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L'indennità di stage è compatibile con la Naspi? Le risposte regione per regione

Il “sussidio di disoccupazione”, cioè il sostegno economico erogato a chi perde il lavoro finché non ne ritrova un altro, è stato al centro di molti cambiamenti normativi negli ultimi anni. Ha mutato più volte nome - Aspi, MiniAspi, adesso “Naspi” - e la platea dei potenziali beneficiari si è allargata, andando a comprendere anche i giovani precari che prima ne erano quasi sempre esclusi.Ma tutti questi cambiamenti hanno generato anche molta confusione, specialmente rispetto a un punto: la compatibilità con il compenso che si percepisce per uno stage.Ovviamente infatti si ha diritto la Naspi quando non si ha un lavoro, e dunque non si percepisce una retribuzione. Ma lo stage non è un lavoro; e le somme mensili che gli stagisti ricevono non sono “retribuzioni”. Le si può chiamare “indennità”, oppure “rimborsi spese forfettari”, “borse di studio”, “borse lavoro”… Tante definizioni per intendere una sola cosa: una somma periodica attribuita allo stagista come corrispettivo della sua partecipazione all'attività di stage.Da un paio d'anni, erogare una indennità ai propri tirocinanti non è più facoltativo, almeno per quanto riguarda i tirocini extracurriculari: anche grazie a un lungo lavoro di pressione della Repubblica degli Stagisti, nel corso del 2014 tutte le Regioni si sono adeguate all'accordo raggiunto in sede di Conferenza Stato - Regioni, e hanno stabilito ciascuna una indennità mensile minima a favore degli stagisti (anche se purtroppo restano fuori dalle tutele i curriculari). Dunque il numero di giovani che ricevono un compenso per lo stage è aumentato, anche se non ci sono rilevazioni statistiche al riguardo. Era inevitabile che questi due elementi scatenassero un cortocircuito: i giovani hanno (più di prima) accesso a stage con indennità, e hanno (più di prima) accesso alla Naspi. Che succede dunque quando si comincia uno stage mentre si percepisce la Naspi?Lo stage non è un contratto di lavoro, e l'indennità non è uno stipendio: ma è comunque un «reddito assimilabile a reddito da lavoro dipendente», almeno fiscalmente. E lo Stato italiano vuole evitare di sprecare risorse, permettendo una cumulabilità tra il sussidio e indennità. Con una eccezione: i tirocini attivati all'interno dell'iniziativa Garanzia Giovani, che godono di condizioni particolari, tra cui appunto la compatibilità del compenso con eventuali trattamenti di sostegno al reddito come la Naspi.Qui sul Forum della Repubblica degli Stagisti negli ultimi tempi sono venuti molti lettori a porre domande su questo tema: per questo abbiamo deciso di dedicare un approfondimento giornalistico alla compatibilità tra Naspi e indennità di stage. Abbiamo suddiviso la grande mole di informazioni raccolte in tre articoli, firmati da Paolo Ribichini, caratterizzandoli secondo un criterio geografico:→ Italia settentrionale→ Italia centrale→ Italia meridionalePurtroppo, la maggior parte delle persone a cui ci siamo rivolti per chiedere informazioni e dettagli – dirigenti locali dell'Inps, responsabili dei centri per l'impiego… – ha scelto di non rispondere, malgrado le molte email e telefonate di sollecito. Questo ha reso il nostro lavoro più difficile, e anzi chiediamo a tutti i lettori che si fossero trovati nella situazione di ricevere una risposta su questo tema di condividerla qui con noi, sul Forum, per poter arricchire in itinere questo approfondimento.Infine, una considerazione. Nella maggior parte dei casi, come leggerete, la non-compatibilità tra Naspi e indennità comporta la “soppressione” di quest'ultima. Cioè per lo stagista percettore di Naspi decade il diritto a ricevere l'indennità. Probabilmente la ratio di questa decisione è che la Naspi è solitamente più alta dell'indennità di stage: e dunque tenere la Naspi e lasciare l'indennità è nella maggior parte dei casi conveniente, a livello economico, per lo stagista.Il problema però è che la Naspi la paga lo Stato (cioè tutti noi), mentre l'indennità di stage la pagano i singoli soggetti ospitanti (cioè, in maggioranza, imprese private). L'effetto perverso di far decadere l'indennità trasforma tutti gli stagisti percettori di Naspi in “stagisti gratis”, a disposizione delle aziende e a carico dello Stato. Può essere che questo spinga le aziende a scegliere di accogliere in stage percettori di Naspi? E' probabile. Questo è un bene? Noi della Repubblica degli Stagisti non ne siamo così sicuri: da anni infatti diciamo che fornire stagisti gratuitamente non responsabilizza i soggetti ospitanti, e che anzi quando c'è un investimento economico diretto dell'azienda sullo stagista, si alzano anche le probabilità di assunzione al termine del percorso formativo. Insomma, l'obiettivo di rendere più appetibili i percettori di Naspi per le aziende è condivisibile, ma la strategia rischia di generare effetti distorti.Non è poi chiarissimo cosa succeda, in concreto, a qualcuno che riceve sia la Naspi sia l'indennità, magari perché l'azienda ospitante non sapeva dell'incompatibilità. Gli potrebbe essere richiesto, in futuro, di rendere quanto ricevuto? L'azienda ospitante potrebbe incorrere in sanzioni? La Repubblica degli Stagisti sta sottoponendo queste domande a esperti in temi fiscali, e tornerà presto sull'argomento con ulteriori dettagli.Intanto, buona lettura con la panoramica della situazione da Nord a Sud.[L'immagine dell'Inps è tratta da Flicr, foto di Stefano Corso in modalità Creative Commons]

Curiosità, passione, creatività e studio: i giovanissimi devono ripartire da qui per «Allenarsi per il futuro»

