Centri per l’impiego, la riforma del lavoro riuscirà a rilanciarli? Per ora servono solo al 3% dei disoccupati

Lorenza Margherita

Lorenza Margherita

Scritto il 12 Mag 2012 in Approfondimenti

Tra i punti chiave messi sotto i riflettori nel disegno di legge Fornero, dall'articolo 59 al 65, è esposto un lungimirante anche se ancora poco definito tentativo di riforma delle politiche attive: le azioni volte all’implementazione del cosiddetto workfare, esatto contrario delle politiche assistenzialiste del welfare, hanno lo scopo di proporre interventi in grado di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. stage lavoroL’intento è di riportare in primo piano l’attività degli organismi pubblici preposti alla gestione dell’occupazione. Sulla base del decentramento normativo a favore delle Regioni e delle Province intrapreso con il decreto legislativo 469/1997 (la cosiddetta riforma Bassanini), la successiva riforma del mercato del lavoro (il decreto legislativo 276/2003, attuazione della legge Biagi) ha stabilito che l’avviamento al lavoro non è più monopolio dello Stato, aprendo le porte all’intermediazione privata ed istituendo, al posto degli uffici di collocamento, i centri per l’impiego (cpi). Le funzioni riconosciute a entrambi gli organismi si articolano sull’offerta di servizi d’intermediazione, formazione e orientamento. In particolare i 539 cpi presenti sul territorio nazionale si occupano di aggiornare l’archivio anagrafico degli iscritti in cerca di lavoro, certificano lo stato di disoccupazione e promuovono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro - anche a livello europeo con il servizio Eures - coinvolgendo circa 10mila impiegati che indirizzano i loro servizi a un milione e mezzo di persone. Inoltre, a far da ponte tra i due sistemi di collocamento, pubblico e privato, dall’ottobre 2007 è stato creato il nuovo portale Cliclavoro in cui sono confluiti i dati contenuti negli archivi della Borsa nazionale del lavoro.
I cpi però non sono riusciti a diventare un vero punto di riferimento: secondo gli ultimi dati Isfol-Plus, nel 2010 circa il 3% di chi cercava lavoro lo ha trovato rivolgendosi a queste strutture, mentre oltre il 30% ha utilizzato con successo il canale informale costituito da parenti e amici. Ciò significa che appena tre disoccupati su cento sono riusciti a ricollocarsi grazie ai servizi per l’impiego.
Questi dati hanno reso urgente un ripensamento delle strutture pubbliche per il collocamento, direzione percorsa dal ddl Fornero, che ha alimentato un acceso dibattito. Chi propende per una riforma dei cpi in chiave anglosassone, con un maggior affidamento all’intermediazione gestita da attori privati, non sembra considerare l’incidenza, sull’insuccesso italiano, della scarsità di risorse impiegate: nel periodo a cavallo tra il 2006 e il 2010, il nostro paese ha incrementato gli investimenti in progetti di politiche attive, passando dall’1,3% (vedi tabella accanto) del Pil all’1,85% (dato Isfol-Plus 2010) ma questo sforzo non è stato sufficiente.  In media sono stati spesi poco più di 5,2 miliardi di euro, importo modesto se confrontato con i 19,3 miliardi di euro investiti per i sussidi passivi di sostegno al reddito. Anche il rapporto tra il numero di addetti ai lavori e bacino d’utenza dei servizi erogati dai cpi si attesta ben sotto la media europea. In Italia sono impiegate meno di 10mila risorse, mentre in Paesi popolosi quanto il nostro, come Francia e Germania, si contano rispettivamente il triplo e il sestuplo di addetti ai lavori. Nei cpi del nostro Paese ci sono addirittura meno dipendenti di quelli attivi in Svezia, la cui popolazione è di circa 9 milioni di abitanti contro i nostri 60.
Ma quali prospettive si aprirebbero con la riforma?
Il disegno di legge vuole conferire nuova vitalità ai cpi, raffinando le occasioni di incontro tra chi offre o cerca lavoro. L’articolo 59, al comma 1, introduce nuovi standard nazionali per gli obblighi di erogazione dei servizi da parte dei centri e, contemporaneamente, prescrive una maggiore attenzione sia al contesto produttivo territoriale sia alle competenze professionali del disoccupato.
Inoltre, sull’esempio di Danimarca, Svezia e Germania, all’articolo 60 è presentato un programma di monitoraggio e valutazione delle attività dei cpi anche ai fini dell’accesso ai finanziamenti del Fondo sociale europeo. In pratica è prevista la costituzione di una banca dati predisposta dall’Inps (nuovo soggetto autorizzato all’intermediazione) dove i cpi inseriranno quotidianamente dei report sulla proprie attività nei confronti dei beneficiari di ammortizzatori sociali, per creare una piena convergenza tra politiche attive e passive.
Infine il ddl tocca uno dei punti fondamentali per la riuscita dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro: il reinserimento attraverso una valida riqualificazione professionale. Come già previsto dalla L. 247/2007 è nuovamente delegato all’esecutivo – con termine di sei mesi dall’entrata in vigore della riforma - il compito di adottare il riordino della normativa riguardante la fruizione dei servizi, inclusi quelli di formazione, offerti dai centri per l’impiego.
I cpi possono giocare un ruolo fondamentale nel favorire i meccanismi di flessibilità in entrata e in uscita che l’impianto del ddl ha strutturato. La sfida da raccogliere attraversa la coerenza globale dei contenuti di tutta la riforma, alla luce del futuro post-crisi che aprirà le porte ad un mercato del lavoro sempre più globalizzato.

Lorenza Margherita

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