Categoria: Editoriali

Berlusconi, gerontocrate a corrente alternata: ai «ragazzotti» di Confindustria Giovani nemmeno una risposta, alle ragazzotte tutta l'attenzione

L’emergenza gerontocrazia in Italia è riemersa prorompente, sabato scorso, nelle parole di Silvio Berlusconi. «Per amor di Patria non commento le dichiarazioni di alcuni ragazzotti industriali» ha detto il premier da Bruxelles, a margine delle dichiarazioni sull’esito di un incontro con il cancelliere tedesco Angela Merkel.Il capo dei «ragazzotti», per la cronaca, è un imprenditore di 36 anni. Si chiama Jacopo Morelli e da qualche mese guida i Giovani Imprenditori, movimento interno a Confindustria che conta oggi oltre 12mila associati – tutti manager tra i 18 e i 40 anni – che hanno responsabilità di gestione in aziende iscritte alle associazioni territoriali aderenti a Confindustria.I «ragazzotti» capitanati da Morelli non sono bolscevichi nè rivoluzionari, non fanno parte dell’esercito di precari, tradizionalmente anzi costituiscono l’elettorato di centrodestra. Ma non sono evidentemente contenti di come vanno le cose oggi in Italia, e infatti per il loro convegno di Capri in questi giorni hanno scelto un titolo che è un chiaro messaggio: «Alziamo il volume, diamo voce al futuro».I «ragazzotti» vorrebbero essere guidati da un governo capace di prendere decisioni e di traghettare il Paese fuori dalla crisi, «perché una politica debole, incapace di fare le riforme si basa solo sul consenso immediato e non si impegna per costruirlo su temi cruciali», come ha detto Morelli: «la politica deve passare dal dire al fare, dagli annunci all’azione». Il presidente del Giovani Industriali non dà giudizi espliciti sul governo, ma ne sottolinea la mancanza di autorevolezza e l’incapacità di realizzare programmi: «Abbiamo bisogno di leader che sappiano spiegare, convincere, agire. L’unica prova concreta della capacità di leadership è la capacità di guidare».L’attacco al premier, benché sottotraccia, è evidente: senza nominarlo mai, Morelli lascia intendere che Berlusconi non si stia dimostrando un vero leader perché non è in grado di agire e di realizzare quelle riforme che sono indispensabili per non restare il fanalino di coda d’Europa nella crescita, nell’occupazione e nella valorizzazione dei giovani.Comprensibile che il Cavaliere non apprezzi: del resto si sa che non ama molto le critiche. Ma ci si potrebbe chiedere in quale altro Paese un primo ministro si permetterebbe di definire sprezzantemente «ragazzotto» un trentaseienne laureato con lode in Economia, amministratore delegato di una società che fa quattro milioni di euro di fatturato, impegnato da undici anni in un’associazione di categoria del quale è stato vicepresidente e ora presidente.Una riflessione a latere si potrebbe anche dedicare al rapporto lievemente schizofrenico che il premier (che ha appena compiuto 75 anni – trent’anni secchi più del suo omologo inglese David Cameron, 25 più di Obama e Zapatero, una ventina più di Sarkozy e della Merkel…) ha verso la giovinezza.In questo caso la disprezza, sottintendendo che i rappresentanti degli industriali under 40 non sono degni della sua considerazione e non meritano una risposta. Dall’altra però si circonda di giovani e giovanissime donne, impegnando con loro molto del suo tempo e posizionandole spesso e volentieri in ruoli politici di rilievo a livello locale, nazionale ed europeo.Insomma, alle ragazzotte senza arte né parte tutta l’attenzione. Ai ragazzotti che fanno impresa, creano o difendono posti di lavoro, lanciano proposte per rimettere in sesto l’economia italiana e chiedono al governo di realizzare qualche riforma, una pernacchia.Eleonora Voltolinapubblicato sul blog del Fatto Quotidiano

Alessandro Rosina: io sto con gli indignati, ma l'indignazione deve essere costruttiva