Un bambino si allena da subito per imparare a gestire il futuro perché ogni giorno per lui è un apprendimento continuo. Eppure quella curiosità e quello stimolo che gli permettono di apprendere e capire a un certo punto scompare. È da questa constatazione che si sviluppa «Allenarsi per il futuro – Idee e strumenti per il lavoro che verrà», pubblicato dalla casa editrice Rubbettino e scritto a quattro mani da Stefano Cianciotta, editorialista e opinionista economico attualmente docente di comunicazione e crisi all’Università di Teramo, e Pietro Paganini, professore aggiunto in Business Administration alla John Cabot University.  «La scuola dovrebbe aiutare i ragazzi stimolandoli a una formazione continua: che non significa che ogni giorno devono imparare una poesia, ma che ogni giorno devono confrontarsi in modo critico con quello che gli sta intorno» spiega Stefano Cianciotta [nella foto a destra] alla Repubblica degli Stagisti. «Se pensiamo che gli anni più importanti della formazione un ragazzo non li passa con la sua famiglia ma a scuola, allora capiamo l’importanza che ha nella costruzione del suo pensiero».Eppure la scuola intesa come palestra è diventata negli anni «un luogo dove si frenano le passioni e l’intuito dei giovani», intendendo per “scuola” tutto il sistema della formazione, compresa quella universitaria e post universitaria. «A nostro giudizio in questi ultimi 30 anni si è abbandonato quell’equilibrio tra preparazione umanistica e competenza scientifica che di fatto aiutava il sistema italiano ad emergere. E alla fine tutto il sistema della formazione ha fatto dei passi indietro molto evidenti. Una volta aiutava a elaborare un giudizio critico, ora non più. Ma dovrebbe tornare a farlo, abituare lo studente al problem solving, al lavoro di gruppo: elementi che preparerebbero a gestire le crisi che si verificano nel mondo del lavoro».Cosa che oggi, secondo l’analisi dei due autori, non succede: anzi Cianciotta e Paganini arrivano a scrivere che la scuola «uccide l’inclinazione umana alla curiosità». Un metodo per porre fine a tutto questo potrebbe essere quello di puntare sull’aggiornamento e la formazione continua, ma quello che è più importante è far innovare quotidianamente lo studente in classe. «È una cosa che non si fa più. Oggi, 2016, il sistema della formazione in Italia si basa in prevalenza ancora su nozioni, che i giovani però recuperano su Youtube. Continuare a fare così significa creare le condizioni per cui il ragazzo torni dalla scuola molto svogliato». Mentre oggi un insegnante dovrebbe essere un motivatore e un leader, «per aiutare i ragazzi a capire davvero che cosa sta accadendo all’interno di questa società sempre più complessa».Non si parla, però, solo di scuola nel libro, ma anche di formazione, un tema su cui in Italia da anni si dibatte, introducendola ad esempio come obbligatoria per gli iscritti agli ordini professionali. Ed è qui che Cianciotta sottolinea il controsenso: «Nel momento in cui la formazione diventa un adempimento burocratico, perde tutti i connotati di critica e logica che invece sono alla sua base. Una persona si forma per imparare, conoscere, confrontarsi. Mentre il sistema della scuola come quello della formazione degli insegnanti queste cose non le fa più. Come non lo fa la formazione continua per gli iscritti agli ordini professionali: sono iscritto a quello dei giornalisti e scorrendo l’elenco delle attività di formazione solo una lezione su dieci è interessante. Le altre sono spesso questioni legate alla burocrazia». Questo però non significa che studiare, formarsi e specializzarsi non serva a nulla. Tutt’altro, su questo punto gli autori sono concordi: tanto da scrivere che le correnti di pensiero che suggeriscono di non formarsi ed entrare immediatamente nel mondo del lavoro «sono fesserie senza alcuna base scientifica» perché i «dati e i pochi esempi che vi raccontiamo ci stanno dicendo esattamente l’opposto». Studiare è necessario, anche per imparare a costruire e usare quelle macchine che parzialmente ci sostituiranno. Proprio dall’esigenza di dare «un orientamento scolastico» nasce il libro. «Siamo entrambi insegnanti a contratto all’università, dove abbiamo portato la nostra attività privata. E dove ci siamo confrontati con studenti che arrivati al terzo-quarto anno non sapevano ancora cosa fare. Avevano fatto tre anni di università e di fatto non avevano realizzato nulla! Non è possibile. Come non è possibile che la mia facoltà abbia la stessa offerta formativa di vent’anni fa, quando io mi sono laureato. È evidente che il sistema della formazione così non funziona e può produrre solo dei disoccupati».All’incontro tra i due autori si è poi aggiunta la partecipazione al progetto di orientamento scolastico Allenarsi per il Futuro, creato nel 2014 dalla multinazionale Bosch, cui poi si è aggiunta l'agenzia per il lavoro Randstad, con l’obiettivo di favorire un nuovo approccio culturale al passaggio scuola – lavoro, che ha dato «la voglia di terminare il testo nel più breve tempo possibile». Il progetto promuove alcune iniziative che cercano di orientare i giovani attraverso la formazione pratica e i tirocini in azienda. Ma soprattutto attraverso gli incontri con sportivi di vario genere che mostrano come «dietro alle storie di successo non c’è il caso ma tanto, tanto sacrificio, che deve essere rinnovato quotidianamente sia che ci si alleni per imporsi alle Olimpiadi o nella vita professionale di ogni giorno». Nel primo anno di attività il progetto ha raggiunto 100 scuole e 10mila studenti, attivando 250 tirocini formativi. Numeri che mira a replicare anche per il 2016.Un nuovo percorso, dunque, nel rapporto tra mondo della scuola e delle aziende, quello raccontato sia dal progetto di orientamento sia dal libro. Perché il sistema della formazione andrebbe riformato, anche se sono state proprio le riforme degli ultimi anni che non sono riuscite ad affrontare o risolvere i problemi. «Quello che leggiamo quotidianamente sui giornali conferma che la riforma Berlinguer è stata un grandissimo fallimento» dice convinto Cianciotta alla Repubblica degli Stagisti. «Doveva elevare il numero di laureati in Italia per equipararli a quelli europei, privilegiando la quantità a scapito della qualità. Il mercato però ha bocciato la triennale, perché nessuno prende un ingegnere o avvocato triennale, così i cinque anni diventano nel biennio una replica dei tre anni precedenti. Il sistema si è appiattito verso il basso e anche il sistema della scuola primaria, oggettivamente da sempre all’avanguardia, comincia ad avere questo tipo di deficit».Anche l’opinione sulla “Buona scuola” non è positiva. «Apprezziamo lo sforzo riformatore, l’impegno al cambiamento», scrivono gli autori, però «è un pacchetto di norme poco coraggiose. Ma forse se ne comprende il perché, viste le reazioni spropositate e conservatrici dei sindacati e del personale scolastico». Il vero problema di tutte le riforme, non solo dell’ultima «ma anche della Gelmini e di Berlinguer», è di aver sbagliato target, focalizzando sugli insegnanti e non sugli studenti. «Già questo fa capire che da oltre 40 anni le riforme della scuola venivano svolte in funzione di una corporazione», spiega Cianciotta. «Anche sulla Buona scuola, a un certo punto il dibattito si è concentrato sul comportamento del preside nei confronti dei docenti e sulla possibilità che qualcuno venisse spostato di 300 km. Non si è parlato abbastanza di qualità dell’insegnamento e di rivisitazione dei piani dell’offerta formativa. Mentre il tema su cui ci si dovrebbe focalizzare è cosa andiamo a produrre all’interno di quello spazio e cosa i fruitori di quella università o scuola si aspettano. Nessuno ha interrogato gli studenti».Eppure per migliorare la scuola si potrebbe cercare di applicare, come gli autori suggeriscono nel libro, anche la teoria dell’economista Hanushek, ovvero licenziare periodicamente il 10% peggiore degli insegnanti per sostituirlo con un gruppo di colleghi migliori. «L’hanno fatto Blair e in parte Obama, quindi i principali paesi del mondo occidentale hanno utilizzato questo espediente» spiega Cianciotta «e secondo noi si potrebbe fare. In Italia però non si riesce nemmeno a licenziare un impiegato pubblico che palesemente timbra per quattro colleghi, si apre solo un procedimento che non prevede l’espulsione automatica... Su queste premesse, è ovvio che sia molto complicato creare dei sistemi di valutazione».Forse licenziando una piccola percentuale di docenti, introducendo una retribuzione migliore «perché oggettivamente gli insegnanti italiani sono pagati molto male», e dando di nuovo ai professori la possibilità di applicare la logica e la creatività, si potrebbe cambiare qualcosa. Il sistema ha «equiparato l’insegnante a un impiegato del catasto. Ma dall’altra parte non ci sono carte, ci sono persone che chiedono di ricevere stimoli per costruirsi un percorso umano, sociale e professionale. Proprio in questo periodo di crisi economica l’investimento sulla qualità della formazione avrebbe garantito al nostro Paese quantomeno un cambio di paradigma».Il messaggio finale diretto ai giovani è che «in questo momento storico un futuro devono inventarselo», spiega Cianciotta. Tra 10-15 anni l’Italia cosa sarà: un paese industriale o che punta sulle energie rinnovabili? «Non si sa e questa mancanza di visione crea un tale livello di confusione per cui gli investimenti stranieri latitano e ai giovani non si riesce a dare un orientamento». Per questo motivo i giovani dovrebbero cominciare fin da subito ad «allenarsi per il futuro» e ad usare come parole chiave per la propria formazione passione e creatività. Parole che tornano più volte nel testo e che Stefano Cianciotta definisce i «termini che qualificano la mia attività». Gli stessi termini con cui la scuola dovrebbe far confrontare i giovani ogni giorno, «a prescindere se farai il fisico nucleare o il calciatore o l’impiegato pubblico: tutto è dignitoso. Non abbiamo bisogno che tutti siano dei super scienziati, ma di persone che prima a scuola e poi nell’attività professionale mantengano alto il livello di passione, creatività e curiosità. Proprio quello che la scuola, purtroppo, non fa».   Marianna Lepore

Forum degli italiani nel mondo, una nuova «grande rete» per supportare chi vive all’estero

