Maternità, la guerra delle italiane precarie e squattrinate: ma i padri combattono o disertano?

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 16 Set 2014 in Articolo 36

conciliazione vita/lavoro discriminazione maternità paternità

Fare figli in Italia? Una battaglia quotidiana: prima, durante e dopo. Per questo il nuovo libro della giornalista Elisabetta Ambrosi – già autrice cinque anni fa, a quattro mani con Alessandro Rosina, del profetico "Non è un paese per giovani" – si intitola Guerriere. Sottotitolo: «La resistenza delle nuove mamme italiane».

Dentro c'è tutto. La difficoltà di scegliere la maternità quando si è precarie, con tutti gli annessi e connessi di contratti che non offrono tutele, stipendi troppo bassi, sussidi spesso inesistenti. Ci sono le storie di chi è arrivata alla maternità attraverso la fecondazione assistita o l'adozione, con costi altissimi e in costante lotta con normative assurde. C'è il parto, l'allattamento, ci sono le voci di chi sceglie la via "naturale" e chi classifica l'esistenza del latte artificiale come "cultura". C'è il grande capitolo della gestione della casa e del trantran familiare: cucinare, pulire, avere o no degli aiuti (che nella maggior parte dei casi sono anche loro donne, anche loro madri), trovare posto al nido, e poi scegliere la scuola, gestire compiti a casa e malattie e viaggi e vacanze.

«Questo libro è fatto di voci, di amiche e conoscenti, ma anche di donne con cui sono venuta in contatto casualmente attraverso il mio blog, suddivise in quattro parti che indagano il nostro quotidiano, le battaglie tra le mura domestiche e fuori casa» spiega l'autrice, a sua volta mamma di un quattrenne, nelle prime pagine: «Il posto di lavoro che c’è e a volte scompare, il corpo che cambia, l’organizzazione della giornata tutta da ripensare e i costi che rivoluzionano la vita».

Mancano però le voci maschili. Il coro, è vero, è polifonico: ma tutto al femminile. Non ci sono i padri: drammaticamente, fin dalla prima pagina. Nell'introduzione Ambrosi racconta una sua giornata tipo, scegliendo proprio – e certo non a caso – una giornata senza il marito, in trasferta per lavoro. E tutto il libro continua così: le donne parlano sempre al singolare, raccontano di come affrontano questo o quel problema, di quel che fanno e non fanno per il loro bambino. Sempre irrevocabilmente al femminile singolare.

Gli uomini spuntano a volte, in una riga qua e là, come pallide figure di sfondo, e quasi sempre il ritratto è impietoso: «Quando Sabrina ci raccontava il suo allattamento complicato provavo rabbia verso suo marito. Di sicuro si sarà sentito impotente, in fondo i mariti non sono degli esperti di allattamento al seno» si legge nel capitolo dedicato alla depressione post-partum: «Certo, lavora in un’azienda di telecomunicazioni dove un giorno sì e l’altro pure annunciano esuberi di massa. Però niente mi toglie dalla mente che, anche se partorire non è come subire un incidente, lasciare una neomamma sola nella convinzione che in qualche modo se la caverà sia come lasciare un investito sul marciapiede, invitandolo a fare da sé». E la riflessione di Ambrosi si chiude con un rovesciamento della prospettiva: «Niente mi toglie dalla testa che dietro l’etichetta di depressione post partum ci sia molto altro: come la solitudine in cui sono lasciate le donne, a casa senza il proprio compagno, perché i congedi parentali non esistono e quando ci sono non vengono usati; l’assenza di un’ostetrica che sarebbe essenziale i primi giorni per insegnare i gesti di cura del bambino, innanzitutto l’allattamento, come previsto da altri Stati europei. Sono tutte cause che danneggiano sì l’umore della donna, ma dall’esterno»

Padri assenti, e nessun incentivo da parte dello Stato per aiutarli ad esserci di più, sopratutto nei primi tempi: «Siamo il paese in cui il governo delle riforme per antonomasia degli ultimi anni, quello di Mario Monti, ha introdotto una rivoluzionaria riforma per rendere il congedo di paternità obbligatorio per i padri. Ventiquattro ore! Ventiquattro ore di congedo obbligatorio! Altro che repubblica delle banane!» dice un'altra delle voci protagoniste. E un impietoso confronto con la Germania, dove «il congedo per i padri è pagato quasi al 70 per cento, e se il padre prende almeno due mesi ha un generoso bonus», fa scrivere ad Ambrosi: «Mi chiedo se venga prima l’uovo o la gallina, e cioè se sia la nostra cultura arretrata a partorire leggi mostruose come il congedo simbolico – di un simbolismo che offende – oppure siano le (finte) riforme ad alimentare e confermare una cultura ferma a cinquant’anni, anzi cent’anni fa. Probabilmente, mi rispondo, entrambe, nel solito italianissimo circolo vizioso, che tocca anche a noi spezzare, lottando in casa».