Io sto con gli indignati. Del resto nella prima pagina del mio libro Non è un paese per giovani si parla di generazione “rapinata” e l’introduzione finisce con la frase: «Proprio da questi giovani l’Italia può ripartire. Ma solo se avranno l’arrogante audacia di lottare senza timori reverenziali, il creativo coraggio di riattivare un conflitto generatore di cambiamento; la lucida determinazione di rompere una volta per tutte la lunga tregua generazionale che blocca in un abbraccio soffocante le energie più vigorose del nostro paese».Io quindi non posso che stare dalla parte degli indignati, ma non per questo condivido in toto le loro posizioni. Il movimento ha certo varie anime, ma quella che più si è distinta ha espresso le proprie idee in una lettera inviata al presidente Napolitano e a questa farò riferimento.Vi si trova scritto che  «La questione non si risolve togliendo i diritti a chi li aveva conquistati, i genitori, ma riconoscendo diritti a chi non li ha». Si nega di fatto che esista una questione generazionale che invece c’è, soprattutto nel nostro paese. La loro attenzione è concentrata sulla crisi, le sue cause e i suoi effetti, perché il movimento italiano va a rimorchio delle iniziative e delle riflessioni sviluppate in altri paesi, dalla Spagna fino agli Stati Uniti. Ma i problemi italiani che frenano la crescita e marginalizzano i giovani sono in larga parte precedenti alla recessione. La crisi ha certo accentuato tutto. Ma noi avevamo già un debito pubblico alle stelle, avevamo già un tasso di occupazione giovanile molto basso, scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, un welfare pubblico inadeguato.  Non si può pensare che tutto questo sia solo colpa della speculazione internazionale. Negli Stati Uniti il bersaglio è Wall Street, da noi Piazza Affari e Bankitalia. Ma se l’occupazione della Borsa americana a cui mirano i giovani indignati statunitensi rappresenta simbolicamente un attacco al cuore al modello di sviluppo economico dominante, l’analoga operazione sulla Borsa italiana appare invece un’imitazione sbiadita e di scarsa efficacia, considerata anche la marginalità di quest’ultima nel sistema finanziario globale. Ha più senso, allora, ed è più originale il Dito medio di Maurizio Cattelan, opera d'arte provocatoria ormai da mesi esposta di fronte alla sede milanese della Borsa. Forse, anche per questo, l’attenzione si è spostata su Mario Draghi. Ma anche questo bersaglio sembra poco convincente. La Banca d’Italia è diventata un punto di riferimento centrale per i dati e le analisi su quello che non funziona in questo paese e su quanto marginalizzate siano state le nuove generazioni. Da anni gli interventi di Draghi si sono incentrati sull’importanza di riforme che mettano i giovani al centro della crescita riducendo nel contempo le disuguaglianze sociali e gli squilibri generazionali. Quelle di Draghi non sono solo vaghe parole sui giovani, sono interventi puntuali e documentati. Nel caos italiano e nella caduta di credibilità del nostro paese, la Banca d’Italia e il suo Governatore, con tutti i loro limiti, sono rimasti tra i pochi solidi punti di riferimento anche per i nostri interlocutori internazionali. Infine, la questione del debito è giusta ed è comprensibile la provocazione di rifiutarsi ad accollarselo. Certo non si può però rinnegarlo, non può farlo un paese grande e complesso come il nostro. Ma se ci fosse un governo credibile che proponesse un piano di rientro che  carica la maggior parte dei costi sulle generazioni più adulte e mature, ovvero su quelle che l’hanno creato, penso troverebbe il consenso dei più. Proprio la questione del debito pubblico, ma non solo, fa capire che c’è un patto generazionale che è saltato. Nessuna generazione ha diritto di difendere il proprio benessere scaricando i costi così pesantemente su quelle successive. Questo in Italia è successo e questo non deve più accadere, con o senza vincolo del pareggio di bilancio da mettere nella Costituzione.Quindi, io sto con gli indignati: ma più con quelli che vogliono far tornare il paese a crescere con un modello di sviluppo che metta al centro le nuove generazioni che con quelli genericamente e ideologicamente antisistema.Alessandro RosinaPer saperne di più, leggi anche: - Un esercito immobile: l'editoriale di Alessandro Rosina su giovani disoccupati e precari- In Nordafrica i giovani hanno deciso che il loro tempo è adesso. E in Italia?E anche:- Quando l'eredità genitori-figli è un peso: un libro spiega perché l'Italia soffre di «immobilità diffusa». Con qualche idea per cambiare - Bamboccioni? Nel libro «L'Italia fatta in casa» Alesina e Ichino spiegano di chi è la colpa

L'apartheid del lavoro italiano al vaglio della Commissione europea: le ragioni di una denuncia