L’Italia non è solo un paese di immigrati, ma anche, e si potrebbe azzardare, soprattutto, emigrati: come cent'anni fa, anche se in modo totalmente diverso. Secondo l’ultimo Dossier statistico sull’immigrazione a cura del centro studi Idos, riferita ai dati del 2014, gli italiani all’estero crescono più degli stranieri in Italia: due anni fa sono aumentati maggiormente (155mila unità in più) rispetto agli immigrati nel nostro Paese (92mila in più). Intrecciando invece i dati Istat e quelli provenienti dai principali paesi che ospitano gli emigrati, «al netto dei profughi che sono arrivati nel nostro Paese, il rapporto tra emigrati italiani verso l’estero e immigrati che arrivano in Italia per lavoro è di tre a uno. Un dato ignorato, o sottaciuto, da molti». A dirlo senza mezzi termini è Pietro Lunetto, membro della Comune del Belgio, un progetto finalizzato all’integrazione dei migranti italiani a Bruxelles e dintorni. Lunetto, 40 anni, è un ricercatore chimico e vive in Belgio da cinque: si occupa di fenomeni migratori per passione e per questo fa parte del consiglio direttivo del neonato Faim, Forum delle Associazioni Italiane nel Mondo, rappresentanza sociale delle associazioni degli italiani all’estero. Di recente ha avuto luogo la seconda riunione ufficiale del Forum. Ma per ripercorrerne la storia bisogna risalire all'estate scorsa, quando oltre 250 persone di tutto il mondo e circa 1500 associazioni, «quasi la metà del tessuto associativo degli italiani emigrati, che secondo le stime del ministero degli Esteri ammonta a circa 4mila singole organizzazioni», spiega alla Repubblica degli Stagisti Lunetto, hanno deciso di dare vita a una nuova realtà finalizzata alla tutela di chi vive fuori dal nostro Paese. Per diverse ragioni, tra cui «la ripartenza massiccia dell’emigrazione dai paesi dove peggiori sono le situazioni economiche verso i paesi più ricchi, oltre a un rapido e ulteriore smantellamento delle politiche per gli italiani all’estero e all’affievolimento progressivo del rapporto delle istituzioni italiane con l’associazionismo». Per questo il Forum, il cui dettaglio delle attività sarà definito nell’Assemblea generale in calendario ad aprile, ha già tracciato alcuni ambiti di azione, tra cui «la costruzione di progetti e partenariati tra gli aderenti al Forum, e il rafforzamento della cooperazione con le regioni italiane, oggi per legge ampiamente competenti sul tema emigrazione». Senza dimenticare un aspetto fondamentale al giorno d'oggi: «lo sviluppo di un’adeguata comunicazione interna alla rete associativa con una piattaforma che consenta di scambiarsi informazioni». Il Forum, provvisoriamente regolamentato da una bozza di statuto, al momento è gestito da un coordinamento di circa 10 persone rappresentative di altrettante associazioni, cui si sono aggiunte altre 12 associazioni per garantire una rappresentanza territoriale a livello mondiale. Ma chi sono gli emigrati di oggi e a chi parla il Forum? Va subito chiarito che gli Stati Generali dell’Associazionismo degli italiani all'estero, come sono stati ribattezzati, non guardano solo a quella che potrebbe essere definita l’emigrazione «colta», ma «a tutta la nostra comunità emigrata, composta sì dai cosiddetti cervelli in fuga, ma anche di emigrazione meno scolarizzata», spiega Lunetto. Un’ampia platea di cui tra l’altro non fanno parte solo gli under 30: «La nuova migrazione non è fatta solo di giovani, ma esiste una fetta consistente di over 45 che torna a emigrare per ragioni economiche, spesso con figli e famiglie al seguito e riproducendo una casistica già conosciuta di problemi di integrazione». Va da sé che vissuti ed esigenze differenti richiedono piani d’azione diversi e, a una prima impressione, potrebbe essere proprio questa una delle principali criticità legate all’attività del Forum. Nell’ultimo incontro, in cui è stato stabilito l’allargamento a 10 nuove associazioni,  è emersa ad esempio una differente concezione dell’associazionismo da parte dei giovani, che «hanno un modo meno strutturato e più liquido di vivere l’associazionismo. Questo comporterà la messa a punto di strategie di coinvolgimento diverse rispetto a quelle dell’associazionismo meno recente», spiega Lunetto. I giovani sono in ogni caso soggetti da non sottovalutare nell'ambito delle dinamiche dell'associazionismo, anche perché sono sempre più numerosi quelli che guardano oltre i confini nazionali. Il Rapporto Giovani dell'Istituto Toniolo qualche giorno fa ha diffuso dati interessanti in questo senso: più del 50% del campione afferma che l'emigrazione sia l'unica opportunità di realizzazione e oltre l'88% si dichiara disposto a emigrare stabilmente pur di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro.Inoltre il gran numero di associazioni, con caratteristiche e background non sempre simili potrebbe essere un limite all’adozione in maniera univoca di strategie e decisioni. Il Forum ha una struttura molto articolata: «Le più grandi federazioni di associazioni che ne fanno farte sono le Acli, la Filef, l'Istituto Fernando Santi, la Fondazione Migrantes. Filef e Istituto Santi sono espressione dell'associazionismo progressista, mentre gli altri fanno riferimento al mondo dell'associazionismo cristiano. Raggruppano tutte la maggior parte dell'associazionismo storico, per intenderci quello scaturito dalle ondate migratorie precedenti a quella attuale, e hanno tutte una presenza a livello mondiale, nei diversi continenti dove l'emigrazione è stata più massiccia».Il lavoro del Forum va avanti in vista di aprile, quando è prevista la definizione delle linee di programma del prossimo quadriennio e la composizione degli organismi che dovranno gestire le attività di quel periodo: «Nella bozza di statuto sono previsti tre organismi principali, cioè l'assemblea congressuale, che raggruppa i rappresentanti di tutti i soci; il consiglio direttivo, composto da 35 membri che formano una specie di parlamentino del Forum; e infine il comitato di coordinamento, formato da circa 9-11 persone, eletto dal consiglio direttivo».   Il Maeci è uno degli interlocutori principali, insieme alle diverse istituzioni italiane come il parlamento e il Cgie – organismo rappresentativo con il ruolo di tramite tra gli italiani all'estero e le proprie rappresentanze locali e le istituzioni italiane – con cui il Forum dovrebbe rapportarsi. Riuscirà ad attivare un canale di comunicazione efficace?Chiara Del Priore

285 posti come assistenti di italiano all'estero: ancora pochi giorni per candidarsi al nuovo bando del ministero