Per arrivare agli uomini bisogna attendere fino a pagina 138, e il capitolo a loro dedicato
- piccolo piccolo, solo sei pagine su oltre 250 - già dal titolo è tutto un programma: «Padri (ancora) troppo lontani».  L'autrice si auto-utilizza come esempio: «Se passate per casa mia potreste pensare che la parità sia stata raggiunta e che i padri di oggi siano cambiati: lavano le orecchie dei bambini e li accompagnano a scuola. In realtà, però, le cose non stanno sempre così, anzi. Perché se di acqua ne è passata sotto i ponti da quando le donne stavano a casa e gli uomini al lavoro, di sicuro si tratta ancora di un fiumiciattolo, più che di un torrente in piena». E infatti poco più avanti aggiunge: «Anche nel mio caso, non posso fare a meno di constatare una diversità radicale tra me e mio marito. Quando va in ufficio, lui si scorda di essere padre fino al rientro o, meglio, sospende il suo ruolo. Io, invece, anche a distanza, mi destreggio tra ciò che faccio e il pensiero di Paolo, e organizzo al tempo stesso la mia giornata e quella di mio figlio».

E allora il senso di questo libro forse sta in tre righe dell'introduzione firmata da Lia Celi, cinquantenne autrice satirica emiliana, a sua volta autrice – nel 2010 – del libro «Piccole donne rompono», sottotitolo «Diario di una mamma imperfetta».  Celi denuncia che ogni donna avrebbe un «potenziale alleato prezioso», vale a dire appunto il padre del bambino, che però spesso «non combatte al suo fianco, ma si comporta come un osservatore Onu, testimone interessato, non coprotagonista, di un conflitto che non lo riguarda direttamente». Notando poche righe dopo che nel libro di Ambrosi «i padri dei bambini sono presenze evanescenti, figure sullo sfondo. Non lottano insieme alle loro donne per ottenere una società e un mondo del lavoro a misura di genitori e di bimbi, ma nei casi migliori comprendono, fiancheggiano, simpatizzano. Nemmeno i più progressisti si spingono a dire che madri e padri devono potersi dividere alla pari figli e lavoro. Al massimo, sostengono che le donne devono poter "conciliare"».

Morale della favola? «Ora tocca a noi combattere casa per casa, a cominciare dalla nostra, sottraendoci ai ricatti affettivi e all’alibi di una pace famigliare basata sulla disparità» incalza Celi: «Dicendo agli uomini (al nostro uomo) che non c’è alcuna buona ragione bioantropologica perché anche loro non debbano sforzarsi di conciliare lavoro e famiglia, o perché solo noi mamme dobbiamo litigare con i nostri datori di lavoro, rischiando di perderlo, e sbatterci fra palestre e piscine con la paura di non trovare aperto il supermercato. Dicendo agli uomini che, se vogliono la camicia sempre stirata, quello è il ferro e quella è l’asse da stiro o, in alternativa, quella è la polo». E lui se rifiuta sia il ferro che la polo? «Non dobbiamo arrenderci. Dobbiamo coinvolgerlo, a ogni costo, con la grinta e l’allegria di una femminista ventenne del 1976 con i capelli ricci e la sottana a fiori. Finché non ci sbattono il naso anche i maschi, sulle difficoltà di mettere insieme lavoro e doveri famigliari, non combatteranno mai insieme a noi per ottenere i servizi grazie ai quali i padri e le madri del Nord Europa hanno sempre tanti figli e un’aria affabile e rilassata, mentre gli omologhi italiani hanno un figlio solo e una perenne smorfia amara e rabbiosa».

Perché se è vero, come sostiene Elisabetta Ambrosi, che «il mondo dovrebbe capire che tagliare i capelli a un ragazzino o aiutarlo a imparare il teorema di Pitagora è un gesto politico, altro che privato. Partoriamo, cresciamo, educhiamo i futuri cittadini di questo paese», è anche vero che – parto a parte – i figli nella maggior parte dei casi si fanno in due. Ed è a due genitori che si devono ascrivere oneri e onori. E bisogna dunque puntare a che il prossimo libro si intitoli in un altro modo: «Guerriere e guerrieri».

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