Categoria: Interviste

Studente modello e bigliettaio in un cinema: «Non ricevo la borsa di studio per mancanza di fondi»

Per raggiungere la media del 30 a Simone Di Molfetta, 21enne di Milano, basterebbe solo mezzo punto in più. Si è diplomato, anche lì con il massimo dei voti, al liceo classico Manzoni. E frequenta da tre anni la Facoltà di Giurisprudenza, ciclo quinquiennale, alla Statale di Milano, è in corso e ha voti agli esami da capogiro. Tanto da meritare una borsa di studio per merito, «riservata solo a chi ottiene i migliori risultati del corso» spiega alla Repubblica degli Stagisti, e che però «non è mai arrivata per mancanza di fondi», come sempre più spesso accade negli atenei italiani. Con buona pace del diritto allo studio.  Una borsa ti è però stata riconosciuta dal primo anno di università. Sì, quella cosiddetta di servizio, che l'università Statale mette a disposizione per chi ha un valore Isee tra i 23mila e i 40mila euro, a differenza della borsa regionale che è invece per gli Isee al di sotto dei 23mila euro. Per ottenerla anche qui i requisiti di merito contano ai fini del posizionamento in graduatoria. E io riesco a prenderla da tre anni.  Quanto è l'ammontare?Sono 1800 euro. Contando che gli assegnatari di borsa di studio hanno diritto anche all'esenzione dalle tasse, si tratta di una somma con cui si riescono a coprire bene le spese per i libri ad esempio, che in una facoltà come quella di Giurisprudenza possono arrivare a 500 euro all'anno, anche perché i testi non possono essere di seconda mano ma devono essere aggiornati con la normativa. Poi ci rientrano le spese per i trasporti e quelle per la formazione, se per esempio decidi di partecipare a un  convegno.  Restano fuori tutte le altre spese. Sono figlio unico, mia mamma è un'impiegata part time, mio papà è un operaio tuttora in attività per garantirci l'attuale tenore di vita. Milano è una città con un costo della vita oneroso, e se per esempio si vuole uscire qualche volta la sera significa spendere sui 30, 40 euro a settimana. E io non ho mai voluto gravare troppo sui miei genitori.  Così ti sei messo a cercare lavoro...Sì, perché ci ho sempre tenuto a avere una certa indipendenza economica e un'autonomia di vita. A parte i bisogni della mia famiglia, che effettivamente c'erano, la scelta di lavorare è stata anche per approcciarmi al mondo del lavoro e fare le prime esperienze.  E che cosa hai trovato?Inizialmente ho fatto ripetizioni. Poi mi sono messo a mandare curriculum e qualche settimana fa sono stato preso in un cinema di Assago, dove mi occupo sia di biglietteria che del bar. Ho un regolare contratto, che prevede 16 ore di lavoro a settimana e una paga di circa 400 euro al mese nette. Poi ci sono anche gli straordinari delle festività da mettere in conto.  Potresti perdere il diritto alla borsa di studio con questo lavoro. Potrei, ma lo scoprirò solo tra due anni, perché l'Isee si calcola sulla dichiarazione dei redditi dell'anno precedente.  Non temi che questo nuovo impegno possa interferire con gli studi?In questa sessione non sono previste lezioni, quindi al momento mi destreggio abbastanza bene. È molto probabile però che quando ricominceranno avrò meno tempo per lo studio e per concentrarmi. Nel mio corso basta un attimo per finire fuori corso e perdere così la borsa. Anche perché si fa presto a dire 'lavoretto', qualunque lavoro è impegnativo in quanto tale.  Alla fine quindi si lavora per poter proseguire con gli studi, ma si finisce per non riuscire a studiare comunque. Centri il punto, è proprio così. Senza contare che lavorando si rischia anche di perdere il diritto alla borsa di studio e all'esenzione delle tasse, ritrovandosi peggio di prima e mandando all'aria tutto il percorso fatto. E a rimetterci è in primis lo Stato con tutto l'investimento fatto sullo studente.  Sostieni anche tu il reddito di formazione che propone l'associazione Link?Sì, faccio parte di Link e sono a favore della proposta a patto che non vada a premiare i “choosy” ma sia davvero uno strumento che garantisca l'accesso allo studio così come costituzionalmente previsto.  Quali dovrebbero i requisiti per rientrarci?Sicuramente di reddito e non di merito. Il mio parere è che questi ultimi sono requisiti ingannevoli perché spesso chi vive situazioni di disagio economico e sociale non ha la serenità sufficiente per ottenere buoni risultati negli studi. Ho amici che si trovano in queste condizioni e posso confermarlo.   Quali sono i tuoi programmi per il futuro?Prevedo di laurearmi in corso, vale a dire nel 2022. Dopodiché mi piacerebbe entrare in magistratura.  E il lavoro al cinema? L'ambiente è buono e con i colleghi mi trovo bene. Ho perfino gli ingressi gratuiti in sala. Me lo tengo stretto finché dura.  Ilaria Mariotti  

Quando la vita diventa un master: come e perché Maam è un progetto changemaker

Chi ha detto che un master si può svolgere solo tra i banchi universitari? E se invece la strana acrobazia di una mamma che sta con una mano al pc e l’altra sul biberon, magari con un occhio puntato sul telefono aziendale, fosse già in sé un piccolo corso di formazione? È con la volontà di valorizzare le competenze che si sviluppano tra le peripezie quotidiane di genitori divisi tra lavoro e famiglia che Riccarda Zezza nel 2014 ha deciso di creare Maam, “maternity as a master”, un programma che aiuta a sfruttare in ambito lavorativo tutte quelle capacità maturate quasi inconsapevolmente nella pratica quotidiana, specie con la nascita di un figlio, che si rivelano poi indispensabili anche nel lavoro: le cosiddette “soft skills”. L’idea è quella di combattere lo stereotipo secondo cui carriera e vita privata risultano spesso in concorrenza tra loro e mostrare come l’energia spesa in ambito familiare permetta invece lo sviluppo di competenze chiave anche in ambito professionale. Grazie a questo progetto di imprenditoria sociale nel 2016 Riccarda Zezza è stata nominata Ashoka fellow. Da dove arriva l'idea di Maam?Dalla mia esperienza personale. Ho infatti lavorato per quindici anni in grandi aziende multinazionali dove, a seguito delle mie maternità, ho vissuto l'aumento di complessità che deriva dall'avere diverse dimensioni importanti nella vita: una vera e propria palestra continua di competenze soft. Avere più ruoli non è un limite, anzi, arricchisce le persone con nuove energie che possono trasferirsi dalla sfera personale a quella lavorativa e viceversa. È così che mi è nata l'idea del metodo formativo di  Maam – Maternity As A Master, partendo da numerose ricerche scientifiche e interviste che confermavano le mie ipotesi di partenza. È seguito il libro “Maam. La maternità è un master che rende più forti uomini e donne”, scritto a quattro mani con Andrea Vitullo, co-fondatore del metodo. Dai percorsi di formazione in aula destinati ai “caregiver”, siamo successivamente arrivati all’idea di rendere digitale la nostra proposta. Da qui è partita l’avventura con la start up Life Based Value, società ED-tech che oggi vende alle aziende programmi di formazione digitale caratterizzati dal metodo del “Life Based Learning”, per trasformare le esperienze di vita in crescita professionale.Come funzionano i vostri master?Ad oggi il nostro metodo di apprendimento incrocia due fasi di vita: quella della genitorialità, con i master per le neomamme e i neopapà, e quella della cura di un genitore non autosufficiente, con il master per i figli caregiver.  I master trasderiscono il metodo del life based learning, l’apprendimento basato sulla vita: si accede ai contenuti online, e si sfrutta la pratica della vita quotidiana, a casa o al lavoro, per applicare e allenare alcune competenze soft, come l’empatia, il problem solving, la creatività, l’orientamento al risultato. Con i master, che non si svolgono in aula ma online e “nella vita reale”, aiutiamo le persone ad acquisire consapevolezza riguardo il fatto che le competenze particolarmente apprezzate nel mondo del lavoro vengono apprese e allenate nella loro vita quotidiana. Inoltre, insegniamo un metodo che trasferisce sul lavoro ciò che viene appreso nella vita, e viceversa. Oltre ai master per caregiver offriamo anche un percorso per i manager MAXimize, che offre contenuti formativi sui temi degli stereotipi – gli unconscious bias – e un tool per mettere in contatto il manager con il proprio collaboratore che sta partecipando a uno dei master. In questo modo aiutiamo le aziende a operare su più fronti, per creare un ambiente che sia inclusivo delle diversità e delle esigenze di tutte le tipologie di dipendenti, incluse le mamme, i papà, o gli over cinquanta che spesso ricoprono impegnative responsabilità di cura familiare.Com’è organizzato il lavoro nella vostra startup?L’azienda ha vissuto un processo importante di crescita negli ultimi mesi. Oggi è strutturata in team funzionali, dedicati rispettivamente alle attività di design e sviluppo digitale, ricerca e sviluppo di contenuti formativi, sviluppo del business – che include customer experience marketing e comunicazione, vendite – internazionalizzazione e finanza e amministrazione. Siamo in venti tra dipendenti e collaboratori. L’età media delle persone è di trentaquattro anni, il 65% sono donne e contiamo nel team sei nazionalità differenti. Insomma, da noi la diversity è assicurata!Dal punto di vista economico, avete realizzato nel 2019 un importante aumento di capitale...Sì, lo abbiamo chiuso lo scorso luglio con l’ingresso di alcuni “Business Angel”, 101 soci privati acquisiti grazie a una campagna di crowdfunding, e, in ultimo, tre fondi – l’ungherese Impact Venture, l’italiana Opes-LCEF Foundation, l’inglese MPA Education. Abbiamo raccolto un milione e mezzo di euro, che stiamo reinvestendo in tre principali aree: sviluppo dei prodotti digitali, attività di marketing e internazionalizzazione. Sappiamo che la nostra soluzione è unica al mondo e questo ci è da lo stimolo per continuare a innovare e sbarcare in nuovi mercati. Al momento il nostro orizzonte a medio-termine è l’Europa, ma abbiamo già raccolto manifestazione di interesse in diverse altre parti del mondo. Perchè l'attività di Maam è importante per la società?Le persone sono centrali nelle strategie delle aziende. Da una recente ricerca di Harvard Business University, risulta che il 73% dei dipendenti in un’azienda è un caregiver e in, media, dedica circa ventiquattr'ore a settimana a questa importante dimensione identitaria. Con l’allungamento della vita attiva questi numeri sono destinati ad aumentare: le aziende che sapranno valorizzare le esperienze della vita delle proprie persone acquisiranno nuove fonti di energia, aumento della produttività, benessere organizzativo. Le aziende che sanno vedere e fare spazo alla crescente complessità della vita dei propri collaboratori, facendone un vantaggio competitivo, noi le chiamiamo “Life Ready”. Quante aziende ad oggi hanno adottato le vostre proposte?Ad oggi circa settanta. Stiamo parlando di grandi società, che hanno un grande impatto nell’economia e nel mondo del lavoro in Italia, e che con noi si impegnano anche a cambiare il paradigma vita-lavoro. Dovrebbero essere molte di più e lavoreremo perché sia così! perché si tratta di una trasformazione necessaria e urgente, o la combinazione vita-lavoro diventerà presto insostenibile: i primi segnali di affaticamneto ci sono già, basti guardare ai crescenti livelli di stress. In che cosa Maam è innovativo?Maam è un metodo formativo proprietario, con basi scientifiche, unico al mondo. Abbiamo svolto numerose analisi di mercato e ancora oggi possiamo vantare il fatto di essere non solo i primi, ma ancora gli unici ad aver sviluppato un metodo che, basandosi sulle esperienze della vita, arricchisce sia le persone, sia le aziende. Uno dei nostri punti di forza è la ricerca scientifica. Prima di lanciare un nuovo prodotto formativo, conduciamo un’approfondita fase di ricerca, svolta sia con attività desk – approfondiamo temi legati alle neuroscienze e alle scienze comportamentali – sia con focus group e interviste; abbiamo un prezioso comitato scientifico e collaboriamo con diverse università come l'Alma Mater di Bologna, Ca Foscari e la Kellogg University.Come si è svolto il percorso per diventare Ashoka fellow?Si tratta di una selezione molto rigorosa, che valuta la persona ancora prima del progetto. La fellowship infatti seleziona e “segue” il fellow, non l’azienda. Viene valutata l’intenzione di avere un impatto positivo nel mondo, oltre alla portata del cambiamento promosso, che deve essere di carattere sistemico, ovvero: non tamponare i problemi con soluzioni a valle, ma risolvendoli a monte. Una soluzione sistemica, se funziona, elimina il problema alla radice, e il fellow si dedica a nuove missioni.Cosa ha significato esser nominata fellow?Certamente un grande orgoglio. Ashoka è una grande occasione di networking e confronto con gli oltre 3.500 imprenditori sociali di tutto il mondo che condividono le proprie esperienze. Da quando sono Ashoka Fellow ho  avuto l’opportunità di presentare Life Based Value in molti Paesi e siamo stati citati come best practice in importanti pubblicazioni internazionali. Siamo arrivati fino in Giappone, perchè un probnlema sociale spesso è simile a ogni latitudine, e così può esserlo la sua soluzione. Con Ashoka è stato possibile pensare subito in modo mondiale ed essere riconosciuti, grazie alla fellowship, come una vera e propria innovazione sociale.Intervista a cura di Giada Scotto