Under 30, con una laurea specialistica presa non prima del gennaio 2015 e tanta voglia di fare un’esperienza lavorativa in un paese europeo: è questo il target di riferimento del nuovo bando del ministero dell’istruzione per assistenti di lingua italiana all’estero per l’anno scolastico 2016-2017. Le domande vanno consegnate entro le 23.59 del 29 febbraio e, una volta vagliati i requisiti, si potrebbe rientrare tra i circa 285 posti di assistente distribuiti tra Austria, Belgio, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Irlanda. Gli assistenti affiancheranno i docenti di lingua italiana in servizio nelle scuole del Paese di destinazione «fornendo un originale contributo alla promozione e alla conoscenza della lingua e della cultura italiana» recita il bando. Tra i requisiti necessari per partecipare elencati c'è la cittadinanza italiana, non aver compiuto 30 anni, non essere stati già assistenti di lingua italiana all’estero su incarico del ministero, non essere legati da alcun rapporto di lavoro con amministrazioni pubbliche dal settembre 2016 al maggio 2017 e aver preso una laurea specialistica o magistrale a partire dal 1° gennaio 2015. Quindi se si è in possesso di laurea presa nel dicembre 2014, o prima, si è automaticamente esclusi. Ma non basta: è necessario aver anche sostenuto almeno quattro esami nel corso di laurea – triennale, quadriennale o specialistica – relativi alla lingua o letteratura o linguistica italiana e del Paese per cui si presenta domanda appartenenti ai settori tecnico scientifici indicati in due tabelle allegate al bando. Requisiti che devono già essere posseduti alla data di scadenza dell’avviso, pena l’esclusione dalla selezione. La somma dei requisiti determinerà il punteggio finale che sarà inserito nella graduatoria di merito pubblicata sul sito del ministero. A quel punto i candidati in posizione utile nelle singole graduatorie dovranno inviare curriculum, lettera di presentazione di un docente universitario della lingua per la quale si fa domanda e documenti di identità che saranno vagliati per la selezione.  Il periodo di insegnamento è di circa otto mesi, con un impegno di 12 ore settimanali, e si potrà essere assegnati a scuole di vario grado – scuole elementari solo in Francia (se si è interessati a questa opportunità è necessario specificarla nel modulo di candidatura), medie e superiori ovunque. Il compenso mensile varia non solo in base alla durata del contratto – in alcuni paesi da ottobre ad aprile, in altri fino a maggio – ma cambia anche da Paese a Paese. Si va dalle 1.100 sterline per gli assistenti dell'area di Londra, ai poco più di mille euro netti dell'Austria, passando per gli 830 del Belgio e i 700 euro netti per 12 ore settimanali della Spagna (dove lo stipendio, però, sale a 1.000 euro per la città di Madrid con un aumento delle ore fino a 16).  Tutte le altre spese – quindi volo, appartamento ed eventuali assicurazioni – sono a carico degli assistenti, con la sola eccezione della Germania che oltre agli 800 euro netti garantisce anche l’assicurazione malattia, infortuni e responsabilità civile da parte dell’autorità che gestisce il programma. Il ministero non può al momento sapere come saranno precisamente distribuiti i posti, ma per avere un’idea delle richieste si possono guardare i numeri dell’anno scorso che hanno visto, ad esempio, solo tre assistenti in Belgio (di lingua francese), 25 in Spagna, 34 in Austria e ben 178 in Francia, il paese con il numero più alto. Per candidarsi è necessario collegarsi al sito predisposto dal ministero, dove fino alla scadenza dei termini di presentazione della domanda è possibile modificare e integrare il proprio modulo online. Una volta pubblicata la graduatoria di merito e determinati i posti definitivi messi a disposizione, saranno le autorità dei Paesi partner a contattare direttamente gli assistenti e a formalizzare gli incarichi per il nuovo anno scolastico. In quel caso, entro 5 giorni dalla lettera di incarico sarà necessario comunicare l’accettazione o meno del mandato. E se all’ultimo momento per qualche motivo si decidesse di rinunciare all’incarico? Se ci sono motivi di salute grave, che quindi comportano un ricovero ospedaliero, o se si ha un contratto di lavoro nel periodo di svolgimento dell’incarico, allora la rinuncia non comporta la perdita dal partecipare alle prossime selezioni. In caso contrario, invece, si sarà cancellati dall’elenco.Basta fare una piccola ricerca in internet per scoprire che la maggior parte di coloro che hanno fatto questa esperienza, in grandi o piccole città, la descrivono come molto positiva, nonostante le difficoltà iniziali a trovarsi in contesti molto diversi dallo scenario italiano. Molti, una volta rientrati, raccontano di aver trovato molto utile questa pratica prima di insegnare in scuole italiane, e c'è addittura chi la definisce una delle esperienze più stimolanti della propria vita.Se foste interessati e le FAQ predisposte dal ministero non esaudissero tutti i dubbi, ci sono anche molti gruppi Facebook, divisi per paese di destinazione, a cui potersi iscrivere per trovare maggiori informazioni. I motivi per partecipare certamente non mancano: l’esperienza internazionale arricchisce sempre il proprio curriculum, in primis, e poi c'è la possibilità di insegnare, che al momento per molti dei potenziali candidati nel nostro Paese è una prospettiva lontana.Marianna Lepore

«Colloquio istruzioni per l'uso!», la nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti per i giovani che cercano lavoro

Parte oggi qui sulla Repubblica degli Stagisti una nuova rubrica, con l'obiettivo di dare una risposta alla domanda: "Cosa c'è da sapere se mi voglio candidare per quell'azienda?". Ci siamo accorti infatti che tantissimi lettori usano il nostro Forum per cercare informazioni sulle procedure di selezione: se qualcuno viene convocato a colloquio, passa prima sul nostro sito a chiedere se noi della redazione o qualche altro lettore abbiamo qualche informazione sulle modalità di colloquio, le tempistiche, le domande più frequenti.Abbiamo allora deciso di aprire uno spazio settimanale dedicato proprio a questo tema, e la scelta più naturale è stata quella di chiamare in causa le aziende del nostro RdS network, che abbracciano e condividono la nostra “filosofia” e si impegnano a garantire ai giovani buone condizioni di ingresso, a cominciare dall'indennità di stage e dalla trasparenza sulle probabilità di assunzione.Avviamo la rubrica «Colloquio istruzioni per l'uso!» con una tripletta di aziende, ciascuna molto importante nel suo settore: la società di consulenza BIP, l'azienda biomedicale Medtronic e Carglass, leader nella riparazione e sostituzione dei cristalli delle automobili.→ Colloquio in Medtronic, istruzioni per l'uso → Colloquio in Carglass, istruzioni per l'uso→ Colloquio in Bip, istruzioni per l'usoTre voci femminili, tre professioniste con molti anni di esperienza nel campo delle Risorse umane – l'HR director di Medtronic Alessandra Sama e le HR specialist Elena Pozzi per Bip e Paola Margaroli per Carglass – raccontano ciascuna la sua realtà: quali profili cercano, come selezionano i cv, come si svolgono i colloqui, quali sono gli errori da non fare, che tipo di percorso di carriera viene prospettato a chi entra in azienda. Vi sono delle istanze generali che accomunano i tre contributi: per esempio, il consiglio di presentarsi sempre ben preparati rispetto alle attività dell'azienda, perché i candidati “superficiali” – che magari non ricordano nemmeno più di aver inviato il cv per quella posizione, pensando di bilanciare con la propria preparazione accademica o con l'eloquio brillante – non sono mai giudicati positivamente.Poi vi sono le peculiarità: alcune aziende per esempio preferiscono ricevere candidature (e qui attenzione: il formato Europass del cv sembra non piaccia a nessuno, meglio virare su una personalizzazione…) soltanto in risposta a specifici annunci; altre invece apprezzano anche le autocandidature. Così come alcune prevedono dei colloqui di gruppo, anche per valutare le capacità di cooperazione e di competizione dei candidati, mentre altre procedono direttamente con incontri individuali. Il risultato è una rubrica che - ce lo auguriamo - sarà preziosa, d'ora in poi, per tutti coloro che desiderano documentarsi e prepararsi ad hoc prima di inviare il proprio curriculum a una di queste aziende, o in vista della convocazione per un colloquio. In bocca al lupo a tutti, buona lettura, e appuntamento alle prossime puntate con altre aziende!

Tirocini in Lombardia, ancora niente monitoraggio (malgrado sia previsto dalla legge)

