Au pair, l'esperienza che mi ha cambiato la vita: tre storie di ventenni alla scoperta del mondo "alla pari"

Rossella Nocca

Rossella Nocca

Scritto il 12 Set 2018 in Storie

esperienza all'estero lingua inglese

Ogni anno più di mille ragazzi italiani tra i 17 e i 30 anni vivono un'esperienza all'estero con il programma "au pair", che può avere una durata fra i 3 e i 12 mesi. La Repubblica degli Stagisti ha raccolto le storie di Valentina Rossi e Simone Barutti, au pair in Inghilterra e Caterina Pandolfi, ragazza alla pari in Irlanda.

Caterina Pandolfi 

Ho 22 anni e sono di Imperia ma studio Mediazione linguistica a Torino. Dopo la maturità ero incerta su quello che volevo fare, all’inizio pensavo a Beni culturali, ma non essendo convinta mi sono presa un anno di pausa e ho deciso di impiegarlo facendo un’esperienza come au pair. Una scelta dettata dalla voglia di viaggiare e di vivere lontano da casa, ma anche dalla prospettiva di poter imparare meglio l’inglese – che pur avendo fatto il linguistico, non conoscevo benissimo... – e mettere da parte qualcosa in vista dell’università. 

Proprio sull’università l’esperienza au pair mi ha fatto cambiare idea, portandomi a scegliere Mediazione linguistica. Prima di partire l’idea era di staccarmi dallo studio delle lingue; poi vivendo a contatto con altre culture mi sono resa conto di quanto mi piaceva ascoltarle, tradurle e vedere le differenze.  

Per partire sono rivolta a un’agenzia che mi ha trovato una famiglia in Irlanda, a Dublino. All’inizio volevo fare sei mesi, poi la famiglia mi ha chiesto di restare un anno. Mi avevano consigliato l’Irlanda perché si vive bene e pagano bene: non danno mai meno di 100 euro a settimana, a differenza di altri paesi. Una mia amica in Francia ne prendeva 50, un’altra in Olanda 80 a settimana. Ma soprattutto in Irlanda c’è la concezione della tata e della ragazza au pair, e sono trattate meglio che in altri paesi. 

L’agenzia mi ha messo in contatto con la famiglia via mail e abbiamo fissato appuntamento via Skype: ci siamo piaciuti subito. Il 20 settembre sono partita. La mia famiglia ospitante era composta dai genitori e da quattro bimbi: la più grande aveva sei anni, il più piccolo quattro mesi. Con quattro figli faticavano a trovare ragazze! Io avevo già fatto la babysitter e non mi spaventava, ma lo consiglierei solo a qualcuno a cui piacciono tanto i bambini, perché non è facile gestirne quattro tutti insieme. 

Il mio lavoro si svolgeva per otto ore al giorno (più due babysitting serali a settimana), con sabato,  domenica, lunedì e venerdì pomeriggio liberi. Mi pagavano 120 euro a settimana, avevo una stanza con bagno, vitto e alloggio. Ho frequentato anche una scuola di inglese al costo di 300 euro a trimestre – ottenendo la certificazione B2. 

Vivere con i bambini è bello e allo stesso tempo traumatico. Inizialmente è difficile, non sai come approcciarti, magari hanno appena avuto un’altra aupair e ti fanno i dispetti, ma dopo un po’ cominciano a rispettarti. Mi sono affezionata tanto a tutti – in particolare al più piccolo, che ho accompagnato dal quarto mese al primo anno di vita. Ho pianto come una disperata quando sono andata via. Ancora oggi delle volte ci penso, e ogni tanto torno a trovarli, a vedere come crescono. Dopo essere stata au pair ritorni alla tua vita ma non ti stacchi mai da quella!

L’agenzia mi aveva messo in contatto con altre ragazze alla pari: il mio quartiere era pieno di au pair. E fa comodo – soprattutto nei momenti di debolezza – avere persone che vivono la tua stessa situazione. Ho stretto un’amicizia molto bella con una ragazza spagnola e una francese, ancora oggi ci scambiamo le visite. Evitavo gli italiani perché non volevo parlare tanto italiano. Lì la vita è molto diversa, si svegliano e vanno a dormire presto, cenano alle cinque e mezza alle sette e mezza vanno a letto. Dublino è una città molto bella, dove è facile imparare l’inglese, lo insegnano bene e costa meno di Londra, ma non è il posto dove vivrei: fa freddo, piove troppo, e non si mangia molto bene. All’inizio mi ero informata per fare l’università lì, poi ho sentito l’esigenza di tornare a casa, alle mie abitudini. 