Colloquio in Meta System, istruzioni per l'uso

Meta System è un'azienda specializzata in sistemi elettronici avanzati per il settore automobilistico che opera a Reggio Emilia da quasi cinquant'anni, e dall'anno scorso fa parte del network di imprese virtuose della Repubblica degli Stagisti. Detiene più di centocinquanta brevetti registrati, impiega oltre duecento persone nell'area Ricerca & Sviluppo e collabora con i più importanti costruttori automobilistici. Non usa moltissimo lo strumento dello stage, ma quando lo fa lo fa bene: ai suoi tirocinanti offre tra i 450 euro e gli 850 euro al mese, e ha una media del 50% di assunzione al termine dello stage. Più spesso assume direttamente i profili junior, senza passare per lo stage: nel 2018 per esempio ha assunto una quarantina di under 30, di cui la metà direttamente con contratto a tempo indeterminato. Cecilia Zanoli e Chiara Iacono dell'ufficio HR, entrambe poco più che trentenni, raccontano come funziona il procedimento di ricerca e selezione del personale di Meta System. Cecilia Zanoli è laureata in Filosofia alla Cattolica di Milano e si è poi specializzata in Risorse Umane con un master internazionale; dopo un inizio di carriera a Milano, è approdata in Meta System nel 2013. Anche Chiara Iacono,  laureata in Psicologia del Lavoro a Padova, ha poi fatto un master in Gestione Risorse Umane; è arrivata in Meta System nel 2018.Quali sono i profili che ricercate maggiormente nella vostra azienda? Cecilia: I profili che ricerchiamo maggiormente sono laureati in ingegneria, in particolare elettronica ma non solo, e diplomati in ambito tecnico.Chiara: Al di là dell’aspetto puramente tecnico, ricerchiamo persone appassionate di tecnologia ed innovazione, che abbiano voglia di imparare e soprattutto contribuire allo sviluppo dei nostri prodotti!Come funziona in generale il vostro iter di selezione?Cecilia: Una volta ricevuto il cv tramite ricerca attiva, Linkedin o candidatura spontanea sul nostro sito, procediamo ad un primo colloquio telefonico in cui sondiamo l’aderenza del candidato al profilo ricercato, la sua motivazione e l’interesse nei confronti della nostra azienda. Dopo di che, se la valutazione è positiva, procediamo con un primo colloquio in azienda con il diretto responsabile e con un secondo step con il responsabile dell’area. Se tutti gli step procedono positivamente, procediamo con la formalizzazione della proposta.Preferite i cv nel formato standard “europass” o apprezzate i cv personalizzati?Chiara: Non abbiamo una preferenza, l’importante è che le informazioni all’interno del cv ci siano e siano corrette. Più che la forma, ci interessa il contenuto e la presentazione delle informazioni contenute nel cv in modo che non siano ridondanti ma che siano esaustive e ci permettano di avere un’idea del candidato a trecentosessanta gradi.Com'è organizzato il vostro ufficio HR per la parte recruiting?Cecilia: Al nostro interno abbiamo una risorsa che si occupa di tutte le fasi di recruiting. Ci avvaliamo di società di selezione esterne solo per alcune tipologie di profili.Per il recruiting fate colloqui di gruppo?Chiara: Per la tipologia e complessità di profili ricercati, solitamente utilizziamo la forma del colloquio one to one. Per il progetto di Talent che abbiamo portato avanti quest’anno [che la Repubblica degli Stagisti ha raccontato in questo articolo, ndr], abbiamo utilizzato l’assessment per valutare ad esempio il comportamento dei candidati durante un lavoro di gruppo.Cecilia: Il primo colloquio è individuale, con HR e il manager di riferimento. Solitamente in media dura un’ora, nel corso della quale andiamo a sondare tramite domande e presentazione di situazioni ipotetiche: motivazione, competenze soft e capacità tecniche. A seconda del profilo e della provenienza del manager di riferimento facciamo anche il colloquio in inglese. Se si conosce una lingua in più meglio, ma non è obbligatorio: questo può pesare, ad esempio, per chi ha a che fare direttamente con i nostri clienti. Quanti colloqui in totale di solito deve sostenere un candidato per arrivare alla meta?Cecilia: In totale sono tre colloqui: uno telefonico con HR, uno di presenza o via skype tecnico con il manager di riferimento e uno di persona con il responsabile dell’area di riferimento.Chiara: Il colloquio di persona è per noi fondamentale, soprattutto per ruoli tecnici in quanto prevediamo solitamente un passaggio in R&D per lasciare al candidato la possibilità di farsi un’idea di noi, delle persone che lavorano all’interno di Meta System e di tutto il know how e contenuto che difficilmente riesci a percepire a parole.Apprezzate le autocandidature oppure preferite che ci si candidi solamente ai vostri annunci? Chiara: Le autocandidature sono assolutamente apprezzate. Il nostro consiglio è di indicare bene in oggetto per quale posizione o area ci si candida, in modo da indirizzare il recruiter di riferimento, assicurarsi di allegare il cv prima dell’invio ed indicare brevemente nel testo della mail la motivazione ed eventuali informazioni che possono catturare l’attenzione del nostro recruiter. Cecilia: Per quanto riguarda i social network utilizziamo principalmente Linkedin, che può essere anche usato per candidarsi attivamente ai nostri annunci. Abbiamo poi un sito “lavora con noi” attraverso il quale è appunto possibile candidarsi spontaneamente. Ricercate anche profili tecnico scientifici? Cecilia: Assolutamente sì! Per noi i profili tecnico scientifici rappresentano il know how della nostra azienda.Vorreste ricevere più candidature di questo tipo da parte di ragazze?Chiara: Sì, se i profili tecnico scientifici sono donne ben venga! La difficoltà nel reperire queste figure sta nel fatto che la percentuale delle ragazze laureate in discipline Stem è bassa, anche se negli ultimi anni direi che abbiamo fatto dei grandi passi avanti.Vi sono delle qualifiche che ricercate nei candidati ma che faticate a trovare?Chiara: La conoscenza della lingua straniera è sicuramente un punto su cui noi italiani dobbiamo assolutamente migliorare, ma è una competenza su cui si può lavorare. Le competenze difficili da trovare e che sono quelle che fanno la differenza sono quelle soft, come ad esempio la capacità di lavorare in team. Parlando di profili più senior, abbiamo delle competenze tecniche difficilmente reperibili sul mercato perché molto specifiche, legate ai prodotti che sviluppiamo e che si imparano crescendo all’interno della nostra realtà.Qual è l'errore che non vorreste mai veder fare a un candidato durante un colloquio?Chiara: Non fare domande. Il rischio è quello di sembrare poco interessati e curiosi rispetto alla nostra realtà. E’ sempre bene prepararsi alcune domande generali sull’azienda e sulla posizione per la quale si sta facendo il colloquio. L’altro aspetto è venire a colloquio senza essersi informati sull’azienda. Anche questo può essere interpretato come sintomo di disinteresse nei confronti della azienda.Come date i vostri feedback?Chiara: Su questo aspetto Cecilia è molto attenta. Alle mail che riceviamo come candidatura spontanea cerchiamo di dare un feedback scritto entro una settimana. Per chi partecipa all’iter di selezione, diamo il feedback una volta chiuso e scelto il candidato.Se lo stage viene attivato e dà esito positivo, qual è poi l'iter contrattuale che solitamente proponete al giovane?Cecilia: Se lo stage dà esito positivo, l’iter contrattuale prevede un inserimento a tempo determinato, in apprendistato o a tempo indeterminato a seconda della visibilità e dei progetti che abbiamo. Gli stage che inseriamo in azienda non sono fini a sé stessi, ma generalmente sono finalizzati a fare insieme un percorso di crescita per mettere i giovani nella condizione di potersi sperimentare e avere gli strumenti adatti per crescere dal punto di vista professionale e personale all’interno di Meta System.Ci sono differenze tra l'iter di selezione e le modalità di colloquio per selezionare uno stagista e l'iter per selezionare invece una persona da inserire direttamente con contratto? Cecilia: No, di solito no. L’unico aspetto che può cambiare a volte, è il secondo colloquio con il responsabile dell’area che se non viene fatto in fase di selezione, viene fatto come fase conoscitiva dopo l’ingresso in azienda durante l’onboarding.Voi vi siete entrambe dovute trasferire per lavorare in Meta System, e la stessa cosa capita a molti dei vostri candidati non emiliani. Com’è vivere a Reggio Emilia? E’ una città in cui si vive bene?Cecilia: Assolutamente sì! È una cittadina ben servita e a misura d’uomo. Abbiamo tanti colleghi provenienti da varie regioni italiane che non rimpiangono la lontananza da casa! E poi tra erbazzone, tortelli e parmigiano... riusciamo a conquistare il palato di tutti!

Il Cnel cancella il salario minimo dal suo rapporto: perché fa così paura?