Nella nuova regolamentazione della Regione Lombardia sui tirocini, entrata in vigore nel dicembre del 2013, c'era una promessa: quella di monitorare la situazione pubblicando ogni anno un report con i dati principali sul numero, la destinazione, l'esito di questi stage. Un modo per approfondire l'utilizzo di questo strumento formativo - entrato ormai da anni nella quotidianità delle aziende private, degli enti pubblici e perfino delle associazioni non profit - sopratutto per verificarne l'efficacia e contrastare gli eventuali abusi.La promessa finora non è stata mantenuta. A tenere alta l'attenzione del consiglio regionale su questo tema è Jacopo Scandella, uno dei consiglieri più giovani del PD, partito che in Regione Lombardia è all'opposizione. Scandella aveva già tirato fuori l'argomento del monitoraggio lo scorso ottobre, presentando una interrogazione con risposta immediata all'assessore al Lavoro Valentina Aprea in cui chiedeva «se il monitoraggio previsto» dalla normativa fosse stato eseguito «e, nel caso, se e dove è stato pubblicato sul sito web della Direzione generale Istruzione, Formazione e Lavoro». La Aprea dopo alcuni giorni si era presentata in consiglio e aveva risposto citando un rapporto di Eupolis: «L'analisi dei tirocini è effettuata per i tirocini extracurriculari per i quali è prevista la Comunicazione Obbligatoria» si leggeva nella sua risposta: «Regione Lombardia effettua e pubblica annualmente tali verifiche periodiche con l'obiettivo di acquisire indicazioni sull'andamento dell'istituto del mercato del lavoro. In particolare la previsione del citato art. 5, nel 2014 è stata attuata nell'ambito del rapporto di ricerca 2014 dell'Osservatorio del mercato del lavoro e della formazione nel quale sono stati presentati dati e informazioni sui tirocini extracurriculari». La Aprea aveva rimandato al sito di Eupolis, specificando che «il capitolo 4.5 è dedicato ai tirocini extracurriculari in Lombardia (pag. 108) e la tabella 4.4 illustra i Tirocini extracurriculari di giovani 15-29 anni attivati e cessati in Lombardia, per genere (pag.109)»«Ma terminata la risposta, andai a verificare» ricorda Scandella «e la cosa non tornava. Non erano che due paginette! La Aprea avrebbe dovuto semplicemente ammettere che il rapporto annuale non era stato fatto. Intendiamoci, non sarebbe stata la fine del mondo: poteva impegnarsi a recuperare. Invece in quell'occasione cercò di nascondersi dietro ad un lavoro di Eupolis che non poteva essere paragonato a quello che la Giunta stessa si era impegnata a fare con la delibera. A quel punto mi ero ripromesso di risollevare la questione in commissione o consiglio, per chiedere che la Regione si impegni a fare il rapporto annuale, dimostrando così maggiore attenzione sul tema dei tirocini, in crescita e che interessano molti ragazzi e ragazze». Il momento giusto si è presentato questa settimana: «Abbiamo discusso in aula una mozione che chiede alla giunta di realizzare finalmente il monitoraggio sistematico sulla qualità dei tirocini, come previsto dalla delibera che ha regolato tempi, costi e modalità dei tirocini in Lombardia sulla base dell'accordo in conferenza stato-regioni ormai datato 2013» racconta Scandella: «Chiediamo anche di promuovere degli osservatori nelle diverse province, composti da soggetti promotori, rappresentanti delle categorie, associazioni e sindacati, per valutare in maniera approfondita quali settori, territorio per territorio, si dimostrano più adatti alle esperienze di tirocinio». Oltre a Scandella, la mozione vede come firmatari altri tre consiglieri PD: l'ex sindacalista Onorio Rosati, già segretario generale della Camera del Lavoro di Milano; Mario Barboni, precedentemente impiegato in un'azienda tessile e per oltre dieci anni sindaco di un paesino in provincia di Bergamo; ed Enrico Brambilla, già revisore legale e anche lui con una lunga esperienza da sindaco (a Vimercate).Al momento della discussione l'assessore Aprea non era presente in aula; in sua vece è intervenuto il collega Massimo Garavaglia, titolare dell'assessorato regionale all'Economia, crescita e semplificazione, «dicendo che non si era fatto in tempo ad inserire il monitoraggio l'anno scorso» racconta Scandella «ma che a marzo dovrebbe essere inserito nel rapporto annuale sul lavoro. La mozione per questo motivo è stata rinviata in commissione». Anche se è improbabile che riesca a passare, perché la Lega e la Lista Maroni hanno già espresso parere negativo: «Secondo loro il monitoraggio è solo più burocrazia». Niente di più sbagliato in questo caso: solo conoscendo i dati reali di utilizzo degli strumenti di accompagnamento dalla formazione al lavoro, di cui il tirocinio è il più importante e senz'altro il più utilizzato - sono all'incirca 90mila gli stage che vengono attivati ogni anno nella sola Lombardia, che in assoluto ospita il numero più alto di stagisti, sia lombardi sia provenienti da altre Regioni - si potranno approntare le politiche giuste per affrontare e ridurre la disoccupazione giovanile.E comunque, volenti o nolenti, alle leggi ci si dovrebbe sempre adeguare: se nel testo della delibera sui tirocini c'è scritto che la Regione si impegna a realizzare il monitoraggio - testuale: «La Regione promuove un monitoraggio sistematico dei tirocini e degli eventuali inserimenti lavorativi post tirocinio, anche attraverso l’analisi delle comunicazioni obbligatorie. Sulla base di questo monitoraggio sarà redatto un rapporto annuale, pubblicato sul sito web della Direzione generale competente» - non è accettabile che la legge venga disattesa.«Peraltro Garavaglia ha smentito quanto detto da Aprea a ottobre» rileva Scandella, dato che «lei aveva affermato che il monitoraggio era quella paginetta nel rapporto Eupolis». Ora il Partito democratico chiede «che il monitoraggio non si esaurisca in una sintesi all’interno del Rapporto annuale del mercato del lavoro e della formazione, ma in una approfondita e puntuale relazione» suggerendo che sia  «arricchita anche da una analisi del livello di trasformazione dei tirocini in rapporti di lavoro».

