Great resignation, il fenomeno delle grandi dimissioni c'è davvero anche in Italia?

Benedetta Mura

Benedetta Mura

Scritto il 05 Lug 2022 in Approfondimenti

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Giovani e con il cambiamento tra le mani. Sono loro, la generazione Z. Nati tra il 1996 e il 2010 e cresciuti nell’era digitale, sono i portavoce di un nuovo stile di vita, più dinamico e flessibile dentro ma soprattutto fuori le mura di casa. Il fenomeno della great resignation li riguarda da vicino, anzi parte proprio da loro. Il termine viene dall’inglese “grandi dimissioni” ed è stato coniato nel maggio 2021 da Anthony Klotz, professore di management all'Università del Texas.

L'esodo dei giovani dal posto di lavoro è un fenomeno che ha generato nell’ultimo anno un boom di dimissioni volontarie negli Stati Uniti, cogliendo impreparate il 75% delle aziende. I millennials (così si definiscono, grossomodo, le persone nati tra il 1981 e il 1995 – inizialmente il termine stava a significare che fossero diventate maggiorenni nel 2000 o negli anni immediatamente successivi) ma soprattutto la gen Z, nati più o meno tra il 1996 e il 2010, sostenitori della filosofia “yolo” (you only live once, si vive una volta sola), sono sempre più attenti al benessere personale, alla sostenibilità e all'equilibrio tra il tempo dedicato al lavoro e alla vita privata.

Daniele Ferretti, ricercatore CensisMa la great resignation è arrivata anche in Italia? Secondo l'istituto di ricerca Censis la risposta è no: «In Italia non c’è la fuga dal lavoro». Però «si rimane al proprio posto scontenti e insoddisfatti. Quattro ragazzi su dieci dicono che preferiscono tenersi il proprio lavoro, convinti di non trovarne uno migliore» dice il ricercatore Daniele Ferretti. Affermazioni confermate nel 5° rapporto Censis-Eudaimon. La ricerca – condotta proprio da Ferretti a febbraio 2022 – ha individuato un campione statisticamente rappresentativo di 1000 persone, che hanno risposto al questionario digitalmente o al telefono. «Abbiamo notato  che c’è
mai come prima un cambiamento rapido di opinioni, sensazioni e percezioni».

Per la Repubblica degli Stagisti Ferretti ha estrapolato dal suo studio i dati riguardanti solo la fascia d’età dei più giovani, tra i 18 e i 34 anni.
L’81% di loro ammette di aver avuto ansia nel pensare di ritornare alla vita normale e sette giovani su dieci 10 dichiarano di aver vissuto in condizioni di stress. Per quanto riguarda le necessità, invece, i giovani chiedono più reddito (55%, due punti percentuali in più del dato medio nazionale dei lavoratori), più servizi di welfare (42%) e più supporto su aspetti specifici del proprio lavoro (30%, qui solo un punto in più del dato medio nazionale). «Nonostante ciò, però, quel fenomeno di dimissioni di massa che sta accadendo in altri Paesi a partire dagli Usa in Italia non è ancora presente» dice Ferretti: «I giovani vivono la quotidianità con incertezza, segnati dalla pandemia e dalla svalutazione del lavoro più di altre categorie. Tra i lavoratori italiani il pragmatismo vince sulla tentazione della great resignation».

Cifre e dichiarazioni che sono però non perfettamente allineate ai dati delle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro e della Banca d’Italia. Secondo questi dati ufficiali nei primi dieci mesi del 2021 sono state rilevate oltre 700mila cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, 40mila in più – cioè +6% – rispetto a due anni prima. Ma prendendo in considerazione solo il terzo trimestre 2021, e confrontandolo con lo stesso periodo del 2019, le dimissioni sono cresciute del 20%. Mentre nel quarto trimestre l’incremento è del 14% e risulta ancor più consistente se guardiamo alla fascia dei 15-24enni (+22%) e a quella dei 25-34enni (+16%).

Roberto Sica, Ceo OpenknowledgeA mettere l’accento proprio su questi dati ci ha pensato lo studio condotto dal gruppo Bip (società di consulenza che da molti anni fa parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti). Per Rosario Sica, ceo di OpenKnowledge, una delle realtà del gruppo Bip, la great resignation non è un fantasma: la si può anzi toccare con mano. «Il fenomeno delle grandi dimissioni è partito dagli Usa ed è già arrivato nel nostro Paese
» afferma: «La pandemia ha enfatizzato e accelerato questo processo. Da una parte le aziende stanno cercando di tornare a dove ci eravamo lasciati, prima del 2020, ma i giovani non vogliono. Loro adesso pretendono di gestire il proprio tempo».