Consiglio l’esperienza au pair – magari dopo il liceo o dopo la triennale – perché ti arricchisce dal punto di vista linguistico, culturale, umano, ti fa crescere, e in più ti permette di mettere un po’ di soldi da parte. Sto anche pensando di rifare la ragazza au pair da un’altra parte, dopo la laurea triennale.

Se un giorno avrò figli dirò loro di fare assolutamente quest’esperienza. Ancor più a un figlio maschio, perché stare a contatto con bambini e piccole faccende domestiche potrebbe giovargli molto nell'acquistare responsabilità. E se fossi una host mum sarei molto contenta di affidare i miei bimbi a un giovane ragazzo! 

Simone Barutti

Ho 20 anni e vengo da Oulx, in provincia di Torino, al confine con la Francia. Dopo il liceo linguistico ho fatto un anno di economia a Torino, poi ho cominciato a lavorare nell'azienda termoidraulica di famiglia e per sei mesi ho fatto il fotografo in una scuola di sci. 

In questo momento sto vivendo l’esperienza di au pair in Inghilterra. Qualche mese fa mi sono detto che a vent'anni ci avrei messo meno tempo a imparare l'inglese, così ho scelto il modo più rapido e più economico per farlo. Non mi sono posto il problema che l'au pair fosse tradizionalmente femmina: ho valutato semplicemente quale fosse la formula più conveniente ed efficace per imparare la lingua.  

Dopo vari colloqui, attraverso un’agenzia, la scelta è caduta su una famiglia di Abingdon, 15 km da Oxford, composta da papà, mamma e un bambino di otto anni, di cui faccio il fratello maggiore.

Lavoro 25 ore a settimana per cinque giorni come babysitter e prendo 80 sterline, inoltre avendo molte ore libere mi sono proposto di pulire la casa tre ore a settimana per 30 sterline, quindi in totale prendo 110 sterline a settimana. 

In più ho trovato lavoro in un ristorante come cameriere/ barista per esercitarmi maggiormente con l’inglese. Non è vero che pagano più che in Italia e che c’è il limite di otto ore: puoi lavorare anche fino a 15 ore. Se non superi le otto ore non hai pause e se lavori dalla colazione alla sera non mangi anche se sei in un ristorante. Di solito la paga aumenta con l'età, ma io che sono straniero, pur avendo vent'anni – qua sono già vecchio, hanno tutti dai 15 ai 19 anni – prendo 6,70 sterline all'ora quanto un 15enne, poi ci sono ovviamente le mance. Tuttavia io con i soldi della famiglia posso tranquillamente stare qua, fare qualche viaggetto nei dintorni, pagarmi la scuola di inglese per ottenere il First (18 sterline l'ora) e tenermi qualcosa da parte, mentre con i soldi del lavoro extra mi pagherò le vacanze che farò al ritorno in Italia.

Non è stato difficile trovare altri au pair (anche se tutte donne): ogni volta che un ragazzo au pair lascia la famiglia compila un foglio con consigli per chi verrà dopo di lui, ad esempio una lista dei punti di ritrovo. Dopo quattro mesi mi ritengo già soddisfatto dei risultati dell'esperienza. Sono partito che conoscevo l'inglese scolastico e oggi riesco a fare una conversazione con un madrelingua senza nessun problema, a guardare film in lingua, e così via. Con la famiglia il rapporto è molto buono: mi reputano come un figlio, quando sono stato poco bene mi sono stati vicini, per il cibo cercano di venirmi incontro. Certo ci sono molte differenze, ad esempio noi siamo più legati alla famiglia. Poi loro vivono in una città di 80mila abitanti e non chiudono mai la porta a chiave, eppure è gente benestante: il mio "papà" fa il pilota per la British Airways, la mia “mamma” produce software per la Apple. 

Per me che son venuto con l'idea di imparare l'inglese è stata la scelta ideale, anche perché a Oxford si parla il "vero" inglese. Ma se si parte con l'idea di divertirsi, allora non è il posto giusto – qui sono molto chiusi, se alla fermata del pullman provi a socializzare non ce la fai. Ho fatto amicizie solo a scuola, dove ogni settimana hai una classe diversa. E bevono molto: al locale mi è stata chiesta la birra al mattino insieme a uova e bistecche. Ma il problema ancor più grande è la droga, che ora qui costa pochissimo. 