Formare i giovani al lavoro, ripartono gli stage del “Campus” di Sanpellegrino

«Tra sei mesi sarete persone completamente diverse: sarete dei professionisti super appetibili nel mondo del lavoro». Un biglietto da visita migliore, per un programma di stage, non potrebbe esistere: specialmente se a pronunciare la frase è un ex tirocinante che ha vissuto la stessa esperienza l'anno precedente. Così ha presentato il Sanpellegrino Sales Campus Plus Ian, 25enne bergamasco, che l'anno scorso ha fatto la sua esperienza da “campussino” nella zona dell'Emilia Romagna: «Siete fortunati perché l'azienda vi sarà veramente vicina: sfruttate bene i tutor, io nel mio ho trovato non solo un mentore ma anche un amico». Entusiasta anche un'altra ex “campussina”, Lucrezia: «Ci si mette realmente in gioco, è un training sul campo».Il “Sanpellegrino Sales Campus”, opportunità di fare un'esperienza on the job nella più importante azienda del settore beverage non alcolico, è ripartito questa settimana. «I giovani hanno bisogno di ritrovare la fiducia nel mercato del lavoro e nel Paese» ha detto Stefano Agostini, AD di Sanpellegrino, all'evento che ha dato avvio all'edizione 2016. «È fondamentale per voi trovare un contesto dove cominciare a mettere in pratica le cose imparate» ha aggiunto rivolgendosi direttamente ai ragazzi: «Questo nostro Sales Campus all'interno di Sanpellegrino, azienda tra le icone e i simboli del “Made in Italy”, si inscrive nel progetto più ampio Nestlé Needs Youth. Ragazzi, avete una grandissima opportunità: da domani sarete già operativi. Nei primi giorni potrete capire insieme ai nostri colleghi cos'è questa azienda, come siamo organizzati». Raccomandando a ciascuno dei 19 neo “campussini” di sfruttare al massimo l'occasione: «Un ruolo molto importante lo avranno i tutor, vi seguiranno nel percorso e anche quando sarete sul campo, nelle vendite o nelle fabbriche». Quattro dei ragazzi andranno a fare la loro esperienza all'interno di  stabilimenti produttivi Sanpellegrino: «Stare nelle fabbriche è bellissimo, lì si vedono nascere i prodotti»; parallelamente «chi sarà nelle vendite  vedrà i consumatori o i ristoratori prendere la decisione di acquistare i prodotti Sanpellegrino o quelli della concorrenza». Due percorsi diversi ma ugualmente interessanti: «Non è detto poi che chi comincia nelle vendite poi resti lì per tutta la vita» ha specificato Agostini, che proprio come venditore entrò vent'anni fa nel gruppo Nestlé, fino ad arrivare a ricoprire il ruolo di amministratore delegato di Sanpellegrino. Le sue parole trovano conferma nella testimonianza di Lucrezia, ieri campussina nelle vendite a Roma, oggi assunta nell'ufficio marketing della categoria cioccolata: «Una prova che le competenze acquisite in ambito commerciale mi sono servite per il mio futuro».«Vivete questo momento anche come una opportunità per voi di capire quali sono le vostre ambizioni» è stata l'esortazione di Agostini: «Metteteci tanta dedizione e fate tante domande. La nostra priorità è darvi 6 mesi di formazione, se poi porterete dei risultati ne saremo contenti, ma l'obiettivo é quello della formazione: darvi la possibilità di fare un'esperienza che vi permetta di trovare un posto di lavoro, qui in azienda o anche in altre realtà».«È la terza volta che partiamo con questa avventura, ed ogni volta è più bello ed emozionante» ha aggiunto Giacomo Piantoni, direttore HR di Nestlé Italia: «Complimenti ai ragazzi che hanno superato le selezioni, che sono state durissime: da quando è partita l'iniziativa abbiamo ricevuto più di 100mila cv». Non a caso il Gruppo Nestlè, per la sua attenzione al tema dell'occupazione giovanile, da sempre aderisce al network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti e ha ottenuto anche per l'anno in corso il riconoscimento Bollino OK Stage. Piantoni ha voluto riassumere la realtà e condividere con i neo campussini i valori di Nestlé: «Abbiamo 13 fabbriche e diamo lavoro a 5.500 persone con un fatturato enorme, 2,2 miliardi di euro. Nestlé non ha come obiettivo solo di remunerare gli azionisti dell'azienda o di soddisfare le esigenze dei consumatori, ma anche di creare un equilibrio e un beneficio sociale. Per questo dalla fine del 2013 è partita una iniziativa di Nestlé Europa, chiamata Nestlé Needs Youth, per dare un piccolo contributo a uno dei problemi sociali di oggi: quello della disoccupazione giovanile». Il manager è ben consapevole che «non è certo un problema che può risolvere un'azienda» e che «ci vuole un sistema», ma è orgoglioso di raccontare che «Nestlé, in quanto azienda leader nel suo settore, ha deciso a livello europeo di alzarsi in piedi e di dire “voglio dare un mio contributo”». Il progetto NNY si ripromette di aprire in tutta Europa 20mila opportunità in 3 anni (2014-2016) per ragazzi under 30. «In Italia l'obiettivo che ci era stato assegnato a livello di Paese è stato raggiunto dopo soli due anni, creando opportunità di vero e proprio lavoro - dunque assunzioni - oppure di traineeship per 1.100 persone» ha specificato Piantoni, raccontando anche i progetti collaterali come “readiness for work” «per cui abbiamo realizzato 60 eventi coinvolgendo migliaia di ragazzi, organizzando workshop su come scrivere un cv, fare un colloquio…». Piantoni ha anche ricordato come il progetto Nestlé Needs Youth si sia espanso anche attraverso la Alliance for Youth, «per moltiplicare a valanga l'energia e aumentare le opportunità». Nestlé ha cioè chiesto alla filiera dei suoi fornitori e partner commerciali di realizzare iniziative analoghe a favore dei giovani e così «oggi a livello europeo sono coinvolti 200 nostri partner commerciali. Noi in Italia ne abbiamo 13, il fiore all'occhiello é Chep. Se prendiamo in conto l'intera Alliance, parliamo di 3.500 opportunità in più create in due anni: capite l'impatto che può avere». Infine un riferimento all'alternanza scuola-lavoro, «che in altri paesi come Germania o Austria è già naturale, è normale fare 2-3 giorni a scuola e 2-3 giorni al lavoro: pensate all'impatto che avrebbe se applicata al sistema italiano». Perché secondo Piantoni uno dei problemi principali in Italia è proprio quel «gap tra teoria e pratica» che penalizza i giovani che escono dai percorsi formativi nostrani: «Ma adesso non dovete solo imparare un mestiere nuovo, bensì anche andare oltre l'aspetto tecnico: capire quali sono le vostre caratteristiche e cosa vi piace fare. Dovete trovare un lavoro che si adatti alle vostre caratteristiche ma vi permetta anche di realizzarvi come persone. I vostri tutor sono qui per questo, per aiutarvi ad avere successo».Chep, chiamata in causa da Piantoni, è una società partner del gruppo Nestlé da 15 anni: «Per noi è il secondo anno di partecipazione a questa iniziativa, siamo siamo tra le prime 14 aziende in Europa che hanno aderito alla Alliance» ha detto  Paola Floris, country general manager per l'Italia: «Anche noi vogliamo dare il nostro contributo per dare nuove opportunità di lavoro: il Sanpellegrino Sales Campus Plus è un progetto bellissimo per arginare la disoccupazione. Alla fine tanti parlano, ma veramente pochi hanno delle iniziative concrete in corso». Per questo Chep ospiterà quest'anno due campussini che andranno ad aggiungersi ai 19 di Sanpellegrino: dunque in totale saranno 21 i giovani impegnati in questa edizione. «L'obiettivo è darvi una maggiore employability in futuro, cioè competenze aziendali che completino la preparazione culturale che avete accumulato in questi anni» ha concluso la Floris con un augurio ai ragazzi: «che vi portiate a casa il più possibile. Fate domande e siate curiosi, capite quali sono i valori che vi differenziano». «Il Sanpellegrino Sales Campus Plus è una esperienza di grandissimo valore: ovviamente noi vogliamo prenderci una parte di questo valore, vogliamo la vostra freschezza, vogliamo capire come fare le cose in modo diverso. Dateci tanti feedback in questi sei mesi, sarete per noi una fonte inestimabile!» ha scherzato Gabriella Carello, che da qualche mese è direttore HR di Sanpellegrino. Chiarendo poi subito, ovviamente, che il vantaggio vero sarà naturalmente sopratutto per i campussini: «Vogliamo che alla fine del sesto mese siate nelle condizioni di avere un percorso facilitato nel trovare una occupazione». E c'è da scommettere che il desiderio dei 21 ragazzi sia esattamente questo.

Smartworking, Milano spinge l'acceleratore: “Aziende, si può lavorare anche fuori dall'ufficio”