La ricerca di Bip, «qualitativa e non statisticamente rappresentativa», è stata rivolta a un campione di 300 persone tra i 20 e i 25 anni. «È un numero significativo perché in generale i giovani che lavorano nelle aziende sono davvero pochi; in Italia si entra nel mondo del lavoro a ventisette, ventotto, trent'anni, in ritardo rispetto agli altri Paesi europei» aggiunge il ceo di OpenKnowledge: «Il campione degli intervistati lavora nei gruppi Bip, Eon e Sia e ha compilato volontariamente il questionario tramite monkey survey, una piattaforma digitale specializzata». Lo studio è stato poi pubblicato con la Harvard Business Review a novembre 2021. Una survey completamente diversa da quella Censis, in quanto ha raccolto solo le risposte dei 300 zoomer dipendenti nelle aziende di riferimento, analizzando le percezioni di un settore specifico, quello della consulenza.

Più o meno un 60% degli intervistati uomini e un 40% donne, sette su dieci dal nord Italia, due dal centro, uno dal sud; infine un 18% che lavora e studia contemporaneamente: il ritratto che emerge degli zeta è quello di una generazione pragmatica, che ha immaginato il percorso di studi valutandone anche gli sbocchi lavorativi. La maggioranza delle persone che hanno partecipato all’indagine, infatti, dichiara di svolgere un lavoro coerente con la formazione ricevuta e solo il 24% degli intervistati fa un lavoro poco in linea con quanto studiato, e un 3% per niente. La concretezza degli zeta si manifesta anche in relazione alle aspirazioni: nonostante la maggior parte di loro dichiari che il lavoro svolto è poco (31%) o per niente (28%) in linea con quanto sognavano di fare, sei lavoratori gen z su dieci ritengono il mondo del lavoro in linea con quanto immaginato.

Per i giovani, però, una cosa è certa: il benessere rimane una priorità. Ad intaccarlo, però, c’è lo stress. Quattro intervistati su dieci si sono sentiti stressati soprattutto durante la fase di ingresso nel mondo del lavoro. Per altri quattro, invece, il percorso di inserimento è stato snello e solo due lo hanno considerato facile e immediato. Un altro aspetto fondamentale per gli zoomer è la crescita. Questa si può ottenere prendendo parte alle dinamiche di team (43%), imparando dai più grandi (37%) e prendendosi il giusto tempo per maturare (14%).

stage lavoroL’azienda viene concepita come il luogo in cui imparare, avere dialogo, trasparenza e soprattutto flessibilità. E quello che non deve mai mancare è la fiducia tra superiori e dipendenti. Secondo Insync Surveys, infatti, le persone ingaggiate hanno una produttività del 18% più alta e realizzano un lavoro. Secondo il ceo di OpenKnowledge, dunque, «oggi le aziende devono ripensare i modelli organizzativi e lavorativi, prendendo ciò che c’era di buono nel periodo pre pandemia e portandolo nella nuova normalità».

E per quanto riguarda gli aspetti retributivi? «Gli zoomer sono meno attaccati allo stipendio: piuttosto si chiedono se quello che fanno ogni giorno a lavoro è in linea con la loro integrità personale
» risponde Sica: «Hanno bisogno di instaurare relazioni con i propri capi, sentire empatia ed essere in sintonia con il contesto lavorativo». Prerogative che si discostano totalmente da quelle dei nostri zii e genitori, appartenenti alla generazione dei baby boomers – nati subito o un po' dopo la seconda Guerra Mondiale, tra il 1946 e il 1965 – immersi in un contesto culturale diverso in cui il posto fisso era la regola, abituati a sacrificare la vita privata per il lavoro e a proprio agio nell’instaurare una relazione verticale con i propri capi.

Stili di vita e lavoro non più concepibili dai ventenni e trentenni di oggi. «Le persone si chiedono perché lavorano mentre le vecchie generazioni non si sono mai posti questa domanda», sottolinea Rosario Sica: «La great resignation non è solo un fenomeno lavorativo ma il cambiamento di una forma mentis. È la punta dell’iceberg che oggi vediamo solo in superficie ma col tempo ci accorgeremo di tutti gli strati che ci sono sotto il livello dell’acqua».

Benedetta Mura

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