Qualche giorno fa sul Foglio Barbara D’Amico ha svelato, in un articolo intitolato molto esplicitamente “Censura al Cnel”, che quest'anno due capitoli del Rapporto annuale del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, in particolare quelli dedicato al salario minimo e alle pensioni, sono stati eliminati prima della pubblicazione finale. L'economista Andrea Garnero, trentatré anni, piemontese trapiantato da anni a Parigi, era autore insieme a Claudio Lucifora – uno dei 68 consiglieri in carica del Cnel, e curatore del Rapporto annuale – del capitolo sul salario minimo. Garnero si occupa proprio di contrattazione e salari al Dipartimento Occupazione e affari sociali all’Ocse; nel 2014 la Repubblica degli Stagisti gli aveva fatto una lunga intervista dal titolo “Salario minimo, non è la bacchetta magica ma evita gli stipendi da fame”. Dal suo ufficio parigino racconta ora cosa è successo, e perché parlare di salario minimo fa così tanta paura.Cosa è successo col Cnel?In primavera ero stato contattato per scrivere un capitolo sul salario minimo per il loro Rapporto annuale. Ci ho lavorato e ne è uscito un testo di una trentina di pagine che analizzava il funzionamento del salario minimo negli altri Paesi Ocse, le proposte fatte in Italia al Parlamento, le posizioni delle parti sociali, e i nodi da discutere – dal valore, a chi lo stabilisce, a come lo si stabilisce, a come si interagisce con la contrattazione collettiva. Una roba piuttosto standard e non troppo originale, argomenti più o meno noti: semplicemente un punto sullo stato del dibattito.  E poi è scoppiato il caos.Sì. L’abbiamo sottoposto a inizio novembre alla Commissione Informazione del Cnel, e sono cominciate a nascere le prime questioni. Occuparsi del tema, sostanzialmente, veniva visto come una “benedizione” del Cnel al tema. E uno dei nodi da considerare è che in Italia  ci sono livelli di sviluppo economico diversi: non certo l’affermazione del secolo, però è bastato per far tornare in mente le gabbie salariali, e far saltare subito in aria sopratutto i sindacati. Da qui la richiesta di modificare il capitolo, depurandolo da qualunque riferimento a questi temi e alle questioni aperte.Voi avete deciso di non modificarlo.Eh, no! Lo facciamo come ricercatori, esperti di un tema, e lo facciamo gratis: perlomeno fateci dire quello che vogliamo. Sennò pagate qualcuno e gli fate dire quello che volete voi... O ve lo scrivete da soli. Certo, potrebbero anche non pubblicare perché la qualità non era adeguata…Però non è questo il caso.No, non mi sembra questo il caso, né per il mio capitolo né per quello di Marco Leonardi che è professore di un certo spessore: non credo abbia scritto un capitolo inadeguato. Capisco che il Cnel sia un posto in cui bisogna trovare delle intese, ed è giusto così ed è anche per quello che peraltro –  opinione impopolare – io penso che il Cnel serva, perché all’Italia servono dei posti in cui provare a fare dei passi avanti. E’ un peccato che questa volta si sia deciso di non avere nessun dialogo. Capisco sia un tema delicato per le parti sociali, ma... prima o poi arriverà un Di Maio o un Renzi che farà un decreto fregandosene altamente dei sindacati – e a quel punto io vorrei poi vedere se faranno uno sciopero generale contro il salario minimo, ecco. La mia opinione è che sarebbe opportuno cercare di andare nei dettagli il prima possibile, cercare la soluzione migliore. Il salario minimo esiste nel novanta per cento dei Paesi al mondo, quindi non può essere una roba così terribile. Convive con la negoziazione collettiva in Paesi come la Germania, l’Olanda, il Belgio, la Spagna, il Portogallo, la Francia, quindi francamente: ci sarà un modo per farlo convivere, ecco. Che non significa che i sindacati non abbiamo ragioni ad avere dei timori e a sollevare alcune perplessità, fanno bene – sia perché è il loro lavoro, sia perché in alcuni casi hanno ragione.  Ma da lì a troncare non mi sembra proprio l’atteggiamento più strategico. Bloccare il dibattito ancor prima che nasca.Esatto, perché tanto il dibattito va avanti. Ci sono delle proposte di legge depositate in Parlamento, la stessa ministra Catalfo alla presentazione del Rapporto ha detto che il salario minimo è una delle priorità per il 2020, e ogni volta che Di Maio è un po’ in difficoltà dice “adesso facciamo il salario minimo”: può succedere che un giorno si sveglino e facciano un decreto. Un decreto è molto semplice, un paio di linee, costo limitato per lo Stato, quindi non è improbabile. Però ci sono tutta una serie di dettagli che vanno definiti, e che si possono definire solo se si apre una discussione. Il salario minimo risponde a dei problemi oggettivi – non è un caso, forse, che la giornalista  che ha dato la notizia sia la stessa che ha pubblicato il thread sulle collaborazioni al Corriere [Barbara D'Amico ha smesso di scrivere per il Corriere della Sera perché hanno tagliato le remunerazioni dei collaboratori esterni]Treu ha dichiarato che “sul tema del salario minimo tutte le parti si sono trovate in disaccordo”. Com’è possibile scontentare tutti-tutti?C'è disaccordo proprio sull’idea stessa. Sia da parte dei datori di lavoro sia da parte dei sindacati, che storicamente in Italia si sono opposti. Loro temono che il salario minimo diventi anche un salario massimo: cioè che si fissi un salario minimo a sei euro, sette euro, e poi tutte le imprese escano dal contratto collettivo nazionale e paghino quei sei euro a tutti.Ed è verosimile un quadro del genere?C'è un lista di Paesi civili nei quali convivono salario minimo e contrattazione collettiva! In Germania nel 2015 è stato inserito il salario minimo [a otto euro e mezzo, ndr] e non abbiamo visto una fuga dalla contrattazione collettiva, anzi. Semmai è stato l’indebolimento della contrattazione collettiva che ha portato all’introduzione del salario minimo. Se la contrattazione collettiva copre la maggioranza dei lavoratori, è efficace, non ha buchi, non c’è bisogno del salario minimo. Quando cominciano a crearsi problemi, la domanda comincia a crescere: il salario minimo può portare alcune risposte. Nel nostro capitolo discutevamo proprio questo: come far convivere i due strumenti, avere sia un salario minimo sia la contrattazione collettiva, con una serie di combinazioni in parte tecniche – per evitare appunto che succeda quello che temono i sindacati. Nel 2014 insieme ad altri ricercatori avevi raccolto dati che dimostravano che il 13% dei lavoratori dipendenti italiani era pagato meno del “minimo contrattuale”. E' ancora così? E 13% è una percentuale sufficientemente rilevante da giustificare l’adozione di una misura del genere?Non abbiamo aggiornato queste cifre. Nel frattempo la quota di contratti pirata è continuata a crescere – se non sbaglio si è sorpassato il numero di novecento contratti totali,  mentre eravamo sui trecento otto anni fa, e la moltiplicazione di contratti pirata a naso non ha ridotto la quota di sottopagati, anzi. Il problema rimane, si moltiplica e si radica nel sistema economico. Se si facesse una legge sul salario minimo, questi contratti pirata diventerebbero fuorilegge?Se c’è una legge sul salario minimo, nessuno può essere pagato meno di quel salario minimo. I contratti dovrebbero adeguarsi. Questo è uno dei vantaggi del salario minimo: permetterebbe a un numero significativo di persone di sapere quali sono i minimi retributivi. Io sfido chiunque – anche tra gli specialisti – a sapere qual è il contratto collettivo che li copre e il minimo salariale è previsto da quel contratto: non lo sa nessuno! Il vantaggio del salario minimo è dare chiarezza. Però comunque non coprirebbe i lavoratori non dipendenti.E' vero, le partite Iva sarebbero escluse. Però ci sarebbe una misura nazionale di qual è il salario che il Paese considera decente, e ciascuno si potrebbe fare due calcoli. Se io per un articolo ci metto tre ore a far ricerca e altre tre ore a scriverlo, e il Corriere me lo paga 15 euro, è una cosa decente o no? Io non sono coperta e non posso andare dal giudice, però magari potrei anche dire “guarda che qui, tra il tempo che ci ho passato, la telefonata che ho fatto, siamo fuori: almeno non ci voglio rimettere”. Non cambia nulla dal punto di vista legale, ma aiuta le persone ad avere un margine di comprensione in più. Sulla necessità di tener conto della sperequazioni tra Nord e Sud, nel 2014 tu dichiaravi che non sarebbe stato scandaloso pensare a un salario minimo differenziato territorialmente in Italia. Al momento il mio pensiero è che nessun paese della taglia dell’Italia, quindi nessun Paese europeo, ha un salario minimo regionale. I salari minimi regionali esistono solo in Paesi grandi e federali: Stati Uniti, Canada, Giappone, Cina, India, Brasile. Appena uno comincia a fare mille salari minimi si ricade di nuovo nella complessità e si perde l’obiettivo della semplificazione. Il calcolo del costo della vita peraltro è più complicato di quanto uno possa pensare, e cambia anche molto all’interno delle Regioni: una cosa è  vivere a Milano in via Montenapoleone, un’altra cosa è vivere in una valle sperduta del varesotto; una cosa è vivere in via Libertà a Palermo, un’altra è vivere in un paesino della provincia di Caltanissetta. Quindi non è semplicissimo e quindi io tendenzialmente escluderei questa opzione. Però bisogna prendere comunque in considerazione che Lampedusa non è Bolzano.E quindi… come si risolve? Il salario minimo dovrebbe essere tarato, almeno inizialmente, sulla situazione del sud Italia. Al resto dovrebbe rispondere la contrattazione collettiva nazionale e sopratutto quella territoriale e d’impresa, per permettere ai territori e alle imprese dove ci sono più margini di dare salari più elevati. Ora, col sistema attuale, siamo in un paradosso: abbiamo al tempo stesso salari troppo alti e troppo bassi. Perché sono troppo alti rispetto alle condizioni economiche del sud e all’interesse delle imprese a investire al sud, ma sono comunque troppo bassi per una vita dignitosa a Milano o in altre zone d’Italia. Un ingegnere in Italia è pagato molto meno che altrove. Scalfarotto quando era sottosegretario...Mea culpa, il caso l’avevo fatto uscire io: ero stata io a “smascherare” questa brochure infelice del ministero dello Sviluppo economico.Che diceva anche una cosa vera, per carità. Non me ne vanterei, ma comunque è vero, è così. La mia idea è un salario minimo nazionale che sia il minimo erogabile assoluto – cercando non solo con “i soldati” ma con campagne di informazione, tool informatici, coi famosi big data, di farlo rispettare. In soldoni, qual è il salario minimo che tu avresti in mente per questa cosa?  Nel 2014 dicevi sette euro all’ora: la pensi ancora così?La risposta ufficiale, che però è anche la risposta vera – non è la risposta “del politico” – è che questo dovrebbe essere il punto di arrivo. Il problema della discussione italiana è che siamo partiti dalla cifra, anziché partire dall’analisi.Allora apprezzerai che io l’abbia tenuta come ultima domanda.Sì. Però: perché sette, perché nove? Perché sette virgola uno? Innanzitutto bisogna conoscere quali sono i minimi salariali dei contratti collettivi oggi: nove euro è molto più alto dei minimi presenti oggi, e quindi diventerebbe fuori mercato. Poi bisogna decidere cosa contiene questo minimo: è solo il minimo del minimo o contiene anche il tfr, la quattordicesima, le ferie? Tutte cose che non sono state discusse finora. Dunque c’è il rischio di un decreto che arriva e dice “salario minimo: nove euro” – che può essere altissimo se è il minimo dei minimi, può essere basso se include tutto. Chi lo decide negli altri Paesi?In Inghilterra il Labour Party ha vinto le elezioni nel maggio del 1997 facendo una campagna proprio incentrata sul salario minimo. Blair ha introdotto una commissione, che esiste ancora, che si chiama Low Pay Commission, la commissione dei bassi salari, con tre datori di lavoro, tre rappresentanti dei lavoratori, due esperti e un presidente. Un anno e mezzo di lavoro per arrivare alla cifra: il salario minimo è entrato in vigore nel 1999, ha funzionato. Lo hanno inserito a un livello relativamente basso [8,21 sterline all'ora per lavoratori over 25 anni e cifre più basse a seconda dell'età, ndr] e poi lo hanno aumentato nel corso degli anni. Lo hanno accompagnato con studi, analisi quantitative e qualitative, con ampie discussioni coi datori di lavoro che ovviamente erano grandemente contrari e coi sindacati, e ora fa parte del panorama inglese e nessuno lo mette più in discussione; anzi due governi conservatori, Cameron prima e ora Johnson, l’hanno aumentato significativamente.Riflessione interessante – anche perché non si può dire che in Inghilterra non ci sia una tradizione forte sindacale. C’è sempre l’obiezione, infatti, che il salario minimo funziona bene là dove la tradizione sindacale è quasi inesistente.Anche Francia, Belgio, Spagna, Portogallo: son tutti Paesi molto simili all’Italia in quanto a ruolo e potere che hanno i sindacati, per numero di iscritti oppure per l’influenza che hanno. Ognuno ha le sue tradizioni, non c’è nessun modello che si può copincollare; ed è giusto che i sindacati esprimano preoccupazione anche perché il dibattito finora è molto superficiale. Però ecco se la posizione è no e no e no, secondo me non andiamo molto avanti.intervista di Eleonora Voltolina

