I risultati saranno pronti per la prossima primavera.

Marianna Lepore


(*) Dati elaborati con il contributo di Emanuele Storti, General board member di Eurodoc

 

Foto di apertura: da Pixabay in modalità creative commons

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