Il dibattito sul precariato italiano stagna. Vissuto sulla propria pelle da circa cinque milioni di persone, potenziato dalla crisi, il problema ha una particolarità: anziché esplodere, implode. Non trova sbocchi. Chi avrebbe in mano le leve per mutare la rotta fa orecchie da mercante. Da qui la decisione di bussare alla porta dell’Unione europea attraverso una denuncia con sette firme in calce: quella di Emma Bonino, vicepresidente del Senato e già commissario europeo, e poi Benedetto della Vedova deputato di Fli, Antonio Funiciello direttore dell'associazione Libertà Eguale, Pietro Ichino giuslavorista e senatore PD, Giulia Innocenzi responsabile italiana del sito web Avaaz in Italia, Nicola Rossi esponente della fondazione Italia Futura, e la sottoscritta in rappresentanza della Repubblica degli Stagisti.La denuncia è uno strumento che potenzialmente ogni singolo cittadino ha in mano, se pensa che uno Stato membro violi una delle normative comunitarie.  Noi abbiamo scelto di portare di fronte all’Ue l’apartheid del mercato del lavoro italiano. Mettendo nero su bianco quello che tutti sanno ma nessuno vuole ammettere: la disparità di trattamento fra i lavoratori subordinati regolari e quelli sostanzialmente dipendenti, ma qualificati come collaboratori autonomi continuativi. I freelance spintanei. E’ qui che si annida il vizio italiano, perché a loro «è riservato uno statuto protettivo incomparabilmente più povero rispetto ai subordinati regolari». In pratica «non hanno protezione contro il licenziamento e contro la reiterazione dei contratti a termine; sono esclusi da qualsiasi limite di orario di lavoro; non godono del diritto alle ferie annuali; sono normalmente esclusi dall’applicazione dei contratti collettivi di settore e in particolare degli standard retributivi minimi; il loro contributo complessivo ammonta approssimativamente al 27 per cento della retribuzione, mentre per i subordinati regolari esso ammonta al 32 o 33 per cento». Insomma figli di un dio minore rispetto a quelli “normalmente” assunti con un contratto di lavoro dipendente. L’Unione europea però ha una direttiva specifica, la n. 1999/70, che vieta che ciò avvenga prescrivendo l’obbligo (non raccomandazione: obbligo) di prevedere misure per impedire e  punire l’abuso di una successione di contratti a tempo determinato. Non solo. La Corte di Giustizia ha ribadito che la normativa mira a «impedire che un rapporto di impiego di tale natura venga utilizzato da un datore di lavoro per privare questi lavoratori di diritti riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato».Cosa che quotidianamente avviene in Italia. Grazie a un cavillo: i lavoratori discriminati non sono (solo) quelli temporanei, ma soprattutto quelli che sono (o meglio si pretende che siano) indipendenti. Ma «le disposizioni delle direttive europee in materia di lavoro devono intendersi riferite a tutte le posizioni di lavoro sostanzialmente dipendente» si legge nella denuncia, e dipendente va considerato chiunque «collabori continuativamente con un’unica azienda, inserito nella sua struttura, traendo da tale rapporto l’intero proprio reddito, o la parte assolutamente prevalente di esso». Quindi anche i finti cocopro, cococo e le finte partite Iva.E’ evidente che il nostro mercato del lavoro é fuori controllo: esistono casi di finti cocopro reiterati «fino ad assumere una durata complessiva anche ultradecennale e persino pluridecennale». Prassi «diffusissima e pacificamente tollerata» che tocca una percentuale abnorme di persone, circa un terzo del totale. «L’esistenza stessa di quel terzo di lavoratori non protetti costituisce violazione grave, di entità macroscopica, della direttiva n. 1999/70».L’Ue non può tollerare questa «fuga dal diritto del lavoro». Per realizzare la flessibilità non si può creare una serie A e una serie B di lavoratori, dove tra l’altro i giovani giocano quasi tutti nella più scadente. Ci vuole invece «un diritto del lavoro capace di conciliare la massima possibile flessibilità delle strutture produttive con la massima possibile sicurezza di tutti i lavoratori dipendenti nel mercato. Con la conseguenza che quest’ultima non può essere costruita con l’ingessatura dei rapporti di lavoro, bensì con il rafforzamento della posizione di tutti i lavoratori nel mercato del lavoro».La denuncia è stata presentata il 14 settembre alla Rappresentanza romana della Commissione Ue. La  palla passa adesso a Bruxelles, che già entro ottobre potrebbe aprire una procedura di infrazione e di diffida nei confronti dell’Italia. Obbligandola, finalmente, a mettere fine all’insopportabile apartheid.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Senza soldi non ci sono indipendenza, libertà, dignità per i giovani: guai a confondere il lavoro col volontariato- Giovani disillusi e conservatori: da un sondaggio di Termometro Politico emerge il ritratto di una generazione terrorizzata dal futuroE anche:- Nelle pagine del Rapporto sullo stato sociale un allarme sulla questione giovanile: e tra 15 anni la previdenza sarà al collasso- «Le mie pensioni»: quanto prenderanno domani i precari di oggi?