Non rimarrei in Inghilterra perché... ho bisogno di cibo vero! Loro hanno idee strane sull'alimentazione due settimane fa la domenica a pranzo – il pasto più “sano” della settimana – hanno fatto la pasta: l’hanno buttata nell’acqua fredda e alla fine hanno spezzettato le patatine al bacon sopra. 

Purtroppo dal 2025 per effetto della Brexit l'esperienza au pair in Inghilterra potrebbe essere preclusa agli europei: noi au pair stiamo firmando una petizione perché non accada [la raccolta su Change conta già oltre 20mila firme, nrd]. È davvero difficile pentirsi di aver fatto una esperienza au pair, molte persone lo fanno anche più di una volta. Anche io mi sono informato per andare in America, solo che lì bisogna star via per forza un anno.

Consiglio a tutti di fare gli au pair perché è un esperienza che ti migliora non solo per la conoscenza della lingua – io ora conosco fluentemente tre lingue: italiano, inglese e francese – ma anche a livello culturale. A vent'anni capisci le differenze tra il tuo e gli altri paesi, ti rendi conto di pregi e difetti, e hai anche hai la possibilità di rivalutare il tuo paese!

Valentina Rossi

Ho ventidue anni e abito a Lombriasco, un piccolo paesino vicino Torino. Dopo aver frequentato il liceo classico, a diciannove anni non sapevo bene cosa fare; ho provato il test di ammissione a Fisioterapia ma non l'ho superato.

Così, piuttosto che perdere un anno a far qualcosa che non mi piaceva, ho pensato di fare un'esperienza alla pari, anche perché ho sempre avuto uno spirito “avventuriero”. 
A settembre sono andata in agenzia e i primi di ottobre sono partita. Sono stata fuori nove mesi. Ho scelto l’Inghilterra perché avevo dei cugini lì ma soprattutto per migliorare l'inglese. Ho vissuto a Romsey, vicino Southampton, sud-est dell'Inghilterra. La mia famiglia ospitante era composta da mamma, papà e due bambini, uno di otto anni, Edward, e una di cinque, Abigail. 

Lavoravo circa sei ore al giorno e mi davano 85 sterline a settimana. Meno rispetto ad altri, tuttavia mi aiutavano con altre spese, ad esempio mi hanno pagato il viaggio di ritorno a Natale, la scheda telefonica e per metà la scuola di inglese (500 sterline). Nel weekend ero libera e di solito partivo con un'amica per delle gite: ho visitato Londra, Oxford, Cambridge, Stratford-upon-Avon, dove è nato Shaksperare, la Cornovaglia. Quando non avevo altri programmi la famiglia mi portava con sé: siamo andati in campeggio, in barca a vela... Loro viaggiavano molto e davano meno peso ai beni materiali, ad esempio vivevano in affitto. Io mi sono innamorata di questo modo di vivere. 

Ogni tre mesi vado a trovarli e anche loro sono venuti in Italia da me. Penso di essere l'unica a dire che mi sono trovata bene anche per il cibo: mangiavano cibi di tante culture diverse: indiano, cinese, e poi adoravo jacket potatoes e fish&chips. La famiglia mi diceva che sono diventata una vera inglese quando ho iniziato a prendere il thè con il latte. 

Mi sarebbe anche piaciuto fare l'università lì, ma costava 9mila sterline l'anno! Al ritorno mi sono iscritta a Lingue a Torino. Fare l’au pair mi ha cambiato la vita. Prima di partire non avrei mai avrei pensato di scegliere questa facoltà, l'inglese l'avevo sempre odiato, ma evidentemente me l'hanno trasmesso in modo positivo, infatti ora sto studiando inglese, spagnolo e portoghese.

Oggi collaboro anche con un’agenzia au pair, per la quale gestisco i social, raccolgo le foto delle ragazze etc. Ho già fatto richiesta per un’altra esperienza all’estero, con il programma Erasmus in Inghilterra o Irlanda. Dopo la laurea mi piacerebbe o insegnare o lavorare all'estero per un'azienda, ma anche fare l’hostess e girare il mondo per un annetto.  

L’esperienza au pair mi ha arricchita a 360 gradi. La consiglio perché ti permette di stare a contatto con nuove persone e culture, stravolge la tua idea di vita, ti chiedi: finora che cosa ho fatto?

Testimonianze raccolte da Rossella Nocca

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