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«Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)

14 anni, 7 mesi fa di Eleonora Voltolina

Link all'articolo originale: «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia) È uscito da pochi mesi in libreria un libriccino che ogni trentenne dovrebbe leggere e tenere in tasca. Si intitola Non è un paese per giovani (Marsilio, collana I Grilli), sottotitolo «L'anomalia italiana: una generazione senza voce». Gli autori sono Alessandro Rosina, 40 anni, docente di Demografia all'università Cattolica di Milano e collaboratore del sito Lavoce.info (qui un elenco dei suoi articoli e qui una bella intervista rilasciata di recente a Fabrizio Buratto per Job24) e la giornalista trentaquattrenne Elisabetta …

Antonio79

14 anni, 6 mesi fa

Il cambiamento di valori dal pubblico al privato è sicuramente un fatto. Tuttavia attenzione, citando Battiato, i tempi stanno per cambiare. Prima vi è stata la Rivoluzione Digitale. Nei Media si è passati dal concetto di Utente a quello di Produttore/Utente. Quindi è iniziato il Rinascimento Digitale e l'avvento dei Social Media che rimette al centro l'individuo-persona. Ma al centro di una rete di contenuti e di relazioni. In conversazione. Credo che quello a cui stiamo assistendo è il superamento del dualismo pubblico-privato. Abbiamo nuove possibilità per creare aggregazione e questo Sito ne è prova.

aletrevisani

14 anni, 7 mesi fa

Concordo sul fatto che i giovani vivono la precarietà in solitudine e cercano di lenirla aiutandosi con gli affetti e le risorse del proprio privato. Può esser vero che su questo pesa <>, ma è una storia vecchia: di "riflusso" si parla dalla fine degli anni 70. A mio avviso i giovani lottano da soli perché la solitudine è coessenziale alla precarietà: se ho già un lavoro mi tutela, o perlomeno parla in mio nome, il sindacato, solidarizzo coi colleghi, faccio fronte comune, spesso anzi nascono alleanza contro precari e stagisti.

Una situazione che ho vissuto in prima persona quando ero stagista a Mediaset: avvenne che uno stagista aveva fatto carriera ed era molto apprezzato dal direttore, sicché di colpo il comitato di redazione ottenne che agli stagisti fosse vietato di fare qualsiasi cosa. Una specie di mobbing di classe. Io e l'altro stagista ci ritrovammo soli e in competizione, proprio in quanto si era abbassato il livello delle nostre pretese, e ricordo che restai e completai lo stage proprio per cercare di forzare quel divieto-sbarramento, e magari di farlo per primo, o da solo: se avessi mollato avrei automaticamente concesso tutte le chances all'altro stagista. Ripensandoci agivo da folle.

Il fatto è che al precario il lavoro viene mostrato come un graal, un tabù, una meta ambita e anche proibita. Forse questo meccanismo attiva dinamiche psicologiche profonde, complessi edipici, desiderio di uccidere il padre, di scavalcare l'ostacolo nonostante la proibizione. L'importante, e l'ho imparato a mie spese, è dirigere questa energia fuori dalle logiche imposte dal mercato del lavoro. Adesso, lo dico a beneficio dei lettori, sono felicemente freelance e ho smesso di concepire la serenità come risultato della prostrazione-sacrificio-abnegazione verso qualcuno o qualcosa (direttore, linea editoriale, congrega dei lavoratori anziani e potenti che ti "lasciano passare" e ti accolgono in azienda). Io faccio il mio lavoro, lo faccio autonomamente e meglio che posso: se qualcuno se ne accorge mi arriveranno delle offerte di assunzione e valuterò. Ragazzi se lo stage non vi piace mollate: niente vi autorizza a pensare che sopportando sopportando dopo sarà meglio. Chi sopporta dovrà sopportare ancora, questo è certo.

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