Lavorare nel settore dell’Aeronautica militare, ci sono 800 posti a concorso: ecco come candidarsi

La Repubblica degli Stagisti continua ad approfondire il tema dei concorsi pubblici per entrare a far parte delle Forze armate italiane. Il prossimo in scadenza è il bando per 800 volontari in ferma prefissata (VPF 1) per l’Aeronautica militare, che saranno poi suddivisi in 770 ordinari e 30 incursori. Il concorso rientra tra le dodicimila nuove assunzioni e concorsi che riguardano Guardia di Finanza, Polizia, Polizia Penitenziaria, Carabinieri e Vigili del Fuoco e che consentiranno nei prossimi mesi un ringiovanimento della forza lavoro. Il volontario in ferma prefissata è un militare che presta servizio per un anno nell'Esercito, nella Marina o nell'Aeronautica ed è una figura introdotta con la legge 226 del 2004, che ha stabilito la sospensione del servizio di leva. Questo reclutamento, quindi, consente il primo passo verso una carriera militare. La domanda per partecipare al concorso per 800 volontari in ferma prefissata dovrà essere inoltrata entro e non oltre mercoledì 20 novembre e sarà necessario fare tutto telematicamente. Il concorso è aperto a tutti: non è, quindi, necessario fare già parte di qualche forza armata o avere particolari requisiti in tal senso. Per partecipare bisogna, innanzi tutto avere tra i 18 e i 25 anni, quindi candidati nati tra il 20 novembre 1994 e il 20 novembre 2001. Essere, poi, cittadini italiani, godere dei diritti civili e politici, non essere stati condannati per delitti non colposi, non essere stati destituiti, dispensati o dichiarati decaduti dall’impiego in una Pubblica amministrazione o prosciolti da precedente arruolamento nelle Forze armate o di Polizia, essere in possesso di un diploma di istruzione secondaria di primo grado (in pratica della licenza di scuola media inferiore). Tra i requisiti richiesti c’è anche l’esito negativo ad accertamenti diagnostici per l’abuso di alcool e per l’uso, anche saltuario, di sostanze stupefacenti o psicotrope a scopo non terapeutico. Per i posti per il settore “incursori” possono partecipare, invece, solo i candidati di sesso maschile in possesso dell’idoneità psico-fisica e attitudinale specifica prevista dalla normativa vigente. Per tutti – incursori e non – è necessario non essere in servizio quali volontari nelle Forze Armate.Una volta verificato di avere tutti i requisiti non resta che procedere alla candidatura: si fa tutto online attraverso il portale concorsi del Ministero della Difesa nella pagina dedicata alla selezione. Anche in questo caso, come per il concorso per 626 allievi marescialli bisogna dotarsi delle credenziali SPID, il sistema pubblico di identità digitale, o avere una smart card di tipo conforme agli standard della Carta Nazionale dei Servizi. Per chi fosse sprovvisto di entrambi, l’opzione più semplice è richiedere le credenziali SPID che consentono l’accesso a tutti i servizi online della Pubblica amministrazione attraverso il sito attivato dall’Agenzia per l’Italia digitale. Sul sito è presente anche una procedura guidata di registrazione, alla voce istruzione del portale.Conclusa la fase di registrazione si entra in possesso delle credenziali, user e password, per accedere al proprio profilo sul portale e da lì compilare e inoltrare la domanda di partecipazione. Qui si devono dichiarare sotto forma di autocertificazione il possesso di tutti i requisiti indicati nel bando e solo alla fine si può inviare online la domanda. Ciascun candidato riceve un messaggio di posta elettronica dell’avvenuta acquisizione, che dovrà poi essere esibito alla presentazione della prima prova concorsuale.A questo punto, a partire dal 21 novembre e fino al 18 febbraio 2020 la commissione esaminatrice verifica i titoli di merito e stila le due graduatorie – per VFP 1 ordinari e per incursori – che successivamente sono approvate dalla Direzione generale per il personale militare (DGPM) che convoca i primi 3.700 candidati in graduatoria come volontari in ferma prefissata e i primi 1.500 aspiranti incursori. A partire dal 9 marzo 2020 e fino al 14 maggio ci sarà la fase della convocazione per gli accertamenti psico fisici e attitudinali. La prima convocazione è presso la Scuola Volontari Aeronautica Militare di Taranto, da lì tutti i convocati sono smistati presso il Centro Aeromedico psicofisiologico di Bari Palese per gli accertamenti psico-fisici che determinano l’idoneità o meno come VFP 1 ordinari. Gli idonei a questa fase torneranno presso la SVAM di Taranto per le prove di efficienza fisica e gli accertamenti attitudinali che permetteranno di stilare una graduatoria provvisoria. I primi 400 candidati già risultati idonei come VFP1 ordinario che abbiano scelto il settore d’impiego incursori saranno a questo punto inviati presso il 17° Stormo di Furbara, una frazione di Cerveteri in provincia di Roma, per le prove attitudinali e di efficienza fisica specifiche.Alla fine verranno stilate le graduatorie di merito definitive per ciascun settore d’impiego e si procederà alla convocazione e incorporamento dei candidati, ovvero al trasferimento in caserma degli allievi. Ci saranno due distinti incorporamenti: il primo è previsto nel mese di maggio 2020 e riguarda 400 volontari in ferma prefissata ordinari, il secondo è nel mese di settembre 2020 e riguarda i rimanenti 370 VFP1 ordinari più 30 incursori. I primi mesi serviranno per la formazione militare utile per svolgere i compiti che saranno successivamente assegnati. Saranno dodici mesi importanti perché in questo periodo i VFP1 opereranno con i moderni mezzi tecnologici impiegati nelle Forze Armate e potranno ottenere attestati e abilitazioni necessari per il successivo concorso per il reclutamento di volontari in ferma prefissata quadriennale.Al momento dell’incorporazione i candidati dovranno anche presentare il proprio codice di conto corrente per l’accreditamento dello stipendio e l’ammissione alla ferma prefissata e il conseguente pagamento partirà proprio dalla data dell’incorporazione. In pratica anche il periodo di formazione e addestramento sarà retribuito. Come in tutti i corpi militari, anche i volontari in ferma prefissata, in questo caso nell’aeronautica, percepiscono uno stipendio mensile. Che in realtà è una paga, visto che si tratta non di un fisso ma di un compenso giornaliero pari a 32 euro, per un totale di circa 1.030 euro netti al mese comprensivi del bonus di 80 euro al mese. A queste cifre vanno poi aggiunte eventuali indennità percepite da alcuni reparti. Il servizio come volontario non beneficia, però, del versamento di contributi; per riscattare il periodo e vederselo riconosciuto a livello previdenziale sono gli stessi militari a doverseli pagare. Possono farlo al termine del periodo di ferma facendo domanda all'Inps dell'accredito figurativo. Il percorso del volontario in ferma prefissata per un anno è, quindi, il primo passo per entrare nel mondo militare e nello specifico dell'Aeronautica. Se si è in possesso già del diploma di scuola secondaria, quindi della maturità, o di una laurea, si ha anche un certo vantaggio nelle graduatorie. Ogni candidato in possesso del diploma di istruzione secondaria di secondo grado può veder riconosciuta la maturità come titolo di merito al pari, ad esempio, dei brevetti acquisiti. Nello specifico nel concorso per VPF1, alla maturità quinquennale vengono riconosciuti 9 punti, con incremento di 0,075 per ogni voto superiore a 60/100 fino a un massimo di 12 punti. Mentre nel seguente concorso VPF4 i punti riconosciuti sono 0,75. Come per gli altri titoli, anche il punteggio della maturità va a sommarsi a quello ottenuto alle prove concorsuali, permettendo quindi di scalare la graduatoria finale. Se, invece si è in possesso di un diploma di laurea triennale si avrà diritto al riconoscimento di 13 punti, non cumulabili con quelli della maturità, con un incremento di 0,075 per ogni voto superiore a 66/110 fino a un massimo di 16,30 punti. Si sale a 17 punti aggiuntivi per il diploma di laurea magistrale/specialistica, sempre con lo stesso incremento di punteggio per un massimo di 20,30.La competizione, però è molto alta, visto che ogni anno per questo concorso arrivano circa 12mila domande con un trend in crescita negli ultimi cinque-sei anni. Chi non supera la selezione, però, può ritentarla più volte fino al raggiungimento del limite massimo di età, i 25 anni. Una volta terminato l’anno di servizio i volontari hanno la possibilità di ottenere una rafferma per un altro anno e possono partecipare ai concorsi per diventare Volontari in ferma prefissata di quattro anni: una selezione riservata ai VFP1 in congedo o a chi ricopre questa qualifica da almeno nove mesi. Si hanno, poi, delle riserve di posti anche per i concorsi per la Polizia di Stato, l’Arma dei Carabinieri, la Guardia di finanza e la Polizia penintenziaria e una riserva spesso del 30 per cento in molti concorsi dell’amministrazione pubblica. Insomma, se il mondo aeronautico è di interesse non resta che armarsi di SPID e presentare subito la propria domanda.Marianna Lepore

Anna Ascani, a trentadue anni neo viceministra dell'istruzione: “Ecco le mie priorità”

