Innovazione sociale, dalla sharing economy all'attivazione delle fasce più deboli: la sfida è la sostenibilità economica

Ilaria Mariotti

Ilaria Mariotti

Scritto il 15 Apr 2016 in Approfondimenti

Agenzia Giovani innovazione sociale

Sarà l'esito di anni di crisi finanziaria, sarà che il progresso non si può fermare: fatto sta che nuovi modelli di sviluppo sociale si stanno affermando a livello trasversale, tra pubblico e privato, profit o non. Perfino nel nostro paese, spesso restio a rinnovarsi, si fanno spazio sistemi economici all'avanguardia, che sono diventati l'oggetto di analisi del secondo Rapporto sull'innovazione sociale. Autore dello studio il CeRIIS, centro di ricerca che fa capo alla Luiss e a ItaliaCamp, associazione il cui scopo è «collegare chi ha una buona idea con quanti hanno la forza economica, culturale e politica di realizzarla».

Al centro dell'indagine quelle «iniziative volte a soddifare i bisogni della collettività, tutto ciò la cui stella polare è la soluzione di bisogni collettivi» ha spiegato all'incontro di presentazione alla Camera organizzato da Agenzia giovani Matteo Caroli, direttore dell'ente. Le modalità operative «devono però essere diverse, con modelli nuovi e più efficaci di quelli in uso» ha precisato, «generando un cambiamento che migliora la situazione precedente». Una sfida che è soprattutto nelle mani dei giovani perché - ha ricordato Giacomo D'Arrigo, presidente dell'Agenzia nazionale giovani, «il tema generazionale è strettamente connesso a quello dell'innovazione. La si può fare anche attraverso il programma Erasmus+ (che l'agenzia gestice, ndr), dando ai giovani strumenti per investire su loro stessi». 

Anche in Italia – si diceva - qualcosa si muove, nonostante le «resistente culturali» a cui ha fatto cenno il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio [nella foto] introducendo la presentazione. Qui «non è facile convincere le imprese per esempio a vendere in e-commerce o a cambiare nome per essere più accattivanti». La maggior parte dei 500 progetti presi in esame si concentra da noi sulla sharing economy (19%), l'assistenza (17%) e l'integrazione sociale (16%), rileva l'analisi. Mentre la tipologia di innovazione si concentra su tecnologie che coinvolgono il prodotto o servizio offerto, oppure il processo organizzativo adottato, a pari merito con un cambiamento delle relazioni dentro il tessuto produttivo.

Spesso si riscontra in queste esperienze «un nuovo modo di lavorare insieme: pur facendo mestieri differenti c'è una condivisione di valori, si gioca insieme a una sfida» ha sottilineato Caroli. È questo più che la tecnologia in sé a segnare l'innovazione sociale in Italia. Un microcosmo in cui una delle maggiori difficoltà riscontrate è la sostenibilità economico-finanziaria (su questo il rapporto è impietoso: «La maggior parte delle iniziative, il 54%, risulta scarsamente sostenibile») e che continua a concentrarsi principalmente nel non profit: proprio le organizzazioni di questo tipo «emergono come protagoniste dell'innovazione sociale, sia come attuatori che come promotori delle iniziative di tutte le tipologie innovative».

Ma a dimostrazione che innovazione non coincide solo con tecnologia e Internet, l'imprenditrice Anna Fiscale [nella foto sotto], ha raccontato l'esperienza della sua cooperativa da cui è partito nel 2013 Progetto Quid, con l'obiettivo di dare nuova vita alle rimanenze di tessuto delle aziende di abbigliamento. «Metri e metri di considerati come scarto per un piccolo difetto vengono lavorati da donne con passati difficili: sono ex detenute, persone che hanno subito violenza, ex prostitute» racconta la Fiscale. «Andiamo anche a far risparmiare l'azienda perché su un chilo di tessuto spenderebbe circa 20 centesimi per lo smaltimento». Al momento i dipendenti sono 30, con un fatturato di mezzo milione di euro.

Per ottenere la piena sostenibilità la cooperativa si appoggia a aziende tradizionali come Calzedonia, Diesel, Carrera, «che ci commissionano linee di commercio etico per poi essere distribuiti nei canali di vendita classici, garantendo così continuità lavorativa ai nostri dipendenti». Con prezzi «competitivi, come quelli di Zara». Un modello vincente da prendere a esempio come perfetta compenetrazione tra profit e non.

Altro caso quello di Antonio Loffredo, parroco di uno dei luoghi più difficili di Napoli, il Rione Sanità. «Da noi il disagio dura da due secoli, ma il quartiere ha un patrimonio storico-artistico strepitoso e giovani che sono un'opportunità. Attraverso il nostro progetto questi ragazzi», per lo più senza una scolarizzazione adeguata, «sono riusciti a riqualificare le catacombe della zona attraendo circa 100mila visitatori all'anno contro le poche migliaia del passato». Senza ricevere neppure un euro di fondi pubblici.

Non mancano sperimentazioni anche nel pubblico. Un caso è quello del patrimonio immobiliare, illustrato da Roberto Reggi, direttore dell’Agenzia del demanio (40mila beni circa per 60 miliardi di euro). «
Con OpenDemanio avete tutti e 32mila i fabbricati di proprietà dello Stato in visione con Google view e l'indicazione dell'uso di queste strutture, se disponibili o no per progetti di valorizzazione. La tecnologia qui ci è servita a far conoscere le opportunità».

C'è ancora molta strada da fare. Il percorso da intraprendere è verso «l'individuazione e valorizzazione di quelle imprese che sappiano creare valore, facendone beneficiare i dipendenti, la comunità in cui si inseriscono» ragiona Federico Florà, presidente di ItaliaCamp, «senza dare troppo peso alla distinzione profit - non profit». Le linee guida del futuro dovrebbero essere finalizzate, conclude il rapporto, «a aumentare la consapevolezza presso i decision maker, i soggetti economici rilevanti, e a creare contesti favorevoli alla nascita e all'investimento delle iniziative». Solo così l'innovazione sociale potrà diventare strutturale nel nostro paese.


Ilaria Mariotti 

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