Irene Dominioni
Scritto il 12 Lug 2018 in Approfondimenti
Best Stage stage curricolari Università università e lavoro
La transizione tra l’università e il mondo del lavoro è un momento importante nella vita di ciascun giovane: si potrebbe dire che sia un vero e proprio rito di passaggio nel mondo degli adulti, un primo passo verso l’autonomia. In quello che però oggi rappresenta un momento di grande difficoltà per i giovani, a Best Stage 2018 la Repubblica degli Stagisti ha riunito una serie di esperti nella tavola rotonda intitolata “Università, e poi?”, proprio per approfondire le varie sfaccettature e problematiche di questo passaggio.
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, vale la pena di approfondire i risultati del sondaggio presentato a Best Stage con cui la Repubblica degli Stagisti ha indagato il rapporto tra le aziende del suo network e il mondo delle università e dei master, per capire come questi attori agiscono e si rapportano per favorire l’ingresso dei giovani nell’ambito professionale, e soprattutto che cosa le aziende si aspettano e cosa ottengono dalle università. Il primo, confortante dato che emerge dalle ottanta (circa) aziende del panel, riunite in una trentina di gruppi, è che queste sono generalmente soddisfatte dei neolaureati che arrivano loro dalle università: in particolare, il 70% rintraccia nei ragazzi una buona preparazione e il 30% persino eccellente. Certo, ci sono aspetti su cui bisogna migliorare: le carenze rintracciate più frequentemente tra gli studenti sono quelle linguistiche (l’inglese ma non solo) e le soft skills, ormai universalmente considerate un asset fondamentale in ogni ambito lavorativo. Di contro, il voto di laurea conta meno di quanto ci si potrebbe aspettare: il 65% delle aziende lo reputa “molto importante” nel momento in cui seleziona i candidati, e per il 28% è solo “abbastanza importante”.
Inoltre, il career day è il momento di contatto più usato dalle aziende per entrare in contatto con gli studenti, prima scelta per quasi il 20% delle aziende del network, seguito a brevissima distanza dagli incontri ad hoc organizzati tra aziende e studenti in università, e poi dalle testimonianze aziendali in ateneo. Alla domanda su come si potrebbe migliorare ulteriormente il contatto tra aziende e potenziali candidati all’interno delle università, le aziende rispondono che servirebbero più occasioni di contatto diretto gratuito con gli studenti e neolaureati (36%), seguito dalla richiesta di intensificare i processi di preselezione dei candidati da parte degli atenei stessi, e infine l’accesso ai database con i CV dei laureati.
Poste queste premesse, quali sono le problematiche principali del passaggio tra università e lavoro oggi, e come collaborano aziende e università per favorirlo? Se il primo strumento per avviare i giovani al mondo del lavoro è, naturalmente, lo stage, Barbara Rosina, direttrice del Cosp (il centro per l’orientamento allo studio e alle professioni) dell’università Statale di Milano, mette subito le cose in chiaro: su 65mila iscritti al suo ateneo, gli stage attivati ogni anno sono circa 6mila, di cui il 70-80% curriculari. C’è una crescente attenzione da parte dell’università verso il tema dello stage, anche perché «da qualche anno gli atenei vengono valutati a livello ministeriale anche in questo senso», in particolare sulla base del numero di tirocini attivati e della valutazione delle aziende sui tirocinanti. «Io penso che le università debbano farsi fortemente promotrici dei tirocini curriculari» dice l’esperta: «si tratta di formazione al lavoro, ed è fondamentale che dopo l’università si possa arrivare direttamente al lavoro. Ai ragazzi consiglio di non aspettare dopo la laurea per fare uno stage». Molti sono però i giovani che preferiscono ancora laurearsi prima, e poi solo successivamente dedicarsi alle esperienze on the job.
In più, la direttrice del Cosp riporta come ci sia ancora molta confusione: diversi studenti sono infatti convinti, nel momento in cui approdano in un’azienda per un’esperienza di tirocinio, di avere un “contratto” di stage, mentre per definizione lo stage è un’esperienza di formazione e prevede semplicemente una convenzione, non costituendo lavoro. L’università, sottolinea ancora Rosina, cerca di informare il più possibile, ma sarebbe importante che tutti i corsi di laurea promuovessero gli stage già durante il corso di studi, così da dare a ciascuno la possibilità di avere un assaggio di mondo del lavoro e quindi un’idea più chiara su cosa fare dopo.
E le aziende cosa dicono? Paolo Costa, co-founder e direttore marketing e comunicazione di Spindox, è deciso: «Perseguiamo l’obiettivo di inserire stabilmente in azienda più giovani possibili, e cerchiamo ogni giorno di convincere i neolaureati che noi siamo la scelta migliore per un tempo che sia il più lungo possibile». Un approccio sfidante, ma che deve fare i conti con alcune limitazioni peculiari al proprio settore, quello informatico: paradossalmente, infatti, nonostante i profili IT siano oggi tra i più ricercati nel mondo del lavoro, capita che persino loro non abbiano le basi giuste da cui partire per iniziare a lavorare. Questo perché, secondo una ricerca svolta da Spindox su 55 diversi atenei, su 119 insegnamenti universitari, tra lauree triennali e specialistiche in ambito IT, meno della metà (45) impartiscono i linguaggi di programmazione più utili per le aziende. «Abbiamo laureati in informatica da centodieci e lode che non sanno cosa sia JavaScript e che per questo con noi non possono lavorare» spiega Costa. Per sopperire a questi “buchi” Spindox si occupa anche di fare formazione e training specifici per i suoi giovani all’inizio del periodo di stage, ma molti altri giovani, pur avendo un titolo che in teoria è iper-spendibile sul mercato, rischiano di avere più difficoltà del previsto a inserirsi nel mondo del lavoro.