Anna Ascani è una delle parlamentari più giovani mai elette in Italia – giusto la settimana scorsa ha compiuto trentadue anni, ed è già al suo secondo mandato da deputata. Da sempre è attenta ai temi dell'occupazione giovanile e degli stagisti, tanto che alla scorsa tornata elettorale ha anche sottoscritto il “Patto per lo stage” proposto dalla Repubblica degli Stagisti ai candidati al Parlamento e ai consigli regionali. Umbra, laureata in Filosofia, nella passata legislatura ha fatto parte della Commissione Cultura, scienza e istruzione, accumulando competenze che l'hanno portata poche settimane fa a diventare viceministra dell'Istruzione, università e ricerca scientifica nel nuovo governo “Conte 2”, nato dalla collaborazione tra il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle – il ministro dell'Istruzione, Lorenzo Fioramonti, è infatti un esponente del M5S.Ecco cosa pensa Anna Ascani di orientamento, alternanza scuola lavoro, tirocini e diritto allo studio, e cosa ha intenzione di fare nel suo nuovo ruolo.(Nell'intervista, raccolta mentre Ascani è su un treno, ci diamo del tu. È quello che facciamo nella vita, conoscendoci ormai da molti anni ed essendoci trovate molto spesso a lavorare e dibattere insieme).Come vi “spartirete” i compiti col ministro?Dal lato più formale ci sono le deleghe – cioè i temi che verranno ufficialmente assegnati a ciascuno di noi – che però ad oggi non sono ancora state stabilite. La cosa più importante è che, pur avendo sensibilità e orientamenti diversi, noi faremo squadra. Più che spartirci i compiti insomma c'è la volontà di fare sintesi, e l'accordo raggiunto nei giorni scorsi con i sindacati è la testimonianza esatta di quello che sto dicendo: siamo riusciti ad avere l'accordo delle forze politiche e sindacati su un percorso che dia uno sbocco ai precari della scuola e faccia ordine sul tema di come si diventa insegnanti.I tuoi tre obiettivi prioritari da viceministra.Il primo: sostenibilità e scuola a impatto zero – a livello energetico, ambientale, da tutti i punti di vista. Siamo tenuti a dare una risposta ai tanti ragazzi che stanno scioperando per dirci che questa è una cosa importante. La seconda priorità: la fascia zero-sei anni. In legge di bilancio c'è la gratuità degli asili nido: dobbiamo garantire l'accesso, anche perché i dati ci dicono che chi ha avuto l'opportunità di frequentare il nido poi raggiunge risultati migliori nel proseguo della vita. Terza priorità: la lotta alla dispersione scolastica e all'abbandono universitario. Come diceva don Milani, “il principale problema della scuola sono i ragazzi che perde”. E bisogna costruire un ponte vero tra scuola e università.Parliamo di alternanza scuola-lavoro, che adesso ha cambiato nome in PCTO, “percorsi per le competenze trasversali e per l'orientamento”... Ti convince la nuova denominazione?A me francamente non appassionano i nomi, mi interessa la funzione dell'alternanza scuola lavoro: dare la possibilità ai ragazzi di fare un'esperienza di formazione è importante. È chiaro che i ragazzi non debbano essere mandati al McDonald's, ma non è che perché ad alcuni ragazzi sono capitate esperienze sbagliate che dobbiamo rinunciare in toto allo strumento. Vorrei che mettessimo da parte l'ideologia e al centro la pratica. Si può fare alternanza nelle associazioni non profit, nelle biblioteche pubbliche... per i ragazzi è un bene! Il mondo del lavoro richiede competenze: quanto prima si acquisiscono, meglio è.Nella legge di bilancio approvata a fine 2018 dal governo “Conte 1” i fondi destinati a questa attività sono stati più che dimezzati, scendendo da 125 milioni a 50 per l'intero pacchetto. Stessa sorte per il monte ore complessivo – passato da 400 a 210 per gli istituti professionali, da 400 a 150 per i tecnici e da 200 a 90 per i licei. Si tornerà a puntare sull'alternanza? I fondi saranno aumentati nella legge di bilancio prossima ventura?Per ora non è oggetto dei primi passi di questo governo. Io però posso dire che spingerò perché si torni a dare un finanziamento adeguato e un numero maggiore di ore all'alternanza scuola lavoro. Magari non quelle che erano previste prima del taglio, che forse erano oggettivamente troppe; ma comunque più di adesso.Orientamento: il rapporto AlmaDiploma 2018 dice che alla vigilia della conclusione degli studi il 45% dei diplomati del 2016 dichiara che, potendo tornare indietro, non sceglierebbe lo stesso corso nella stessa scuola;  un ulteriore 25% dei diplomati cambierebbe sia scuola sia indirizzo. Similmente, il rapporto AlmaLaurea 2018 sul Profilo dei laureati rivela che un laureato su tre non sceglierebbe lo stesso ateneo e lo stesso corso. Cosa si può fare per diminuire questa fetta insoddisfatti a causa di scelte sbagliate?Bisogna potenziare l'orientamento: lavorare sul fatto che scuole e università si parlino di più. Con l'alternanza scuola lavoro abbiamo introdotto uno strumento che tocca l'ultimo triennio, ma non basta. Ancora capita spesso che dopo la maturità i ragazzi scelgano di fretta, a settembre, disorientati. Le risorse per fare più orientamento ci sono, perché i nostri governi le hanno stanziate: bisogna però strutturare questi percorsi, far conoscere ai giovani gli sbocchi lavorativi.E il passaggio precedente, quello tra medie e superiori?Qui c'è il grande tema della riforma dei cicli, bisogna capire se  come sono strutturati ora funzionano. Ma non possiamo pensare di fare eventualmente una riforma così importante facendola calare dagli uffici del ministero; dobbiamo confrontarci col mondo del scuola, con insegnanti e pedagoghi. Il portale di orientamento del Miur “Io scelgo io studio” ha un profilo Twitter che risulta aperto nel 2013 ma mai usato, con una trentina di tweet e 350 follower in tutto; idem il profilo Youtube, con soli 250 abbonati al canale e meno di dieci video; e la sezione “Chiedi all’esperto” non funziona. Non è una vetrina irresistibile... Lo potenzierete? Credo che il Miur debba fare un salto in avanti notevole nella gestione delle tecnologie. Abbiamo fatto un piano nazionale Scuola Digitale per le scuole che tutto sommato le ha portate abbastanza avanti, però la digitalizzazione del ministero stesso ancora fatica: dobbiamo avere delle interfaccia più potabili per ragazzi e famiglie, per tutti coloro che hanno voglia di interagire col mondo della scuola. Quindi sicuramente è un lavoro che va fatto. Però non so se lo farò personalmente, perché ancora le deleghe non sono state assegnate.La Repubblica degli Stagisti, su commissione dell'assessorato al lavoro del Comune di Milano, ha quest'anno realizzato una “mappatura” dei tirocini svolti sul territorio milanese da cui è scaturito anche un focus sui curriculari, per i quali non esiste nessuna rilevazione sistematica ufficiale e che quindi rimangono sempre nell’ombra. La mappatura ha permesso di censire oltre 22mila tirocini di questo tipo avviati nel 2017. Poiché i curricolari si  svolgono durante periodo di studi, spesso potrebbe essere utile avere una formula “part-time” che consentisse al giovane di non dover interrompere completamente l'attività di studio. Purtroppo la modalità part-time non è ancora così diffusa: dalla mappatura risulta che abbia riguardato solo il 15% circa dei curricolari. Non potrebbe aver senso potenziare l'opzione dei tirocini part-time per studenti universitari? Francamente non era una cosa a cui avevo mai pensato: potrebbe essere una buona idea. Di certo il tirocinio curricolare è uno strumento importantissimo nel percorso universitario, ma ha bisogno di essere messo un po' meglio a regime. Tutti noi che abbiamo fatto l'università negli anni in cui si cominciava a ragionare di tirocini obbligatori per laurearsi sappiamo che quel percorso ha dei difetti, e spesso non è un vero orientamento: rischia di essere invece un momento nel quale ci si stacca dallo studio senza vedere poi effetti concreti nei rapporti col mondo del lavoro. Probabilmente poter avere un part-time che ti consenta comunque di mantenere attiva la tua esperienza di studio ma nel contempo di mettere il naso fuori dal mondo dello studio potrebbe essere positivo.Tema sostenibilità economica. Gli stagisti curricolari ricevono una indennità mensile? Non si sa: spesso i soggetti promotori, cioè le università, non monitorano questo aspetto, e sappiamo che purtroppo i tirocini curricolari sono ancora il più delle volte gratuiti: nel 90% dei casi, per esempio, per quanto riguarda l’università Statale.  C'è una proposta di legge a firma Massimo Ungaro sui tirocini curricolari, che tra le altre cose propone anche una indennità minima per tutti gli stage con durata superiore a un mese: c'è la possibilità che la riprendiate in considerazione?Certo: con Massimo in realtà avevamo lavorato insieme, quando era ancora nel PD, sul tema tirocini. C'è però un problema di sostenibilità, e dobbiamo trovare il modo di renderli poi appetibili lo stesso per le realtà che ospitano i tirocini: cioè dobbiamo evitare il rischio che poi i tirocini non si facciano più. Sicuramente non si può pensare di lavorare gratis, è una follia, abbiamo parlato tante volte con voi della Repubblica degli Stagisti di questo tema dello tirocinio che si configura troppo spesso come lavoro gratuito. Certamente c'è un periodo di semplice formazione, che però appunto è un mese e non più di un mese, e poi bisogna che ci sia un compenso minimo. Dobbiamo aprire un tavolo con le università, con le aziende, con le realtà che ospitano questi tirocini, per trovare una sintesi percorribile – magari anche ripartendo dai testi di legge che ci sono, perché no.A onor di cronaca, quando noi facevamo la prima battaglia contro la gratuità, chi ci contrastava diceva proprio che i tirocini sarebbero diminuiti perché c'era il rischio che le aziende non volessero più tirocinanti se si fosse introdotta una indennità minima obbligatoria. E invece il numero di tirocini extracurricolari......è cresciuto, certo. Ma anche perché si è dato un sostegno a questo tipo di formula. Quindi dobbiamo trovare un modo per far sì che funzioni anche coi curricolari. Io non è che dico che non funzionerà: dico che bisogna sostenere il fatto che funzioni. Sono sempre stata contraria alla gratuità e dall'inizio di queste battaglie, quindi figuriamoci se cambio idea adesso!Sei stata una sostenitrice della legge 107, la cosiddetta riforma della “Buona Scuola”, e per questo c'è chi nell'ambito della scuola prevede “frizioni e attriti quando si parlerà di questioni sensibili come per esempio la chiamata diretta o il bonus premiale”. Di che frizioni potrebbe trattarsi?Mi pare che la crociata contro la 107 abbia fatto il suo tempo – casomai il difetto di quella legge è che tante cose che erano previste, soprattutto nelle deleghe, non sono state attuate! – e che adesso sia ora di aprire un'altra fase. Gli strumenti che noi avevamo messo a disposizione sono validi: se qualcuno ha idee diverse sul come utilizzare il bonus docenti, o su altro, ce le faccia vedere e ne parleremo. Non ho mai avuto un approccio ideologico, neanche nei confronti delle cose che ho proposto e che ho difeso: e rifiuto l'approccio ideologico da parte degli altri.Diritto allo studio. Ci sono 103 milioni di euro nel bilancio del ministero, per l'anno scolastico in corso, per la “fornitura dei libri di testo in favore degli alunni meno abbienti delle scuole dell’obbligo e secondarie  superiori”. Non so se per le superiori basti... basta?Tutto sommato sì, queste risorse bastano a coprire soprattutto le fasce più deboli: poi si può anche ragionare di ampliare alla cosiddetta fascia media che oramai – ci dicono i sociologi – non esiste più, e quindi ha bisogno di un sostegno a sua volta. Però più che di risorse in questo caso specifico il tema è di funzionamento: il grande problema del diritto allo studio per quel che riguarda i libri è infatti che i rimborsi arrivano a consuntivo, per cui uno si trova a iniziare la scuola secondaria di primo grado – le scuole medie, per intenderci – e a sostenere il costo dei libri, dopo non averlo sostenuto nella scuola primaria; e questo comporta per le famiglie una spesa enorme. Dobbiamo trovare il modo di non dare i soldi a consuntivo, ma all'inizio. L'altro problema è il costo dei libri, io l'ho detto anche alla Fiera Didacta partecipando a un seminario sul costo dei libri e il supporto digitale: dobbiamo ragionarne con gli editori, perché nonostante tutto ancora i libri costano ancora troppo.Decliniamo invece il diritto allo studio rispetto all'università. Nella scorsa legislatura sei stata firmataria di una proposta di legge, a prima firma Marco Meloni ed altri, volta ad “assicurare la piena attuazione delle disposizioni sul diritto allo studio universitario”.  Una proposta di legge che risulta “assegnato in data 26 febbraio 2015” ma che poi non è stata mai discussa. Cosa invece si può fare oggi per il diritto allo studio degli studenti universitari?Il primo grande problema è che si tratta di una materia concorrente, e che in particolare è affidata alle Regioni l'erogazione delle borse. Questo fa sì che ci siano tante Regioni in Italia nelle quali non si riesce a dare la borsa agli idonei, quindi abbiamo circa 7.500 ragazzi che risultano idonei non beneficiari. È anche vero che molte Regioni provvedono mettendoci del proprio: io vengo da una Regione virtuosa, in Umbria abbiamo sempre assicurato il cento per cento delle borse di studio e credo sia un bel vanto, ma non va sempre così nel resto d'Italia. Quindi sicuramente serve un intervento economico sul Fis [il fondo integrativo statale, ndr],  un incremento che serva a coprire gli idonei non beneficiari. Dopodiché, anche qui bisogna mettersi seduti con le Regioni a capire perché ci sono così tante differenze in Italia sulla modalità con cui si gestisce questa partita. Tra parentesi, noi avevamo fatto una riforma costituzionale che tra le tante cose rendeva il diritto allo studio una materia di competenza statale. Era un mio emendamento, tra l'altro, ma purtroppo come sappiamo quella riforma non è mai passata – e quindi il diritto allo studio è tuttora di competenza concorrente.Un'altra proposta di legge che hai firmato negli anni scorsi è quella di Lia Quartapelle sul finanziamento di “programmi di tirocinio curriculare ed extracurriculare per studenti universitari e laureati presso l'amministrazione centrale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e presso gli uffici della rete diplomatico-consolare all'estero”: i cosiddetti Maeci-Crui. Che per ora però sono finanziati solo con una cifra molto piccola – gli studenti ricevono 300 euro al mese dalle loro università e i tirocini durano 3 mesi, dunque si può stimare che l'investimento del ministero in questa iniziativa sia di poco superiore a 1 milione di euro all'anno. Prevedete di aumentare le indennità che i partecipanti ricevono, e/o aumentare il numero di persone – al momento circa mille all'anno – che potranno sfruttare questa occasione?Credo che anzitutto bisogna lavorare sul numero: è una platea ancora troppo ristretta. Nei limiti e nelle costrizioni della legge di Bilancio – che come sappiamo è molto complicata – penso che questa sia una delle questioni su cui lavorare, e poi bisogna lavorare anche sull'importo che i ragazzi ricevono.Potreste anche riaprirlo per i neolaureati? Quando era gratuito era così, mentre ora vi possono accedere solo gli studenti universitari.Ne parleremo anche con Lia Quartapelle.Ultima domanda. Nel 2014 con Ivan Scalfarotto e altri avevi perorato la “distribuzione di profilattici e di materiale informativo nelle università e nelle scuole secondarie superiori, per la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili”. Tornerai a occuparti di questo tema?Diciamo che non è direttamente competenza mia, ma sicuramente serve una educazione sulla sessualità...[la linea è disturbata, cade]Ecco, c'è una censura in atto... Riproviamoci.Sì! [ride] Serve una educazione sulla sessualità fatta in modo da generare più consapevolezza nei ragazzi, che oggi sono esposti a messaggi da ogni genere da questo punto di vista...[La linea cade di nuovo. Anna Ascani manda un sms per concludere la sua risposta, l'ultima di questa intervista] È chiaro che c’è una parte di provocazione nella questione profilattici. Quello che invece resta e che ci riguarda come Miur è l’educazione alla sessualità dei ragazzi, perché c’è un tema di consapevolezza che non si può ignorare.PS: chissà se alla viceministra potrebbe piacere il progetto “Making (of) Love” (qui il crowdfunding attualmente in corso, sono stati già raccolti oltre 35mila euro!), un film sul tema della sessualità degli adolescenti “scritto e diretto da otto ragazzi italiani”, esplicito e senza tabù, che  ha l'ambizione di essere poi distribuito nelle scuole. Forse è un po' presto per chiederglielo.

