Scritto il 08 Feb 2021 in Notizie
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In questi giorni il mondo della politica sta raccogliendo suggerimenti e proposte in merito al Recovery Fund, cioè al “Piano italiano di Ripresa e Resilienza” che dettaglia come il governo ha intenzione di spendere i 210 miliardi in arrivo dall’Europa. Attraverso l’acquisizione di memorie scritte oppure di audizioni la Camera dei deputati sta raccogliendo materiale che sarà messo a disposizione dei parlamentari per il delicato lavoro delle prossime settimane. Oltre alle “solite” parti sociali - sindacati, associazioni di categoria - vi sono anche realtà meno scontate: tra i soggetti chiamati a dire la loro c’è stata anche la Repubblica degli Stagisti; la Commissione Lavoro ha chiesto poi contributi, tra gli altri, anche alla Consulta nazionale per il servizio civile universale, al movimento Donne per la salvezza - Half of it, alla Conferenza nazionale enti servizio civile...
Una delle memorie arriva dal think-tank Tortuga, un “collettivo” di una cinquantina di studenti, ricercatori e professionisti del mondo dell’economia e delle scienze sociali che dal 2015 svolge attività di ricerca e redige proposte di policymaking; l’anno scorso Tortuga ha anche firmato il libro Ci pensiamo noi, sottotitolo «Dieci proposte per far spazio ai giovani in Italia», pubblicato da Egea Editore, con una prefazione dell'ex presidente Inps Tito Boeri e di Vincenzo Galasso (già autori insieme, nel 2007, del pamphlet Contro i giovani – come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni).
All’interno della memoria, lunga una trentina di pagine, c’è un capitoletto dedicato al diritto allo studio universitario. I ricercatori di Tortuga inquadrano il tema a partire da un dato: l’Italia presenta uno dei più bassi tassi di studenti fuori-sede rispetto al panorama europeo. «Il 69% degli studenti universitari abita con i genitori, contro il 36% della media europea» si legge nel documento: «Per quanto riguarda gli alloggi per studenti, in Italia ci sono poco più di 48mila posti, un numero di gran lunga inferiore rispetto ai 165mila disponibili in Francia e ai 192mila della Germania, anche tenendo conto della differenza nella popolazione studentesca complessiva».
E dunque praticamente da noi quasi nessun fuori sede può contare su un alloggio universitario: «In Italia solo il 3% della popolazione universitaria riesce a trovare posto in uno studentato, contro una media europea del 18%». Risultato: gli studenti universitari fuorisede italiani si devono accollare spese molto più alte di vitto e alloggio, che si mangiano infatti il 54% del loro intero budget secondo l’Indagine Eurostudent.
Senza dimenticare il caso tutto italiano degli «idonei non beneficiari» di borse di studio e la recentissima presa di posizione della Corte dei Conti in merito: «Si tratta di un’anomalia ancora sussistente: sono studenti che, per mere ragioni legate alla insufficienza dei fondi, non si vedono riconosciuti i benefici, pur rientrando pienamente in tutti i requisiti di eleggibilità per l’accesso agli stessi».
«Sanare questo problema risulta fondamentale per garantire a coloro che hanno diritto ad un sostegno pubblico la certezza di poterlo ricevere» scrive il Think-tank Tortuga, ricordando come il problema sia già in via di risoluzione: «Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un progressivo miglioramento su questo fronte: ci sembra importante ora un ultimo sforzo per chiudere il gap».
E dunque la proposta è quella di «incrementare le risorse destinate agli investimenti in alloggi per studenti e nelle borse di studio». Come? Spostando «integralmente su questi capitoli di spesa le risorse attualmente destinate all’incremento della c.d. no-tax area (una spesa, tra l’altro, di natura ricorrente). Il Governo potrebbe inserire come target di questi interventi l’azzeramento degli idonei non beneficiari e il raddoppiamento dei posti disponibili per alloggi universitari nell’orizzonte temporale di spesa del PNRR» [che sta per Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ndr].
E non si tratta solo di trovare le risorse adeguate, ma anche di erogarle in maniera tempestiva. Perché un altro annoso problema relativo al diritto allo studio consiste nel fatto che le borse, quando arrivano, arrivano troppo spesso in ritardo. Costringendo le famiglie ad anticipare le spese: peccato che non tutte possano farlo. «La certezza di ricevere in tempo la borsa di studio aumenterebbe le chances che la famiglia sostenga il percorso di studi, soprattutto quando questo avvenga al di fuori della propria città natale» scrivono i ricercatori di Tortuga: «La certezza che le spese possano essere coperte adeguatamente risulta, infatti, fondamentale nella scelta».
Ricevere la borsa di studio all’inizio dell’anno funzionerebbe anche da incentivo alla performance universitaria: «Considerando gli alti tassi di abbandono, si potrebbe fornire la borsa di studio all’inizio dell’anno accademico per poi richiederne indietro una parte nel caso in cui lo studente non fosse stato in grado di raggiungere gli obiettivi richiesti dal punto di vista accademico».
Anche perché non di rado capita che la mancanza di liquidità sia il motivo di un abbandono universitario: «La ricezione della borsa di studio all’inizio e non verso la fine dell’anno sarebbe chiaramente benefica a livello di organizzazione familiare», dunque, «perché ridurrebbe le necessità di “anticipare” fondi allo studente per i primi mesi di studi. Si risolverebbe quindi il problema di liquidità, che spesso è reale quanto la disponibilità vera e propria».
L’Italia ha da anni un problema con l’istruzione universitaria. L’Istat attesta che la quota di popolazione con titolo di studio terziario continua a essere molto bassa: il 19,6% contro il 33,2% della media europea. In particolare i 30-34enni con istruzione universitaria in Italia erano il 19,2% nel 2008, e sono cresciuti di soli otto punti percentuali in oltre dieci anni, raggiungendo il 27,6% nel 2019. Nello stesso anno 2019 la media registrata di 30-34enni laureati nell’Unione europea era pari a 41,6%: siamo indietro di ben quattordici punti percentuali.
Quindi il fatto che si debba trovare un modo per stimolare gli italiani a fare l’università è incontrovertibile. In questo contesto il freno rappresentato dal denaro non va sottovalutato: «Le famiglie con meno risorse potrebbero desistere dall’iscrivere un figlio o una figlia all’università consapevoli che se anche la borsa venisse assegnata, arriverebbe dilazionata nel tempo creando eccessivo disagio per un determinato periodo di tempo». E dunque dare i soldi all’inizio dell’anno accademico potrebbe convincere le famiglie più refrattarie a permettere ai propri figli di fare l’università.
[La foto della Casa dello studente è di Alessandro Scarcella, tratta da Flickr in modalità Creative Commons]
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