La realtà, quindi è che entrare nel mondo del lavoro oggi può essere difficile per qualsiasi giovane. Rimane il fatto che oggi, più che in passato, esistono lauree “forti” e “deboli”: Marina Timoteo, docente di Diritto privato comparato all’università di Bologna e direttrice del consorzio Almalaurea, racconta che, a cinque anni dal titolo, i laureati magistrali di ingegneria, in materie economico-statistiche e in quelle sanitarie hanno un tasso di occupazione superiore al 90%, mentre i laureati del gruppo giuridico, geo-biologico e letterario si trovano sotto la media. Anche le retribuzioni (di gran lunga inferiori rispetto all’estero) variano molto: dai 1600 euro medi dei laureati nelle materie “vincenti”, le Stem, ai 1200 euro per coloro che hanno un titolo giuridico, mentre il settore psicologico e quello dell’insegnamento presenta buste paga inferiori ai mille euro mensili. Certo, c’è stato un miglioramento rispetto all’anno scorso nel tasso di occupazione dei laureati a un anno dal titolo, ma a fronte di un 63% di studenti universitari che auspica la sicurezza e la stabilità del posto del lavoro, «bisogna rendersi conto che stiamo attraversando un cambiamento strutturale e irreversibile: c’è una necessità di adeguamento culturale» puntualizza Timoteo. In attesa che questo avvenga (e si sa, ci vuole tempo) quali sono allora gli asset più strategici per rendersi “attrattivi” nei confronti dei datori di lavoro? Sicuramente «le esperienze all’estero, il possesso di competenze informatiche e le esperienze di tirocinio curriculare» risponde la direttrice di AlmaLaurea.
Contemporaneamente occorre sfatare il mito che “laurearsi è una perdita di tempo”: secondo Francesco Cancellato, direttore de Linkiesta.it e autore del libro “Né sfruttati né bamboccioni - Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia”, la scelta del percorso di studi all’università andrebbe sicuramente fatta tenendo conto del contesto e del mercato in cui ci si trova. «Questo è il momento migliore per essere giovani, cioè è il momento migliore per aver appreso le conoscenze un minuto prima di iniziare a lavorare» spiega il giornalista: «Con le rivoluzioni della digitalizzazione e dell’automazione degli ultimi vent’anni, le competenze diventano obsolete nel giro di poco. Chi si è laureato più recentemente dovrebbe essere avvantaggiato in questo senso, ma se non si investe nella conoscenza incrementale, il vantaggio dei giovani non esiste». E aggiunge: «il vero mismatch oggi in Italia è che se sei un laureato di alto livello ti trovi o a fare un lavoro sottoqualificato, oppure hai offerte più allettanti che provengono dall’estero, perché in Italia il grosso dei costi si concentra sui lavoratori più anziani».
La rapidità del cambiamento e la richiesta di competenze in continua evoluzione, insomma, è alla base di grandi squilibri nel mondo del lavoro. Anche per questo l’orientamento è un tema centrale: se si pensa che addirittura il 17,4% degli studenti, come rileva Almalaurea, non sa perché non ha scelto un determinato corso di laurea – una percentuale addirittura raddoppiata rispetto al 2006 – e che si sono persi 24 punti percentuali nel numero di iscrizioni all'università tra il 2005 e il 2015, c’è da preoccuparsi. E nonostante un ateneo come la Statale non abbia perso iscritti «sono moltissimi coloro che abbandonano gli studi oppure che “vivacchiano”», riporta Barbara Rosina.
Ovviamente, comunque, l’università non è l’unica scelta possibile dopo le superiori: Cristina Tajani, assessora al lavoro del Comune di Milano, cita a questo proposito l’esempio delle scuole civiche che il Comune gestisce soprattutto nell’ambito delle cosiddette “performing arts”, «percorsi ormai praticamente equipollenti ai titoli universitari e molto professionalizzanti», in ambiti che vanno dal teatro alla musica, il cinema e l’interpretariato. In più, ci sono percorsi formativi specifici rivolti a fasce protette, dove lo strumento dello stage «è stato usato con grande successo ed ha aiutato molte aziende a conoscere e a vincere pregiudizi», e da non dimenticare anche le possibilità che il settore pubblico offre: «negli ultimi tempi sono aumentate le domande per fare stage curriculari o extracurriculari presso il Comune» osserva Tajani, anche probabilmente dovute al fatto che le vacancy (e quindi i concorsi) sono ora pubblicizzati su LinkedIn. Un modo non per entrare nel lavoro (non si può essere assunti dopo uno stage in Comune, naturalente: le assunzioni avvengono tramite concorso), ma una possibilità di formarsi e di conoscere “dal di dentro” un'amministrazione locale.
Ultimo aspetto da focalizzare, il fatto che ormai la formazione non finisce davvero mai: «I ragazzi vivono nel mito della laurea professionalizzante, pensando che le competenze che acquisiscono all’università siano definitive e che dureranno loro per tutta la vita» conclude Paolo Costa, ma «dovrebbero imparare a disimparare per poter imparare ogni volta cose nuove»: solo così potranno essere davvero “sul pezzo”, riuscendo a muoversi con successo nel mondo del lavoro.
Irene Dominioni
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