«Il lavoro agile, o “smart working”, può essere uno dei tasselli per cambiare profondamente il modo di lavorare degli anni 2000: un modo per migliorare sia le condizioni di lavoro, sia la produttività delle aziende e la qualità della vita delle persone». Con queste parole Andrea Orlandini, vicepresidente dell’AIDP – l'Associazione italiana per la direzione del personale –  ha aperto qualche giorno fa l’incontro «Una legge agile per un lavoro agile» organizzato dalla sua associazione e dal Comune di Milano per presentare il nuovo testo sullo smart working collegato alla Legge di stabilità e anche la terza Giornata del lavoro agile fissata dall’amministrazione milanese per il prossimo 18 febbraio (sul sito del Comune tutte le informazioni).Milano si è in effetti distinta negli ultimi anni per la sua attenzione verso il «lavoro agile», ovvero quella nuova forma di organizzazione dell’impiego che permette al lavoratore di svolgere i propri compiti in luoghi diversi dall’abituale posto di lavoro e con altri orari rispetto a quelli tradizionali, venendo valutato in base agli obiettivi raggiunti invece che per le ore di presenza in ufficio.Alle precedenti edizioni della Giornata del lavoro agile hanno aderito più di 200 aziende e sono stati organizzati dal Comune spazi di lavoro nei più disparati luoghi pubblici (piscine, parchi e aree comuni), generando una bella partecipazione dei cittadini. La città infatti può contare, come racconta Cristina Tajani, assessore al Lavoro della giunta Pisapia, su 49 spazi di coworking accreditati presso il registro comunale – più del doppio se si contano i non registrati – e si è impegnata a presentare per il prossimo 18 febbraio un’app dedicata ai cittadini per trovare lo spazio di lavoro libero più vicino. E Non solo i privati aderiscono a questa iniziativa, aggiunge l’assessora, ma anche la pubblica amministrazione.Il lavoro agile permette di ripensare il proprio rapporto con l’orario e il luogo di lavoro. E la nuova legge «mancava in passato», come ci tiene a chiarire una “collega”  di giunta della Tajani, l’assessora Chiara Bisconti [nella foto, le due assessore insieme durante l'evento], che guida il settore di Palazzo Marino che si occupa di benessere e qualità della vita: una legge necessaria, insomma, che finalmente «risolve gli aspetti problematici dello smart working». Maurizio Del Conte, professore associato di Diritto del lavoro all'università Bocconi e tra gli ideatori della legge, identifica questi problemi nella sicurezza del lavoratore fuori dall’ufficio o nell’evitare l’isolamento che il lavoro autonomo potrebbe creare. Oltre a questi problemi, il testo fornisce una nuova definizione del lavoro agile: si applica a ogni tipo di contratto subordinato privato, è su base volontaria, in caso di abbandono si torna al contratto precedente; gode di speciali assicurazioni sugli infortuni e si applicano le normali condizioni di recesso. Per la pubblica amministrazione verranno definite regole particolari nella futura Riforma della pubblica amministrazione, ancora in fase di studio.Il disegno di legge vuole essere «leggero, e non porre paletti» e in particolare «non predefinire livelli organizzativi a cui il lavoro agile può essere offerto ma lasciare aspetti di sviluppo, perché se c’è una cosa che abbiamo riscontrato è che le sperimentazioni di lavoro agile sono molto timide».Chi non è stato timido nelle sperimentazioni è Nestlé, come racconta Giacomo Piantoni, direttore risorse umane Italia della multinazionale svizzera che non a caso ha ricevuto dal Comune di Milano e dalla Repubblica degli Stagisti, l'anno scorso, proprio il premio "RdS award speciale Giornata Lavoro Agile": «Abbiamo iniziato nel 2012. Non avendo una normativa di riferimento ci siamo ispirati a ciò che volevamo raggiungere: una nuova cultura aziendale più orientata alla performance che alla presenza fisica del lavoratore». E i numeri di questo singolo caso evidenziano risultati importanti: nella sede di Assago dell’azienda, su 1800 persone circa il 90% ha utilizzato una o più volte lo smart working, per una media di circa 300 al mese. Nestlé ha sperimentato un approccio sistematico, con quote fisse di lavoro fuori dalla sede per ogni dipendente, e uno occasionale quando ragioni  contingenti rendevano necessario al lavoratore utilizzare una sede differente. Allo stesso tempo sono stati registrati un aumento della produttività e una diminuzione di richiesta degli straordinari. L’azienda è più che soddisfatta dell'esperienza e scommette sulla sostenibilità del lavoro agile anche per il futuro: «Siamo convinti che contribuisca alla parità di genere, dato che non si sono rilevate da noi differenze nella richiesta tra uomini e donne infatti» conclude Piantoni «e che piaccia ai giovani».«Il tema di attrarre persone giovani e dei talenti è un tema importante che non possiamo tralasciare» concorda Patrizia Bonometti, responsabile risorse umane di Tenaris Dalmine, azienda che al momento invece non usa il lavoro da remoto ma non esclude di introdurlo in futuro: «Cerchiamo sempre di migliorare il rapporto fra vita e lavoro dei nostri dipendenti. Nel tempo vogliamo coinvolgere alcune aree aziendali, tra quelle possibili, per trovare un modo di iniziare a instillare alcune forme di lavoro agile». La maggiore flessibilità dell’impiego e dell’orario infatti sono un plus per le nuove generazioni: «I giovani riconoscono un’impresa che usa il lavoro agile come più vicina ai loro stili di vita» ribadisce alla Repubblica degli Stagisti l’assessora Bisconti.E poi in realtà questa modalità non favorisce solo chi si affaccia per la prima volta sul mercato del lavoro. Anzi, sono sopratutto i lavoratori con figli a carico a poter apprezzare e sfruttare una maggiore indipendenza nell’organizzazione. L’equilibrio maggiore tra vita e lavoro sembra essere veramente una delle caratteristiche principali del lavoro agile, capace di creare un vero e proprio vantaggio competitivo per le aziende che lo utilizzano come spiega la Bisconti: «Noi questo vantaggio l’abbiamo misurato fisicamente durante le edizioni precedenti della Giornate del lavoro agile, in due ore di tempo risparmiate quotidianamente per ogni lavoratore». Insomma questa modalità di lavoro sembra aiutare non solo le aziende ma  tutti i cittadini: per questo la Bisconti lancia un ultimo appello ad aderire alla terza Giornata del lavoro agile: «Un’intera città può trarre vantaggi dal ripensamento di un nuovo rapporto con il lavoro. Il lavoro agile fa bene anche al territorio. Il singolo individuo può raggiungere nuovi livelli sia di produttività sia di qualità della vita». Resta solo da vedere quando la nuova normativa sul lavoro agile verrà approvata, e diventerà uno strumento concreto a disposizione di datori di lavoro e lavoratori del nuovo Millennio.Matteo Moschella

Jobs Act, addio al contratto a progetto: anzi no

Era stata annunciata lo scorso anno e con Capodanno è diventata realtà. Stiamo parlando della scomparsa dei contratti a progetto, i cocopro, cioè le collaborazioni continuative a progetto. Il Jobs Act recita infatti che «a far data dal primo gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro».Rientrano nell’abolizione però solo le collaborazioni esclusivamente personali, ossia «svolte dalcollaboratore unicamente tramite propri mezzi e capacità, senza avvalersi, a sua volta, di collaboratori, uffici, o strutture di propria proprietà o di cui ha la direzione. Ad esempio, il libero professionista con un proprio ufficio, una segretaria ed eventualmente collaboratori o praticanti non svolge la propria professione in maniera esclusivamente personale, ma soltanto prevalentemente personale». Le collaborazioni devono essere poi continuative e con modalità lavorative gestite prevalentemente dal committente, cioè etero-organizzate. La differenza rispetto al passato è che «anche in precedenza questi elementi potevano essere indice di subordinazione, ma mancava un automatismo, come invece stabilito dalla riforma», chiarisce Giampiero Falasca, avvocato esperto di diritto del lavoro e partner dello studio DLA Piper, che ha aiutato La Repubblica degli Stagisti nell'analisi delle novità legate a questo tipo di collaborazioni.Quanti sono i soggetti coinvolti? Non ci sono dati ufficiali: l'Istat parla per il 2014 di 378mila collaboratori continuativi a progetto. «Ma è difficile conciliare i dati provenienti dalle varie fonti» avverte Falasca: «La stima più credibile è quella di 500mila cocopro l’anno, con una tendenza a diminuire, in virtù della crescente contribuzione previdenziale applicata negli ultimi anni. Inoltre, gli iscritti agli ordini erano ad esempio esentati dalla normativa sul progetto».Bisogna ricordare che diverse tipologie di collaborazioni non rispondono ai requisiti previsti, e quindi non sono coinvolte dall’abolizione. Tra queste le collaborazioni continuative, svolte in maniera prevalentemente personale e autonomamente organizzate dal collaboratore; quelle disciplinate dai contratti collettivi nazionali; quelle prestate nell'esercizio di professioni intellettuali per cui è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali; le attività rese da amministratori e sindaci di società e da partecipanti a collegi e commissioni; e ancora, le collaborazioni rese in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate al Coni e quelle collaborazioni certificate dalle Commissioni di Certificazione, in base all'art. 76 del decreto legislativo 276/2003.Un esempio sono, come detto, i  collaboratori coinvolti da accordi collettivi nazionali che prevedono discipline specifiche, tra questi docenti di scuole e università private o addetti dei call center: «In parole povere elimino il lavoro a progetto e dico che tutto il lavoro etero-organizzato è dipendente, ma poi lascio spazio ad accordi sindacali per cui si torna ai vecchi cococo», chiarisce il giuslavorista Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia, già allievo del compianto Marco Biagi e poi braccio destro di Maurizio Sacconi all'epoca in cui quest'ultimo era ministro del Lavoro, nel governo Berlusconi.L'aspetto importante, in tutta questa vicenda, è che non sono invece intaccati dalla normativa i «parenti» dei contratti a progetto, ossia i cococo, che restano quindi in vigore come da articolo 409 n.3 del codice di procedura civile e disciplinano le attività lavorative di cui sopra. Cioé se è vero che «non è più possibile stipulare i contratti a progetto regolati dal d.lgs. 276/2003, la cosiddetta Legge Biagi, perché queste norme sono state abrogate», Tiraboschi sottolinea che «i contratti a progetto erano però, nella sostanza, una categoria particolare di collaborazioni coordinate e continuative, quelle regolate dall’art. 409 n° 3 del codice di procedura civile, che invece rimane in vigore». Morale della favola: «Si possono ora stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa del tutto similari ai contratti a progetto, come avveniva prima del 2003» dice il giuslavorista «ma ai collaboratori non dovranno essere riconosciute necessariamente le tutele introdotte dalla legge Biagi. Tra queste le norme che consentivano al lavoratore una sospensione del contratto in caso di malattia, o definivano la durata del contratto, legandola appunto al progetto, e limitavano i casi in cui il committente poteva recedere. Senza dimenticare quelle che fornivano indicazioni in merito al corrispettivo minimo da garantire al collaboratore. Non essendo più in vigore tali limitazioni, la regolazione di questi aspetti rimane in mano alle parti». Tiraboschi prevede pessimisticamente che «spesso si risolverà in una disciplina meno favorevole per il collaboratore, quando quest’ultimo non avrà lo stesso potere contrattuale di chi offre lavoro. Insomma, da questo punto di vista pare ci sia un arretramento di tutele». Le collaborazioni che potranno essere instaurate insomma «non sono nuove, come sopra evidenziato, e anzi potrebbero far riscontrare nuovamente, nell’ordinamento, quegli abusi applicativi a cui la legge Biagi aveva tentato di porre rimedio».Falasca è sostanzialmente d'accordo: «I cococo erano vigenti ma applicabili solo se collegati a un progetto. Il Jobs Act ha cancellato l'obbligo di progetto ma ha lasciato in vita i  cococo; per la pubblica amministrazione già prima non c'era il vincolo del progetto, oggi i due settori, pubblico e privato, si sono allineati». Ma secondo l'avvocato «la riforma dovrebbe ridurre ulteriormente l'utilizzo delle collaborazioni, considerato anche che ci sono gli incentivi,  seppure meno convenienti del 2015, per chi assume a tempo indeterminato ed è prevista anche una sanatoria per gli illeciti. Non scompariranno del tutto, però, perché in molte attività lo strumento è quello più adatto al rapporto».Se dunque da un lato i contratti a progetto come previsti dalla legge Biagi spariscono, dall’altra continuano a rimanere in vita una serie di collaborazioni continuative, segnate da un numero di restrizioni minore rispetto ai vecchi cocopro e quindi non sempre necessariamente favorevoli al lavoratore. «Oggi i cococo si possono fare in tutti i settori, prima era solo pubblica amministrazione ma solo perché non si applicava la legge Biagi e dunque il lavoro a progetto» aggiunge Tiraboschi: «Venuto meno il lavoro a progetto, si può fare il cococo per ogni lavoro e per ogni settore, ferma restando quella presunzione di subordinazione per i rapporti di collaborazione etero-organizzati dal committente. Tempo e luogo di lavoro sono i principali indicatori della etero-organizzazione».Sarà interessante valutare nel prossimo anno quante delle attuali collaborazioni diventeranno effettivamente assimilabili al lavoro subordinato a livello contrattuale e quante invece tenderanno a «sopravvivere» seppur in forme e modalità differenti. Inoltre «bisognerà vedere se la riforma prenderà sul serio i rischi connessi alla etero-organizzazione» conclude il giuslavorista: «Se così non fosse, l'abrogazione del progetto si risolverebbe in una liberalizzazione del lavoro parasubordinato, effetto contrario a quello voluto dal legislatore». Speriamo di no. Chiara Del Priore