Da top manager ad Ashoka Fellow “Made in Carcere”, per dare un’altra chance ai detenuti

Inizia oggi il ritiro annuale degli Ashoka fellow italiani. Quest'anno si svolge a Lecce e la padrona di casa è Luciana Delle Donne, una bomba di energia ed entusiasmo, come si evince anche dall’agenda: per accogliere in terra pugliese i suoi colleghi Fellow è pronto un ricco ventaglio di impegni tra tour della città, incontri con gli imprenditori locali e  visita in carcere. Immancabile, quest'ultima, dato che dare una seconda chance a chi è in prigione è proprio la mission di Delle Donne, manager di estrazione bancaria con grande esperienza nell’innovazione tecnologica, che una dozzina d'anni fa ha scelto di lasciare il mondo della finanza ed entrare nelle carceri per aiutare le detenute in un percorso di cambiamento. Nel 2007, a quarantacinque anni, Delle Donne decide dunque di dare una svolta alla propria vita e crea Officina Creativa – una cooperativa sociale senza scopo di lucro tramite cui dà vita al marchio Made in Carcere, per il quale ha ottenuto il riconoscimento di Ashoka Fellow. Made in Carcere dà la possibilità alle detenute delle carceri di Lecce e Trani di intraprendere un percorso di formazione in campo tessile, da mettere a frutto nella produzione di oggettistica ricavata da materiali di scarto. Con la vendita di questi accessori le detenute si costruiscono un bagaglio di competenze professionali e un piccolo stipendio – ma, soprattutto, ricostruiscono la propria vita. A quest’iniziativa si affianca da qualche anno anche un progetto sull’educazione al cibo condotto in alcune carceri minorili, per dare anche ai più giovani l’opportunità di uscire da una situazione di disagio e rimettersi alla guida della propria vita. Come è scattata la scintilla che l’ha portata a lasciare un mondo fatto di sicurezze e a buttarsi nell'idea di Made in Carcere?Ho lasciato il mondo della finanza perché avevo voglia di esplorare nuovi mondi, di fare una nuova esperienza. Mi sentivo in quella che si definisce una “gabbia di vetro”. Non potevo lamentarmi, perché ero nella stanza dei bottoni, ma sentivo di voler esplorare nuovi territori, per mettere a disposizione le competenze che avevo acquisito negli anni e restituire, in qualche modo, la fortuna che avevo avuto.Quali sono stati i primi passi?Diciamo che il passaggio non è stato subito facile. Tanto per cominciare, ho iniziato con un fallimento. Avevo infatti brevettato un collo di camicia su cui avevo iniziato a lavorare con quindici detenute – che sono poiuscite tutte con l’indulto! Così mi sono ritrovata a dover ricominciare da capo. Il non avercela fatta è stata però un’illuminazione: mi ha fatto capire meglio dove stavo operando, cosa era possibile fare e cose invece no. In carcere infatti c’è un continuo turn over delle presenze e non si può pensare a una formazione che richieda troppo tempo. Serviva qualcosa che si imparasse velocemente. Così mi sono diretta sull’oggettistica etica, ricavata a partire da materiali e tessuti di scarto, per i quali è sufficiente una formazione di tre mesi. Produciamo borse, braccialetti, shopper bags e tanti altri accessori.Con questo progetto abbiamo sdoganato la parola “carcere” in Italia, abbiamo riportato al centro una realtà di cui, dieci anni fa, nessuno si occupava e sapeva nulla. Se prima si voleva solo lasciar tutto com’era e “buttar via la chiave”, poi c’è stato il necessario intervento educativo. L’ottanta per cento delle persone che in carcere ricevono un’educazione, non torna a delinquere: questo è fondamentale anche perché ogni detenuto costa allo Stato, e quindi a tutti i cittadini, circa 60mila euro all’anno. Aiutare Made in Carcere significa quindi aiutare tutti, aiutare a non delinquere e aiutare i detenuti a ricostruirsi una dignità, una propria “cassetta degli attrezzi” con cui presentarsi poi sul mercato del lavoro. Costruite inclusione e sostenibilità.Esatto, impatto ambientale e inclusione sociale. I nostri progetti volgono infatti sul tessile, a partire da materiali di scarto, e sull’educazione al cibo. L’idea è quella di creare prodotti di qualità, che facciano bene al corpo e all’anima sia di chi le produce che di chi li acquista. Come è organizzato il lavoro tra i detenuti? Il progetto di sartoria coinvolge solamente donne, che hanno accolto con assoluta convinzione questa iniziativa. La maggior parte sono mamme, che avrebbero abbracciato qualsiasi progetto desse loro la possibilità di riacquisire dignità e credibilità, soprattutto agli occhi dei loro figli. Grazie a Made in Carcere hanno la possibilità di pagare ai loro figli i libri, la scuola. Prima di entrare in carcere abbiamo studiato molto, ci siamo informati, e abbiamo capito che dovevamo lasciarci il passato di queste donne alle spalle e creare una sorta di “tempo zero” nella loro vita dal quale ripartire, e così è stato. Con i ragazzi è stato più difficile: sono più diffidenti e cercano, più che altro, di mettersi in evidenza per manifestare il loro disagio. È a loro che è rivolto il progetto sull’educazione al cibo, tramite cui creano biscotti vegani con materie prime di altissima qualità. Questo ci ha permesso di creare anche con loro, pian piano, un rapporto di fiducia: sono più “complicati” delle donne, ma con il tempo e la cura si riesce a conquistarli. Ad oggi, quanti detenuti lavorano con Made in Carcere? Al momento abbiamo oltre trenta detenuti ma, chiaramente, ne sono passati centinaia: bisogna considerare che la detenzione media è di tre anni e c’è quindi un continuo “ricambio”. Anche dal punto di vista emotivo, siamo messi a dura prova. Con i detenuti si crea un rapporto affettivo ma, come accade a scuola, appena hanno imparato, se ne vanno. Fa piacere che imparino a camminare con le proprie gambe, ma dispiace vederli andar via. E i dipendenti?Il nostro staff è invece composto da circa dieci persone che si dividono tra i laboratori, ognuno dei quali richiede un responsabile di produzione, i corsi di formazione e il reparto marketing: insomma, un modello classico di impresa che però, invece di generare profitto, genera benessere.Dal punto di vista economico quali sono le vostre risorse?Il nostro approccio è, principalmente, quello dell’autofinanziamento. Attraverso la vendita dei manufatti ricaviamo infatti i fondi per pagare lo stipendio dei detenuti. A questo si affianca però anche la raccolta fondi tramite, ad esempio, il cinque per mille, e Charity Stars, che raccoglie fondi per organizzazioni no-profit. Ogni anno si tiene poi l’Old star game, un evento con le vecchie glorie della pallacanestro, il cui ricavato ci viene donato. Tutta questa raccolta ci permette di alimentare nuovi progetti, di crescere, sperimentare e innovare. Come si è svolto il percorso per diventare fellow Ashoka?Il percorso è stato duro ma piacevole. Ho affrontato un’intervista in tre giornate, che ha scavato nel mio passato, sino all’infanzia, facendo riaffiorare tanti ricordi. È stato un po’ come andare in psicanalisi. Volevano avere la conferma che fosse veramente nel mio dna l’avere una visione innovativa, la capacità di inventare e progettare, già nel presente, scenari futuri. È stata una bellissima esperienza, interessante quanto stimolante. L’elezione mi ha dato la conferma di stare percorrendo la strada giusta, mi ha dato quella consapevolezza che aiuta ad andare avanti e dà la forza per alzarsi convinti, anche se stanchi, ogni mattina... perché sai che ciò che fai è importante anche per altre persone, e che loro credono in te. Quali sono i prossimi step e i prossimi obiettivi che si pone per Made in Carcere?Il prossimo obiettivo è quello di ampliare due progetti che già adesso stiamo portando avanti. Made in Carceresostiene infatti lo sviluppo di nuove sartorie sociali di periferia, che coinvolgono persone che si trovano ai margini, in situazioni di forte difficoltà. Doniamo loro tessuti, stampiamo etichette con il loro logo, per aiutarli a far crescere la loro identità. Al momento collaboriamo con sartorie sociali nelle periferie di Lecce, Taranto, Bari, ma l’obiettivo è quello di creare una mappa sul territorio, tramite cui aiutare queste piccole realtà diffondendo il nostro know-how. Il secondo progetto consiste invece nell’ampliamento di una multipiattaforma online, la Second Chance Platform, che abbiamo creato per permettere a piccoli artigiani della bellezza etica e sostenibile di dar vita a un loro store online, dove pubblicizzare e vendere i loro prodotti. Si tratta di produttori che, altrimenti, non avrebbero avuto visibilità e che riescono così a proporre le loro idee senza dover creare un dominio, pagare un sito ecc. C’è poi un’ultima cosa: con noi è stata creata in carcere, forse per la prima volta in Italia, quella che io chiamo una “maison sartoriale”, un vero e proprio laboratorio in cui le celle sonostate trasformate in cucine e lo spazio, riempito da divani, tappeti e mobili antichi, è utilizzato per organizzare corsi, permettere alle detenute di mangiare insieme, trascorrere del tempo leggendo, sfogliando riviste e giornali. Se ci siamo riusciti è stato grazie alla direttrice del carcere di Lecce Rita Russo, la quale ci ha affidato un’intera ala del carcere da trasformare in maison.Oggi inizia a Lecce il ritiro annuale degli Ashoka fellow italiani. Qual è lo spirito con cui viene affrontato questo ritiro?L’evento parte oggi e si svolge in tre intense giornate. Saranno giornate di confronto e di riflessione, ma anche di relax, perché è in un’atmosfera rilassante che vengono fuori le idee migliori. Oggi visiteremo le periferie di alcune città, dopodiché faremo una cena - picnic a Lequile, il comune che ci ospita, a cui ogni fellow porterà qualcosa che ha preparato. Domani mattina andremo in carcere, per poi concederci un pomeriggio in un centro benessere e una passeggiata serale nel centro storico di Lecce. Domenica, infine, incontreremo vari imprenditori che hanno lo spirito e la voglia di confrontarsi con noi per riflettere e capire insieme come si può reagire, con l’innovazione sociale, alle sfide che ci si pongono davanti. Il mio desiderio è quello di poter trascorrere queste tre giornate di confronto in un ambiente comodo, non solo “didattico”, poiché abbiamo bisogno di essere un po’ “coccolati”: ci doniamo completamente a questi progetti di innovazione sociale e abbiamo bisogno di prenderci anche del tempo per noi stessi, per riflettere e rigenerarci senza stress.Intervista a cura di Giada Scotto

