Lavoro part-time, l'Italia è in ritardo: all'estero più facile e flessibile

Chiara Del Priore

Chiara Del Priore

Scritto il 24 Lug 2023 in Approfondimenti

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In una fase in cui termini come work-life balance, grandi dimissioni, flessibilità sono sempre più dibattuti, in modo più o meno approfondito, il lavoro a tempo parziale, meglio noto come part time, torna a essere sotto la lente di ingrandimento, specie se confrontato con quanto accade oltre i nostri confini.

La situazione in Italia

Secondo una ricerca del 2022 dell’Inapp, l'Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, nel 2021 il 37% dei lavoratori italiani è stato assunto con contratto di lavoro a tempo parziale, percentuale che sale al 44% se si considerano le assunzioni con incentivi statali. In ottica di genere, nell’ambito delle assunzioni che sfruttano gli incentivi statali, il 60% di lavoratori è donna, a fronte del 33% di uomini. Relativamente alle assunzioni non agevolate, le donne assunte con un contratto part time sono il 48%, mentre la percentuale degli uomini assunti con tale tipologia contrattuale è pari 26%.

Attualmente nel nostro Paese esistono diverse tipologie di part time: orizzontale, quando cioè il lavoratore presta la sua attività per un tempo ridotto rispetto all’orario normale giornaliero;  verticale, quando è pattuito un orario normale, ma con una prestazione collocata in periodi predeterminati della settimana, del mese e dell’anno; misto, quando sono combinate le due precedenti tipologie.

Un part time più «obbligato» che scelto 

«Questi dati, come tutti, vanno interpretati» dice alla Repubblica degli Stagisti Giorgia Casiello, componente dell’ufficio studi dell’Agi (Avvocati Giuslavoristi Italiani). «I numeri citati si riferiscono infatti alla tipologia contrattuale utilizzata come strumento per garantire al lavoratore l’ingresso nel mercato del lavoro, con finalità legate più alle politiche in materia di occupazione e al soddisfacimento delle esigenze organizzative del datore di lavoro che al work life balance. I risultati andrebbero dunque integrati e confrontati con quelli relativi al numero dei contratti trasformati da full-time a part-time».

Queste trasformazioni infatti, prosegue Casiello, «salvo eccezioni connesse alla salvaguardia dell’occupazione, conseguono alle richieste del lavoratore di soddisfare un proprio interesse: un effettivo strumento cioè di work life balance. Tale operazione permetterebbe di valutare se la funzione concretamente svolta del part time in Italia è coerente con i principi enunciati nella DIR. 97/81/CE sul lavoro a tempo parziale che impone agli Stati membri di contribuire all’organizzazione flessibile del lavoro, tenendo conto dei bisogni degli imprenditori e dei lavoratori». 

E fin qui, verrebbe da pensare, niente di nuovo, se si pensa all’espressione part time involontario e all’associazione frequente con le lavoratrici.

Cosa succede all'estero

Secondo i dati Eurostat del 2022, i paesi con la percentuale di alta di lavoratori part time sono Svizzera (38,7% del totale dei lavoratori di età compresa tra 20 e 64 anni) e Olanda (38,4%). Negli anni, inoltre, il tasso di occupazione a tempo parziale in Svizzera è aumentato, passando da un quarto degli occupati a inizi anni ’90 alla percentuale attuale. Anche lì si registra però una prevalenza del part time tra le donne, con grande prevalenza della fascia 30-49 anni e tra le donne con figli piccoli.

In Svizzera

Secondo l’UST (ufficio federale di statistica), in Svizzera si definisce a tempo parziale un impiego in cui la durata del lavoro è inferiore al 90% del normale orario di lavoro aziendale. L’UST distingue tra tempo pieno (90-100%), tempo parziale quasi pieno tra il 50% e l’89% e tempo parziale basso fino al 50%. Insomma, sono presenti due macro categorie di tempo parziale che tengono conto delle ore di impiego in termini percentuali sul resto della giornata, che possono essere anche flessibili e non riferite a percentuali pre definite come nel nostro Paese, dove la tipologia prevalente è quella del part time al 50% su base giornaliera, settimanale o mensile in base alle casistiche.

Già fin dagli annunci di lavoro in Svizzera i datori di lavoro specificano la porzione di tempo dell’impiego che stanno offrendo, che può essere un qualunque multiplo di 5 a partire dal 10% e fino ad arrivare al tempo pieno al 100%. Allo stesso modo, possono essere i candidati in sede di colloquio a esplicitare la loro disponibilità, spiegando di non essere disponibili a lavorare per meno –  o più –  di tot percentuale. Inoltre, la percentuale può cambiare nel corso del tempo, semplicemente con un accordo con il datore di lavoro. 

