Almalaurea, sale il tasso di occupazione dei laureati ma le retribuzioni restano ancora troppo basse

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 23 Giu 2019 in Notizie

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Tutto sommato ai laureati italiani non andrebbe poi così male dal punto di vista occupazionale. I dati annuali di Almalaurea, presentati nei giorni scorsi alla Sapienza di Roma, parlano di un tasso di occupazione – che include gli stage con borsa di studio – che «è pari, a un anno dal titolo, al 72,1% tra i laureati di primo livello e al 69,4% tra i laureati di secondo livello del 2017» si legge nel comunicato. E c'è un miglioramento rispetto per esempio a quattro anni fa, con una crescita «di 6,4 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 4,2 per i laureati di secondo livello».

«Segnali positivi» secondo Almalaurea, benché un 30% di senza lavoro a un anno dalla laurea non possa considerarsi un buon risultato. Per di più tali percentuali «non sono ancora in grado di colmare la significativa contrazione del tasso di occupazione osservabile tra il 2008 e il 2014 (-17,1 punti percentuali per i laureati triennali; -15,1 per i magistrali)». Dopo cinque anni va meglio. Gli occupati salgono all'88,6% per la laurea di primo livello, all’85,5% per i laureati di secondo livello. E anche qui le curve sono in ascesa rispetto agli anni precedenti.

Si tratta di medie naturalmente. Perché se da una parte 'i soliti noti', ovvero le lauree del gruppo ingegneristico, economico-statistico e medico, raggiungono il picco dell'89% di occupati, per chi ha scelto lauree del gruppo giuridico, letterario, psicologico e biologico, i disoccupati sono ben il 20%. Addirittura il tasso di occupazione dei laureati magistrali a ciclo unico del gruppo giuridico  a cinque anni dal conseguimento del titolo  è un avvilente 76%.

In generale si può però continuare a dire che studiare paghi e che prendere la laurea convenga perché «i laureati godono di vantaggi occupazionali importanti rispetto ai diplomati di scuola secondaria, che si fermano al 65,7% nella fascia dai 20 ai 64 anni» si legge nel report.

L'aspetto che invece continua a non decollare è quello delle retribuzioni. Lo stipendio medio a un anno dalla laurea è di «1.169 euro per i laureati di primo livello e a 1.232 euro per i laureati di secondo livello».
Un aumento in realtà si rileva, spiega lo studio: 13 e 14 punti in più rispettivamente per i due gruppi. Ma il trend «non è ancora in grado di colmare la significativa perdita retributiva registrata nel periodo più difficile della crisi economica che ha colpito i neolaureati, ovvero tra il 2008 e il 2014». In quegli anni gli stipendi di chi si laureava calarono del 22 e del 17 per cento.

E neppure dopo un quinquiennio dal titolo il quadro dei laureati di oggi diventa roseo. «La retribuzione mensile è pari a 1.418 euro per i laureati di primo livello e 1.459 euro per quelli di secondo livello»
. Piccoli segnali di ripresa ci sono, ma anche qui essi «non sono in grado di colmare la perdita retributiva intervenuta nel periodo 2012-2015».

Non stupisce allora che sia quasi la metà la quota di laureati che si dice disposta a andarsene all'estero per lavorare. Sono oggi il 47,2%, quando «erano il 39,9% nel 2008». Uno su tre dichiara di essere disponibile a trasferirsi addirittura in un altro continente. «La realtà è che se ne vogliono andare» sbotta in uno dei panel finali del convegno Giuseppe Cirino della Federico II di Napoli [nella foto sopra]. «E l'università deve essere considerata responsabile se il suo capitale umano se ne va da un'altra parte alla prima offerta di lavoro, per una posizione migliore» continua, «per poi tornare in Italia solo per turismo». Sono gli stessi dati di Almalaurea a confermarlo: «Il premio salariale della laurea rispetto al diploma, in Italia, di circa il 38%, non è elevato come in altri Paesi europei: la media Ue è del più 52%, in Germania si sale a più 66 e in Gran Bretagna a più 53».

La laurea almeno «consente di reagire meglio ai mutamenti del mercato del lavoro, disponendo chi si laurea di strumenti culturali e professionali più adeguati» sottolinea il report. E proprio per questo è sbagliato pensare che «l'università debba rispondere alle esigenze estemporanee di un mercato che cambia molto velocemente trasferendo competenze professionalizzanti» ragiona durante il dibattito Francesco Ferrante dell'università di Cassino, quando invece «si deve creare un sapere che deve durare tutta la vita e modularsi sulla base dei cambiamenti, che non crei vantaggi solo in entrata». Ma ciò non basta a frenare la fuga, e la colpa, rincara la dose Cirino, «è di voi accademici che siete sempre rivolti verso il passato e non verso il presente che va a una velocità stratosferica».

Anche il sistema aziendale ha le sue falle. «È proprio il tessuto imprenditoriale italiano, fatto di piccole e medie imprese per lo più, a non capire spesso quali siano le proprie esigenze occupazionali», fa notare Ferrante. Ne consegue che i laureati saranno poco valorizzati se le imprese non sanno capirli, se si rifiutano perfino talvolta di formarli «lamentandosi che non sappiano fare nulla, quando in tutto il mondo è risaputo che un laureato ha competenze generali che vanno poi declinate in funzione dell'impresa e con costi che sono a carico della stessa».

E poi, altra questione nodale, la contendibilità dei posti. «I disoccupati italiani per cercare un impiego hanno fatto ricorso soprattutto a contatti informali, con amici e parenti in primis: ha intrapreso questa strada l’84,1% dei disoccupati in Italia, rispetto al 67,8 della media europea» si legge nell'indagine Almalaurea. In questo modo «di fatto restano penalizzati quanti non hanno un’adeguata rete di relazioni». Perchè quando si apre un posto di lavoro troppo spesso non viene pubblicizzata la posizione aperta, e quindi non si attiva un procedimento trasparente di candidature e selezione.

La tesi è inequivocabile: «Il nostro
sistema è ancora molto classista» chiosa di Giuseppe Valditara, capo dipartimento per la Formazione superiore e la ricerca del Miur [nella foto a destra]. «I figli del popolo, di chi esercita professioni esecutive, rappresentano appena il 21% della popolazione universitaria». Ergo, «non si favorisce la crescita sociale». E si emigra. Le promesse di investimenti ci sono: «120 milioni di euro per il sistema universitario subito, e altrettanti per le infrastrutture da diluire negli anni». Ma basteranno?


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