Miniere che inquinano, ecco l'Ashoka Fellow che si batte per l'ambiente in tutto il mondo

Un Erin Brockovich al maschile – e italiano – che combatte l'inquinamento causato dalle multinazionali e vince processi impossibili. Per il resto, però, la storia di Flaviano Bianchini è molto diversa da quella dell'attivista americana portata sullo schermo vent'anni fa da Julia Roberts. Marchigiano, trentasette anni, in tasca una specializzazione in Gestione e valorizzazione delle risorse naturali e un master in Diritti umani, Bianchini è fondatore e direttore di Source International, per la quale ha ottenuto il riconoscimento di Ashoka Fellow. Con la sua organizzazione collabora con comunità locali, in particolar modo centro e sud-americane, africane ed asiatiche, che si trovano a combattere con casi di inquinamento ambientale e danni alla salute legati specialmente alle attività di industrie estrattive, fornendo un supporto tecnico-scientifico che permetta loro di valutare i danni e di mettere in moto azioni riparative e di indennizzo. Grazie a Source, in Messico una comunità ha ottenuto cinquanta milioni di dollari di indennizzo da una compagnia mineraria. In Honduras la Corte suprema di giustizia ha dichiarato incostituzionale la legge mineraria. In Guatemala la Corte Interamericana dei Diritti Umani ha condannato l'operato di un'altra compagnia mineraria. In Mongolia alcuni dissidenti ambientalisti che erano in carcere sono stati liberati. In Indonesia è stata ottenuta la bonifica di una zona inquinata da una discarica. In Mozambico uno staff locale controlla l'operato delle miniere di carbone; e nella città di Cerro de Pasco, in Perù, è stata dichiarata un'emergenza ambientale e sanitaria. Insomma, se non è Erin Brockovich poco ci manca: prima o poi arriverà forse sul grande schermo anche la vita di Flaviano Bianchini? Per ora, la Repubblica degli Stagisti si “accontenta” di farsela raccontare dal protagonista.Com'è nata Source International?Tutto è iniziato nel 2006, quando ho conosciuto un’attivista guatemalteca che si occupava delle violazioni dei diritti umani legate alle industrie estrattive. Le sue posizioni erano molto forti ma le mancava un supporto scientifico. Io stavo per laurearmi in scienze ambientali e, ottenuta la laurea pochi mesi dopo, sono partito per il Guatemala con un biglietto di sola andata. Ho lavorato per l'organizzazione di questa ragazza per quasi due anni, ma poi sono stato espulso dal Guatemala dopo aver vinto un’importante causa contro una multinazionale estrattiva. Ho deciso così di andare in Perù a lavorare per un'altra organizzazione, ma presto mi sono reso conto che mi mancava una base legale. Così sono tornato in Italia per studiare diritti umani. Nel frattempo stavo maturando l'idea di costituire un'organizzazione che aiutasse le comunità locali a difendersi dallo sfruttamento dei loro territori. L'organizzazione avrebbe dovuto avere delle fondamenta scientifiche e legali. Dopo il master in “Diritti Umani e Gestione di Conflitti” ho lavorato per l'organizzazione statunitense Elaw, che sta per Environmental law alliance worldwide, convincendomi sempre più dell'importanza di una struttura solida per difendere le comunità. Così nel 2012, dopo aver ricevuto la fellowship Ashoka in Messico, ho deciso di fondare Source International, un’organizzazione internazionale che difende, con dati scientifici e legali, le comunità che subiscono lo sfruttamento delle loro risorse e dei loro territori. Quali sono le principali attività dell'organizzazione? Lavorando in molti paesi differenti, collaborate con associazioni locali?Abbiamo seguito più di quaranta progetti in più di venti paesi, in cinque continenti, e in ogni progetto c'è un partner locale, che può essere una comunità, un’organizzazione di base, o un’altra ong. Secondo il nostro statuto, non operiamo se non abbiamo il mandato delle comunità locali: se queste non ci chiamano, non interveniamo, perché operare senza la loro "chiamata” sarebbe, per noi, un'altra forma di colonialismo. Oltre a collaborare con loro, fornendo il nostro supporto, lavoriamo anche per formare leader locali, chiamati promotori, che possano contribuire allo sviluppo di un sistema di monitoraggio ambientale e a formare, a loro volta, nuovi promotori nella loro regione, così da promuovere il modello e aumentarne l’efficacia.Com'è strutturata l'organizzazione e come funziona il lavoro al suo interno?L'organizzazione è strutturata in modo molto fluido. Non abbiamo una sede, e questo significa zero costi fissi, né orari fissi di lavoro. Ognuno vive e lavora dove vuole e lavora nell'orario che preferisce. Io supervisiono i progetti e i lavori ma non "controllo" i miei dipendenti, perché ognuno deve considerarsi autonomo al cento per cento e parte di un team in cui c'è totale fiducia gli uni negli altri. Ci coordiniamo per le varie attività ma siamo distanti anni luce da una struttura classica o gerarchica.Dal punto di vista economico, quali sono le vostre principali risorse?Circa il sessanta per cento delle nostre entrate proviene da "servizi", ovvero da comunità o organizzazioni di base che ci pagano affinché noi li aiutiamo. Il resto viene da fondazioni o donazioni, abbiamo progetti che spaziano dalle Nazioni Unite fino a piccole comunità indigene o organizzazioni locali con uno o due dipendenti. Da regolamento, non possiamo ricevere fondi da imprese estrattive.Come è possibile collaborare con Source International?Ogni anno arruoliamo nelle nostre file tesisti da diverse università: le nostre tesi spaziano da quelle strettamente scientifiche a quelle di diritto, fino anche a lavori di economia applicata. Non abbiamo attività di volontariato attive ma siamo aperti a proposte e idee da chiunque voglia proporcele.Come si è svolto il percorso di selezione per diventare Ashoka Fellow?Sono stato eletto in Messico e Centroamerica. Il processo di selezione è stato molto duro e lungo, ma essere un Ashoka fellow dà degli enormi vantaggi. La rete degli imprenditori sociali globale è sicuramente un punto di forza, ma anche il riconoscimento dato dall'essere fellow ci ha aiutato tantissimo nel nostro percorso: potersi presentare come fellow in giro per il mondo dà quella credibilità in più che spesso serve ad aprire un dialogo.Qual è l'impatto più forte di Source sulla società?Credo che il cambiamento più grande stia nel fatto che adesso le comunità che soffrono dello sfruttamento del territorio da parte di grandi imprese sanno che possono chiedere aiuto, e che noi possiamo aiutarli. Presto anche le imprese sapranno che non possono più operare come hanno sempre fatto, ma che devono cominciare ad essere più rispettose di ambiente e diritti umani, onde evitare danni e sanzioni.I prossimi obiettivi?Vogliamo crescere ma senza snaturare la nostra anima. Vorremmo riuscire ad operare in più paesi e su più progetti ma mantenendo lo spirito attivista che ci contraddistingue.Intervista a cura di Giada Scotto