Stage alla Commissione Ue, il bando è aperto e gli italiani accorrono: «Un'esperienza che aumenta le possibilità di trovare lavoro»

Ancora boom di partecipazione degli italiani agli stage presso la più importante istituzione della Ue, la Commissione europea di Bruxelles. «Negli ultimi dieci anni le loro candidature sono state le più alte di tutti i paesi Ue»: a confermarlo alla Repubblica degli Stagisti è Florencia van Houdt, responsabile alla direzione Youth programme, outreach tools and traineeships all'organo di governo dell'Unione. «Il programma di tirocini ha sempre attratto una grande quantità di giovani fin dalla sua creazione nel 1960» prosegue «e le statistiche dimostrano che chi fa questa esperienza ha più chance di trovare un lavoro in seguito, molto spesso legato alle politiche europee». Quella riga prestigiosa in più sul cv, sopratutto considerando il contesto del mercato del lavoro italiano che rispetto all'occupazione giovanile è messo piuttosto male, spiega insomma le 2.730 candidature arrivate dal Belpaese solamente nella sessione di ottobre 2015. Su un totale di circa 24mila domande pervenute per quella sessione noi siamo davanti a tutti gli altri (la Spagna è seconda con 2.300,gli altri Paesi si attestano molto al di sotto delle mille unità). Anche se si rileva un lieve calo, perché negli anni precendenti si era andati oltre le 4mila application dall'Italia per la sessione di ottobre.Il richiamo insomma è sempre forte, anche perché le condizioni di stage sono tra le migliori in circolazione: 1.120 euro di rimborso mensile, con copertura aggiuntiva delle spese di viaggio di andata e ritorno (l'assicurazione sanitaria è invece a parte), per cinque mesi. Chi si iscrive adesso, se supera le selezioni, è ammesso alla tranche di tirocini – ogni anno ce ne sono due – che va dal primo marzo al primo ottobre 2016. Ci si candida attraverso il web, a questo link, entro il 29 gennaio a mezzogiorno. I posti disponibili sono molti, circa 650 a sessione, e gli italiani ammessi a ottobre scorso sono stati più di 50. Può farsi avanti chiunque abbia conseguito una laurea, anche triennale, e abbia un'ottima conoscenza dell'inglese, del francese o del tedesco e di una seconda lingua europea: come specificato sul sito non si deve trattare di soggetti madrelingua, il punteggio è assegnato infatti sulla sola base del merito. Escluso dalla corsa chi abbia partecipato a stage rimborsati o abbia lavorato presso le istituzioni Ue per sei settimane consecutive. Il processo di selezione prevede poi alcune particolarità. Dopo la prima scrematura dei cv – nell'application non serve inviare documentazione, che sarà invece richiesta in caso di superamento della prima fase – si finisce nel cosiddetto Blue Book. «Ci sono due valutatori» specifica la van Houdt, «viene assegnato un punteggio, anche in base alla nazionalità di provenienza» nel senso che si cerca di garantire un equilibrio tra i diversi paesi di origine. I migliori finiscono appunto nel Blue Book, una shortlist di circa 3mila persone, attraverso «un meccanismo procedurale» spiega, a cui è associata la richiesta dell'invio della documentazione ufficiale: certificati, diplomi e altro. Da questa lista attingano le varie direzioni della Commissione a seconda delle loro esigenze. Chiamare o insistere per la propria selezione è da evitare, spiega la responsabile, «perché sono le direzioni generali a contattare i diversi candidati in caso ne abbiano necessità»: ma su questo i pareri sono discordanti e alcuni ex eurotirocinanti, tra cui uno che aveva condiviso tempo fa la sua esperienza proprio con la Repubblica degli Stagisti, raccontano invece di essere riusciti a entrare proprio dimostrandosi proattivi e prendendo contatti diretti con le Direzioni.  Attenzione comunque a non illudersi in caso si riceva una telefonata "esplorativa": un'intervista telefonica non significa che si sia stati presi, e l'ufficialità è data solo dall'invio della convenzione da sottoscrivere. Quanto alle mansioni, possono essere le più disparate e «abbracciano tutti i settori di competenza della Ue: risorse umane, legal, ambiente, formazione» snocciola Florencia van Houdt. La tipica giornata dello stagista Ue prevede «l'assistenza a meeting, gruppi di lavoro, ricerca di documentazione, partecipazione a progetti in corso». C'è molto da aspettarsi da un'esperienza simile anche al di là dei compiti affidati nella quotidianità. Si passa attraverso un periodo di approfondimento delle politiche della Ue, «con l'opportunità di vedere cosa succede giorno per giorno e di trasferire le conoscenze accademiche nella pratica». I reclutatori della Commissione cercano nei candidati «apertura verso le problematiche europee, proattività, desiderio di imparare e contribuire con la freschezza del proprio background». Per chi se la sente, come detto le selezioni sono aperte fino al 29 gennaio: gli italiani in lizza al momento sono già più di 2.200.  Ilaria Mariotti