È molto frequente lavorare all’80%, per poter avere un intero giorno – o due mezze giornate – alla settimana libere. In caso si abbiano figli piccoli, non è inusuale che uno dei genitori – nella maggior parte dei casi, la madre – scelga di ridurre al 40 o al 60%, lavorando quindi solo due o tre giorni a settimana. Il part-time così “modulabile” non è prerogativa solo del lavoro nel privato: anche negli enti pubblici si può lavorare concordando con gli uffici risorse umane la percentuale settimanale di lavoro, e cambiando questa percentuale nel corso degli anni, a seconda delle proprie esigenze. «Ora che ho una figlia lavoro al 60%» racconta una manager di un’azienda di Losanna «Ma nel lavoro precedente avevo concordato addirittura un 95%: quel 5% equivaleva a un pomeriggio libero ogni due settimane, che mi serviva per andare a trovare i miei genitori in Ticino».

Ma perché in Italia questa modalità di lavoro a tempo parziale non è diffusa
? «Secondo l’art. 5 del d.lgs. 81/2015, il contratto di lavoro a tempo parziale deve prevedere la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e la collocazione temporale dell’orario, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese» spiega l’avvocata Casiello: «Tale indicazione soddisfa l’interesse del lavoratore a conoscere con esattezza la misura della prestazione che è tenuto ad eseguire e la collocazione della stessa nel giorno, nella settimana, nel mese o nell’anno. Si scongiura così il rischio che il lavoratore possa trovarsi in balia delle esigenze organizzative del datore di lavoro, spesso mutevoli, ed impossibilitato, conseguentemente, ad organizzare il tempo da dedicare ai propri bisogni extra lavorativi. Tali obiettivi sarebbero difficilmente raggiungibili se il contratto si limitasse ad indicare la percentuale della prestazione da eseguire rispetto al contratto a tempo pieno». 

Secondo Marco Bentivogli, ex sindacalista e coordinatore di Base Italia, «nel nostro Paese i tentativi di ampliare le posizioni lavorative a tempo parziale volontarie sono stati spesso avversati per problemi di costo e per incapacità di riorganizzare il lavoro. Figuriamoci che nei contratti del settore industriale si è fatta fatica ad avere percentuali del lavoro part-time superiori al 5% e comunque condizionati a casistiche specifiche, come ad esempio esigenze di cura. Allo stesso tempo e in contraddizione con tutto ciò, crescono troppo i part-time involontari. In generale nel nostro paese, il basso livello dei salari è una delle cause della scarsa popolarità del part-time».

In alcuni settori, come quello del commercio, il part time è particolarmente diffuso, come ad esempio per chi lavora nei supermercati. Si tratta quasi sempre di un part time involontario. Per Bentivogli «il part-time obbligatorio è un problema. Soprattutto nella grande distribuzione, ma anche nel turismo e nella ristorazione si è diffusa l’idea che frazionare l’orario corrisponda a orari più brevi ma più intensi, con minori pause, formali o informali, e pertanto una maggiore produttività del lavoro. E’ chiaro che i salari per orari tra inferiori alle 24 ore sono comunque spesso la metà di un salario basso. Accettabili per un periodo in cui si hanno altri impegni, come lo studio, e altre coperture economiche ma non sostenibili nel medio lungo periodo. Il mix tra orario ridotto e la richiesta di straordinari è spesso dovuto a incapacità nell’organizzazione del lavoro ma anche all’elevato turn-over dei lavoratori viste le condizioni, estremamente precarie».

Il futuro

Lo scenario descritto mostra un quadro del part time in Italia abbastanza rigido sia del punto di vista delle tipologie e quindi delle possibilità di scelta da parte del lavoratore, sia rispetto alle categorie di lavoratori maggiormente coinvolte, su tutte le donne, con una forte presenza dei part time involontari.

Per invertire la rotta, una soluzione potrebbe essere incentivare proprio l’aspetto della volontarietà: «Credo che il legislatore italiano, in conformità ai principi europei, debba incentivare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria, ampliando le ipotesi in cui la scelta di tale tipologia contrattuale non sia la conseguenza di una decisione presa dal lavoratore per mancanza di alternative a tempo pieno o di una decisione unilaterale del datore di lavoro», dice Giorgia Casiello: «Ritengo che oggi la legge italiana non sostenga adeguatamente la scelta unilaterale del part time del lavoratore».

Negli ultimi anni qualcosa si è mosso, ma «nonostante l’ampliamento, anche grazie all’attuazione nel 2022 di una direttiva europea del 2019 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per genitori e i prestatori di assistenza, delle esigenze qualificate che fanno sorgere il diritto alla trasformazione del contratto da full-time a part-time, le stesse rimangono ancora limitate», conclude Casiello: «Solo un significativo ampliamento delle ipotesi in cui è riconosciuto il diritto al tempo parziale, includendovi soprattutto quelle in cui il lavoratore dimostra di avere determinate esigenze familiari, di cura o studio, garantirebbe la corretta attuazione del principio di volontarietà, facilitando il passaggio a tempo parziale del lavoratore che matura il bisogno di più tempo libero».

Necessario, quindi, intervenire sulle disposizioni attuali, rendendole in linea con i tempi e le esigenze che cambiano, guardando anche, ancora una volta, oltre i nostri confini.

Chiara Del Priore

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