Ispettorato del lavoro, tirocini ancora tra le priorità: quattrocento stage irregolari già scovati nel 2018

Un anno fa la Repubblica degli Stagisti aveva intervistato l’allora Capo dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Paolo Pennisi, rispetto alla decisione di inserire nel “Documento di programmazione della vigilanza” il controllo sulla regolarità dei tirocini. Ebbene, per il 2019 questo impegno è stato confermato. «Saranno pianificate specifiche iniziative ispettive volte ad arginare il ricorso improprio ai tirocini formativi», si legge nel documento di quest'anno, «con particolare riferimento a quelli extra curriculari, talvolta utilizzati per celare veri e propri rapporti di lavoro subordinato». Inoltre, «laddove, all’esito degli accertamenti operati, emergano in concreto modalità di svolgimento della prestazione lavorativa tipiche del lavoro subordinato, il personale ispettivo provvederà alla riqualificazione del rapporto di lavoro e al conseguente recupero dei contributi dovuti, nonché all’irrogazione delle sanzioni amministrative per tutti gli illeciti riscontrati». A un anno di distanza la Repubblica degli Stagisti ha intervistato il nuovo Capo dell’Inl, Leonardo Alestra, rispetto all’esito dell’attività annuale e ai dettagli della nuova programmazione. I tirocini sono stati confermati tra i settori prioritari di intervento per il 2019. Perché questa decisione?Nel documento di programmazione dell’attività di vigilanza 2019 è espressamente prevista la pianificazione di specifiche iniziative di vigilanza in materia, dal momento che il fenomeno riguarda categorie di soggetti più esposte a forme di irregolarità e considerato che l’uso distorto dell’istituto in discussione consente un indebito risparmio sul costo del lavoro e, in definitiva, si traduce in un’alterazione del corretto funzionamento del mercato del lavoro ovvero in forme di concorrenza sleale.Come si è finora svolta l’attività di ispezione annuale? Sono state diramate agli Uffici territoriali linee operative utili a uniformare l’azione ispettiva, sottolineando l’importanza e la peculiarità dei controlli da effettuare nel settore, tenendo peraltro necessariamente conto delle discipline regionali di riferimento. I controlli sono stati perciò effettuati in sinergia con le Regioni, al fine di poter acquisire ogni dato utile a individuare, fra le imprese che hanno ospitato i tirocinanti, quelle a maggior rischio di irregolarità quali ricorso sistematico ai tirocini, attivazione di un numero di tirocini particolarmente elevato in rapporto all’organico aziendale, etc.Qual è il bilancio provvisorio dell’attività di controllo sugli stage?Stante il fatto che, su richiesta delle Regioni, gli Ispettorati territoriali del lavoro hanno effettuato sui tirocini anche controlli meramente amministrativi, la loro rendicontazione va suddivisa in: 1.473 controlli di matrice esclusivamente lavoristica, condotti d’iniziativa dagli Itl, risoltisi con esito regolare in 862 casi e con esito irregolare in 356 casi, ovvero oltre il 24% del totale. Mentre 256 sono i controlli ancora in corso e 189 le verifiche amministrative richieste dalle Regioni, con 120 controlli risultati regolari e 36 irregolari, ovvero il 19% del totale.Quanti ispettori sono stati impiegati? Che tipo di irregolarità sono state riscontrate e quali zone d'Italia sono risultate più critiche?Non si dispone di dati relativi al numero di ispettori specificamente impiegati nell'attività in discussione − in via generale può farsi presente che a ogni ispezione partecipano almeno due ispettori − nè il dettaglio delle aree geografiche maggiormente interessate dalle irregolarità in materia di tirocini.Le risorse umane impiegate nelle ispezioni sono state confermate/implementate?In base alla legge di bilancio 2019, nel triennio 2019-2021 è prevista l’assunzione straordinaria di circa 1.000 funzionari presso l’Inl, la maggior parte dei quali con qualifica ispettiva, da destinare al contrasto del lavoro sommerso e irregolare e, dunque, anche alla lotta all’utilizzo distorto dei tirocini.Dalle regioni ci è stata spesso denunciata una debole incidenza delle azioni di controllo a causa della penuria di personale. Molte regioni si stanno attivando per garantire una vigilanza più severa sulla genuinità dei tirocini (vedi Abruzzo) e non mancano iniziative spontanee come il Telefono Rosso, in Sardegna. In che modo l'Ispettorato dialoga con queste esperienze?Precisato che la competenza allo svolgimento della vigilanza in materia è propria dell’Ispettorato e non delle Regioni − che invece hanno competenza normativa sulla materia e che svolgono verifiche di carattere procedimentale e amministrativo alla luce delle quali possono eventualmente segnalare possibili anomalie ai competenti uffici dell’Inl − l’Agenzia guarda con favore a ogni forma di dialogo e collaborazione con altri soggetti istituzionali e non. Ne è riprova la circolare 8/2018 in materia di tirocini, che afferma che la programmazione degli interventi presuppone l’attivazione di apposite sinergie con i competenti uffici della Regione, al fine di individuare, attraverso l’analisi dei dati disponibili, possibili fenomeni di elusione quali, ad esempio, il ricorso sistematico ai tirocini da parte di taluni soggetti ospitanti o l’attivazione di un numero dei tirocini particolarmente elevato in rapporto all’organico aziendale. Intervista di Rossella Nocca

Com'è fare uno stage curricolare in Illimity? Tre ragazzi lo raccontano

Quando ti trovi di fronte un ventunenne già laureato, con esperienze di liceo in Australia, universitarie a Londra e Hong Kong e che parla inglese e francese fluenti, ti rendi conto che l’asticella della competizione per entrare in azienda si è alzata, e non di poco.  Milano, quartier generale di illimity, la nuova banca creata da Corrado Passera. Ambiente informale in un palazzo a due passi dalla Stazione Centrale che mixa stile corporate da istituto di credito a tocchi di brio cromatico. Chissà come dev’essere fare uno stage qui. L’occasione per scoprirlo è arrivata quando illimity ha deciso di aderire al network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti,  grazie alle disponibilità di tre ragazzi il cui percorso si è appena concluso, e che abbiamo intercettato per una breve chiacchierata.  Il “panel” è composto da Simona Vastola e Alberto Salvi (entrambi ventun anni e provenienti dalla Bocconi, dove hanno studiato Economia) e da Kelly LLain (ventisei anni, laureanda in Design del prodotto al Politecnico). I tre sono stati inseriti rispettivamente nelle divisioni HR, IR e UX. Che poi significa Human Resources, Investor Relations e User Experience. Simona e Alberto sono entrati in contatto con la banca tramite il proprio ateneo, mentre Kelly ha scovato l’opportunità da sola, grazie a Linkedin.  Storie di vita molto differenti, ragazzi ambiziosi, lucidi, accomunati da una certa maturità. La sensazione viene confermata dai toni e dalla scelta dei vocaboli che usano per raccontarsi. Si vede che hanno studiato da manager e che la vita aziendale con le sue logiche, ritmi e convenzioni a loro non dispiace – anzi.  Probabilmente questo discostarsi dallo stereotipo del bamboccione è dovuto in parte al fatto di aver vissuto a lungo lontano da casa. Come Alberto: è sua la storia tratteggiata all’inizio di questo articolo. E lui sta già per rimettersi in viaggio: destinazione Londra, per proseguire gli studi in finanza nella capitale britannica. O Kelly, che dalla Colombia ha scelto proprio il capoluogo lombardo per studiare al Politecnico. «Qui da voi si respira la cultura del design, c’è poco da fare» esordisce lei, raccontando di un’altra esperienza all’estero, questa volta in Brasile. Una scelta, quella di attraversare l'oceano Atlantico per venire a studiare all’ombra del Duomo, non certo a buon mercato. «Rispetto al mio paese costa tutto il triplo» confessa: «Mi sono pagata l’università con risparmi e borse di studio, oltre, ovviamente, all’aiuto dei miei. Ma adesso che sono in dirittura d’arrivo è necessario pensare a un lavoro. E qui ho avuto una buona opportunità per cominciare a fare pratica. Tra l’altro, sono una tra le poche nella mia cerchia di amici ad essere pagata mentre faccio uno stage». Cosa vede Kelly nel suo futuro? «Penso di restare all’estero ancora qualche anno, e poi magari tornare in Colombia e aprire la mia startup».  «L’aiuto della famiglia è stato fondamentale anche per me» le fa eco Simona, che viene da Salerno: «Senza di loro penso sarebbe stato difficile permettermi un’esperienza di studio o un percorso di stage a Milano, senza nulla togliere a illimity che, anzi, ci ha supportato». Kelly e Simona hanno ragione: illimity garantisce condizioni di stage più che buone. Agli stagisti offre un'indennità mensile di 700 euro, senza fare distinzioni tra curricolari ed extracurricolari, e in aggiunta buoni pasto da 6,75 euro al giorno, che rappresentano più o meno altri 150 euro al mese in tasca. «In realtà trovo che il capoluogo lombardo sia un buon compromesso» corregge però il tiro Alberto, rimasto incredulo di fronte al mercato immobiliare delle metropoli cinesi: «Posso dirlo dopo aver vissuto a Hong Kong: lì i prezzi per gli affitti arrivano al doppio». Ma anche lui, per sostenere tutte le spese, fa affidamento sulla famiglia e sul fratello, che già lavora, e con cui divide casa. E per il futuro? «Una quindicina d’anni all’estero, poi di nuovo in Italia».  Che bilancio tracciano questi tre ragazzi dell'esperienza in illimity? «Prima di arrivare in illimity mi aspettavo che durante uno stage sarei stata trattata da ultima ruota del carro» risponde Simona: «Mi sbagliavo. In realtà, oltre a imparare, qui abbiamo avuto la possibilità di essere messi costantemente al centro del progetto, forse anche perché si tratta di una banca nata pochi mesi fa, e la novità si respirava nei corridoi».  Aria frizzante, spettinata. «C’era la possibilità di confrontarmi senza fronzoli con persone molto più esperte di me. Il gap generazionale non ha impedito il dialogo, e questo mi ha sorpreso» aggiunge Alberto. «Merito di una cultura aziendale che privilegia la sostanza alla forma» sintetizza Ilaria Pascutti, che in illimity si occupa di Risorse Umane e Talent Acquisition e ha seguito passo per passo il percorso dei tre. Ma anche della diversity – in parte cercata e in parte, semplicemente, connaturata a un’azienda che ha avviato le operazioni meno di un anno fa. «Siamo in trecento dipendenti, e secondo le nostre stime proveniamo da circa centoventi aziende diverse: una ricchezza incalcolabile, che però va governata. L’energia enorme che deriva da un retroterra del genere è bilanciata dalla difficoltà di gestire persone abituate a seguire prassi lavorative molto differenti, e che per questo motivo vanno amalgamate all’interno di una cultura aziendale nuova e condivisa».  Per ora gli stagisti sono stati solo una decina. Possibile che questi ragazzi vengano assunti in futuro? «È un arrivederci, non un addio. Del resto qui non fanno solo uno stage, ma portano quella ventata di freschezza, idee e il carico di input che ci serve per raggiungere il target che ci prefiggiamo: un’audience giovane e nativa digitale. Che, tramite loro, possiamo conoscere direttamente». Antonio Piemontese