Rossella Nocca
Scritto il 13 Ago 2017 in Storie
borse di studio esperienza all'estero intercultura scuole superiori viaggi studio
Ogni anno oltre 2.000 giovani tra i 15 e i 18 anni trascorrono un periodo di studio all’estero durante le scuole superiori, attraverso i programmi di Intercultura. La Repubblica degli Stagisti ha deciso di raccogliere le loro storie: questa è quella di Federica Brando.
Ho 21 anni e studio Scienze biologiche all’università di Salerno. Il quarto anno di liceo scientifico l’ho frequentato in America. Mia mamma voleva farmi fare un corso di inglese avanzato in estate, poi un giorno in classe sono venute due persone a parlare di Intercultura. Al bando si concorreva con Intercultura o con un ente finanziatore. Ho pensato di tentare e ho vinto una borsa di studio della Deutsche Bank negli Stati Uniti del valore di 13mila euro. Un solo posto in tutta Italia: non mi sembrava vero!
Compilare l’application form è stato piuttosto complesso: richiedeva un test psico-attitudinale, un test e un tema in inglese, la testimonianza di un docente. Inoltre per partecipare era necessaria una buona condotta scolastica – nessun debito o bocciatura. La destinazione nel mio caso era già stabilita, ma in genere si hanno a disposizione fino a dieci scelte.
Una volta selezionata, ho partecipato a un campo di formazione Intercultura: una serie di incontri preparatori all’esperienza, in cui sono state affrontate tematiche come i pregiudizi, le diversità culturali etc. Poi, arrivata negli Usa, ho partecipato a un week end di formazione itinerante in alcune località del Maine, organizzato sempre da Intercultura.
Ho trascorso negli Stati Uniti il periodo da settembre a luglio. Sono partita a 17 anni e sono tornata a 18. La mia destinazione è stata Gardiner, nel Maine, una cittadina di 6mila anime. A ospitarmi è stata una famiglia di volontari di origine ebraica composta da madre, padre e due figli, un maschio e una femmina, di 16 e 13 anni. Non era New York, ma Gardiner mi ha accolto nel migliore dei modi.
Certo le difficoltà non sono mancate. In America c’è un forte individualismo, i rapporti sono più freddi e stringere amicizie è più difficile di qui. Altre differenze che mi hanno pesato sono il cibo, le abitudini. La mattina il bus per la scuola partiva alle 6.20 e le lezioni iniziavano alle 7.30.
A scuola sono stata inserita in una tipica classe americana, solo due ragazzi erano Exchange Student, uno della Cina e uno di Hong Kong. Ho scelto le mie materie: matematica, fisica, storia. C’era persino un corso in cui si imparava a tenere i bambini con un finto bebè: il voto dipendeva dalla capacità di non farlo piangere. Il modello scolastico era più dinamico, interattivo (laboratori, visione documentari e film) e la mole di studio più leggera. Non esistevano le classiche interrogazioni ma solo quiz e test, che culminavano nel test finale di fine semestre, valutato in centesimi. Nel corso dell’anno ho svolto anche tante attività: ho fatto sport (pallavolo, basket e tennis), suonato il clarinetto nell’orchestra della scuola.
Nei nove mesi sia io che la famiglia ospitante siamo stati seguiti da un tutor, che ogni mese si confrontava con noi. Io stilavo un report mensile che dovevo inviare a Intercultura e alla Deutsche Bank. Poi, al ritorno in Italia, ho dovuto sostenere un colloquio con i miei insegnanti per verificare le competenze acquisite e per l’attribuzione dei crediti, sulla base di un programma concordato.
L’anno di studio all’estero lo consiglio per tanti motivi. Sicuramente per la conoscenza della lingua: io sono partita da un livello intermedio, non avevo certificazioni, ma in tre mesi parlavo fluentemente. Per le relazioni che ancora mantengo, ma soprattutto perché mi ha cambiato come persona.
Quando sono partita ero timida, alla fine dell’esperienza mi sono ritrovata a parlare davanti a tutta la scuola al Graduation Day in una lingua non mia. I miei, che erano venuti a trovarmi, non ci potevano credere. Ancora oggi non mi sembra vero di aver vissuto quell’esperienza, è tuttora difficile da metabolizzare. Il rientro non è stato facile. Ho partecipato a un campo finale di Intercultura in cui i volontari aiutavano i ragazzi a rielaborare l’esperienza. Ma il riadattamento culturale ha richiesto del tempo. La prima sera sono uscita con i miei amici e mi annoiavo, la mattina dopo a colazione sono scoppiata a piangere: nove mesi sono tanti e ti abitui a una realtà diversa.
In America avevo deciso di fare Ingegneria aerospaziale. Finite le superiori, mi ero iscritta al Politecnico di Milano, ma le cose erano diverse da come mi aspettavo. Tutta teoria, nessun laboratorio. Così ho deciso di cambiare e iscrivermi a Scienze biologiche, dove l’insegnamento è molto più pratico. Il mio sogno? Lavorare nella Scientifica. Se vedo il mio futuro ancora all’estero? Sono pronta a partire e a trasferirmi, ma solo se strettamente necessario.
Testo raccolto da Rossella Nocca
Community