Sul fatto che la riforma del governo Renzi sia o meno di sinistra si sono scritti chilometri di pagine: spesso studi preliminari che poco hanno a che vedere con valutazioni empiriche (per esempio quelli dell'Ocse e della Banca D’Italia) o “colorite” storie personali che in certi casi non hanno nulla a che vedere con il Jobs Act, vedi la situazione dell’ abuso dei voucher lavoro, oggi regolamentati con la tracciabilità digitale da decreto legge.
Iniziamo con il rispondere a coloro che vedono nel Jobs Act un aumento della precarietà, dettato dal fatto che è stata introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Su questo sottolineo un tipico problema che spesso accompagna i critici: ovvero dimenticare da dove si è partiti. Così descriveva il mercato del lavoro nel 2013 il Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie 2014, quando ancora il primo ministro era Enrico Letta: sinteticamente si può evidenziare come nell’anno 2013 emerga l’associazione “incertezza economica” e “tipologia contrattuale”, con un ruolo preminente dei rapporti di lavoro a termine ed un mancato risvolto reale degli interventi normativi per facilitare l’istaurarsi del rapporto a tempo indeterminato.
Insomma gli stessi tecnici dell’allora ministro Giovannini – ancora prima che un serio dibattito sull’articolo 18 prendesse piedi (si parlava soprattutto della proposta di Boeri e Garibaldi) – sottolineavano come, analogamente a quanto avveniva negli anni precedenti, i nuovi rapporti nel mercato del lavoro fossero caratterizzati da “precariato dirompente”.
Ad eccezione delle modifiche del Decreto Poletti sul contratto a tempo determinato – giurisprudenza comunitaria permettendo – il governo Renzi ha cercato in tutti i suoi interventi di favorire la stabilità dei rapporti di lavoro, a partire dalla sostanziale eliminazione del contratto a progetto, strumento normativo che era già stato parzialmente migliorato dalla Riforma Fornero ma che restava oggetto di abusi, mascherando spesso veri e propri rapporti di lavoro subordinati. Il problema è sempre stata la verifica dell’attuazione delle regole.
A ciò aggiungo che ad accompagnare il Jobs Act c’è anche la riforma del codice degli appalti, la quale si spera permetta il “concreto” rispetto della “clausola sociale” – anche in questo caso il problema è sempre stata la verifica dell’attuazione delle regole – riducendo il rischio dei classici “furbetti” che vincevano al massimo ribasso a danno delle retribuzione e del lavoro delle persone coinvolte in questi appalti.
Tornando al Jobs Act, il tema centrale non è tanto quello di aver o meno creato più lavoro, cosa che empiricamente – ovvero un’associazione causale tra norma e incremento occupazionale – non è mai stata dimostrata da nessuno studio, dimenticando però il probabile effetto prodotto da centinaia (se non migliaia) di ulteriori variabili socio-economiche come export, spesa pubblica, mercato finanziario, e così via.
Piuttosto la vera domanda centrale è se la riforma abbia favorito o meno la stabilizzazione dei lavoratori precari, certo anche per effetto del combinato disposto (ovvero la combinazione con gli esoneri contributivi); d'altronde il “mix” aveva proprio questo obiettivo e la tabella seguente non lascia dubbi. Sì, c’è stata una maggiore stabilizzazione dei lavoratori.
Qualcuno obietterà che gli incentivi potevano essere più selettivi, ma proprio il caso “fallimentare” degli incentivi proposti dal governo Letta dovrebbe farci riflettere. Se si fossero messi dei paletti, a parte il rischio di un possibile effetto sostituzione, probabilmente avremmo ottenuto un risultato nettamente inferiore.
Resto convinto che l’affermazione di Renzi che il Jobs Act è una riforma di sinistra sia assolutamente condivisibile: coloro che criticano la legge dovrebbero ricordarsi del livello di precariato presente nel 2013 , un livello insostenibile, dove la stabilizzazione si poteva considerare più come un “premio alla lotteria” piuttosto che la conferma delle proprie capacità mostrate.
Riforma o no, vorrei spronare l’esercito dei giovani disoccupati: più di una “garanzia del lavoro”, dovrebbero fare proprio il principio “ti trovi o ti crei un lavoro”, utilizzando appieno la mobilità all'estero che non va vista come fuga dei cervelli, ma piuttosto come possibilità di diventare cittadini del mondo e che, non dimentichiamolo, è aperta a profili professionali medio-bassi. A chi pensa di avere notevoli competenze, e almeno un minimo di esperienza, suggerisco invece di considerare la via dell’auto-impiego.
Francesco Giubileo*
*esperto di servizi per l'impiego e consigliere di amministrazione di Afol Metropolitana
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