Contratti precari, buoni solo per le imprese peggiori: perché minano la produttività

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 11 Lug 2014 in Articolo 36

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La riforma del contratto a tempo determinato, o meglio la sua liberalizzazione lanciata nel Jobs Act, sta andando nella giusta direzione? E se invece il suo uso generalizzato portasse a un calo della produttività aziendale? Secondo l'Isfol è proprio così: il lavoro a termine non è solo un infernale limbo in cui cadono quasi tutti i neoassunti (il 70% dei contratti stipulati di recente è di questo tipo secondo gli ultimi dati Istat), ma anche per le imprese si tratterebbe di una decisione perfino dannosa.

A questa conclusione arriva lo studio contenuto nel volume Mercato del lavoro, capitale umano ed imprese: una prospettiva di politica del lavoro, che teorizza fin dall'abstract come «le politiche del lavoro dirette ad accrescere la flessibilità e deregolamentare la tutela dell’impiego non hanno migliorato l’efficienza e la competitività delle imprese». A dirla tutta, un vantaggio ci sarebbe per chi attiva contratti temporanei, ma è tutto per le imprese che producono meno e peggio, non per le migliori, che da questa tipologia di inquadramento non trarrebbero nessun giovamento.

Andrea Ricci [nella foto], curatore della ricerca, ha illustrato il ragionamento alla base della tesi alla presentazione del libro, giorni fa a Roma. Demolendo di fatto l'ultimo intervento del governo in questa materia, che ha eliminato l'obbligo della causale oggettiva. Tradotto: le aziende non devono fornire particolari giustificazioni sul motivo per cui per il contratto è fissata una scadenza. Al netto di complesse formule macroeconomiche, quello che è successo in Italia è che si è amplificata «la dualità tra molto garantiti e poco garantiti sul mercato del lavoro». E la più alta riduzione delle tutele si è verificata proprio per il lavoro temporaneo (del 35% calcola l'Isfol, contro ad esempio il 2% della Spagna mentre in altri Paesi è perfino aumentata). Tutto questo mentre «dal 1995 al 2007 i contratti a tempo determinato crescevano in Italia del 122%, in Spagna del 62 e in Francia del 48».

Eppure gli esiti sperati non si sono verificati. La produttività, già bassa, ne ha risentito con una perdita ulteriore pari al 3,7%, mentre nel resto d'Europa essa è cresciuta mediamente del 7%
. Ad essere aumentati sono però i profitti di alcune imprese - ma solo di quelle con le performance peggiori - grazie all'abbattimento del costo del lavoro, e generando quindi, secondo le rilevazioni condotte, «un fenomeno di selezione avversa, che ha favorito le imprese di bassa qualità in termini di competitività».

La posizione di Ricci non è però pacifica. C'è chi, come Marco Leonardi, professore di economia politica all'università Statale di Milano, pur definendola un'ipotesi «non del tutto peregrina», obietta che la contrattazione temporale non è una modalità tutta da scongiurare  e soprattutto non determina di per sé «declino e andamento lento della produttività». Che sono altre insomma «le cause che concorrono a questo risultato e che il contratto a tempo determinato può considerarsi come una reazione a mali più profondi del sistema italiano». Anche l'utilizzo di questo modello non sarebbe poi così spropositato a suo parere, posizionandosi «tra la media Ocse e quella Ue, avvicinandosi con il suo 70% ai livelli tedeschi». Per di più, «secondo autorevoli studi accademici, il tempo determinato stimolerebbe anche l'occupazione». Ed è per questo che in fin dei conti, secondo Leonardi, l'esecutivo ha deciso di agevolarne l'utilizzo.

La competizione internazionale, l'introduzione dell'euro e l'aumento dei prezzi ma non dei salari, le mancate riforme potrebbero invece rappresentare le vere fondamenta del nostro basso tasso di produttività, a detta del professore. Lo stesso vale per le scarse capacità manageriali dei dirigenti italiani, «un fatto documentato da lavori accademici importanti». Il docente apre dunque a un'altra possibile ricostruzione: e se la vera spiegazione del basso indice di produttività stesse invece nella «eccessiva protezione riservata al tempo indeterminato?», la cosiddetta employ protection legislation. A quel punto la nuova centralità del contratto a tempo determinato all'interno del mercato si spiegherebbe come una reazione ai contratti standard. Essendo il tempo indeterminato troppo rigido e stabilendo un rapporto senza vie d'uscita per le imprese, insomma, a queste non resterebbe che guardare altrove.

Secondo Leonardi il contratto a tempo determinato non comporta tout court una perdita in termini di produttività: «l'effetto c'è, ma non è così stravolgente». E dunque il modello del contratto a tempo determinato va valorizzato perchè, nella rosa dei contratti temporanei, è nettamente il migliore: «Si mangia le altre forme di contratti flessibili», evitando che vengano fatti contratti a progetto magari senza progetto, o rapporti di collaborazione a finta partita Iva, o altre formule comunque meno tutelanti, per i lavoratori, del contratto subordinato con tutte le sue garanzie a livello retributivo e contributivo.

È qui, sottolinea Leonardi, che siamo fuori dalla media degli altri Paesi: con i nostri contratti precari di mille tipologie diverse e ad esempio «con il 18,2% di false partite Iva». Leonardi è in buona sostanza sulla stessa linea di un altro dei relatori presenti alla presentazione del report, Giuseppe Ciccarone, ordinario di politica economica della Sapienza. Secondo cui la stasi italiana non dipende dal temporary contract, ma «si deve soprattutto al suo tessuto produttivo, alle sue piccole imprese familiari per lo più monarchiche». Ci vorrebbe quindi un «investimento innovativo», portato avanti però da manager più istruiti, in grado di garantire «rendimento di lungo periodo, efficienza nell'organizzazione, lavoro cooperativo». Per rilanciare la produttività, insomma, migliorare le leggi sul lavoro, semplificare, incentivare non basta: ci vuole un salto generazionale e culturale del mondo imprenditoriale italiano. 

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