Manovra, la palla passa alla Camera: appello della Repubblica degli Stagisti ai deputati affinché migliorino l'articolo sui tirocini

Da quando la Repubblica degli Stagisti esiste, ormai quattro anni, ha sempre sostenuto che l'universo stage fosse un far-west con ben poche "oasi felici" e che la situazione fosse scappata di mano al legislatore, con il risultato di trasformare uno strumento di formazione di giovani inesperti in un escamotage - per imprese private ed enti pubblici - per poter disporre di dipendenti a basso costo (o gratis). Fin dalla Carta dei diritti dello stagista una delle richieste è stata la diminuzione della durata massima e l'introduzione di qualche paletto per evitare che si potessero proporre stage anche a persone già adulte, formate e magari esperte.È stata una grande sorpresa trovare nel decreto legge 138/2011, la cosiddetta manovra di Ferragosto, un articolo dedicato agli stage e sopratutto un contenuto che andasse nella direzione da tempo auspicata. Per questo la Repubblica degli Stagisti ha salutato con favore l'introduzione dei due nuovi paletti. Vi sono però almeno quattro questioni che incidono molto negativamente sulla situazione, e che di fatto hanno trasformato questo decreto in un incubo per tutti gli attori coinvolti nell'universo stage: centri per l'impiego, università, centri di formazione, aziende e sopratutto persone. Eccole.Il metodo / su questa materia ha davvero senso agire mediante decreto legge? Se di un intervento vi era certamente bisogno, appare  difficilmente comprensibile la scelta di inserire due soli paletti nel quadro di una manovra finanziaria d'urgenza - attuata con lo strumento del decreto legge che per sua natura è immediatamente operativo - anziché sedersi al tavolo con Regioni e parti sociali, com'era stato previsto a luglio, per preparare un testo accurato e organico, in grado di disciplinare la materia e di fungere da "legge quadro" per le successive normative regionali. La chiarezza del contenuto / o meglio, la non chiarezza. Così come formulati, i nuovi paletti non sono chiari. Dimenticano cioé di specificare  alcuni dettagli che riguardano decine di migliaia di persone. Due su tutti: la definizione esatta della formula tirocinio curriculare e l'inquadramento di tutti i percorsi formativi che non siano scuole superiori (che si concludono col diploma) e corsi di laurea universitari (che si concludono appunto con la laurea). Mancando questi dettagli, e molti altri, si è creata una situazione di caos e di anarchia che si traduce in due effetti, entrambi deleteri. Il primo, l'anarchia interpretativa che fa sì che ogni soggetto promotore - in primis università e centri per l'impiego - faccia un po' come gli pare, supplendo alle deficienze del testo dell'art. 11 con una sua interpretazione. Il secondo, la paralisi: moltissimi soggetti, specialmente le grandi imprese che hanno uffici legali sempre all'erta, per paura di sbagliare hanno sospeso tutto, bloccando i tirocini in entrata in attesa di capire il perimetro esatto tracciato dalla nuova normativa. Urge quindi una circolare del ministero del Lavoro che specifichi nel dettaglio quello che il testo dell’art. 11 non dice chiaramente [qui l’elenco completo dei punti oscuri stilato già dieci giorni fa dalla Repubblica degli Stagisti]L'efficacia immediata / perché di tutti gli articoli della manovra quello sui tirocini è uno dei pochi per i quali non è stata prevista un'attivazione posticipata? Qui il legislatore ha agito dimostrando una sostanziale incompetenza - o disinteresse - nei confronti delle consuete procedure di attivazione degli stage. In considerazione del fatto che spesso i bandi e le selezioni avvengono con molto anticipo, e che specialmente d'estate capita che il tirocinio venga concordato a luglio/agosto e che sia però formalizzato e attivato dopo qualche tempo (per esempio, a settembre), sarebbe molto più saggio prevedere un periodo di assestamento. I nuovi paletti cioè potrebbero essere stabiliti oggi ma resi operativi tra qualche mese, per esempio a partire dal 1° gennaio 2012. In questo modo si darebbe il tempo a tutti di adeguarsi e si rimetterebbe ordine nel caos attuale, permettendo che gli stage già concordati vengano regolarmente avviati, fermo restando che quelli previsti a partire dal prossimo anno dovranno rispettare i nuovi paletti.Le categorie dimenticate. Vi sono alcune fasce di persone molto "deboli" sul mercato del lavoro, che però non sono comprese nell'elenco dei potenziali beneficiari dello strumento dello stage. Qui un suggerimento potrebbe essere quello di andare a ripescare alcune delle categorie elencate nella definizione di "lavoratore svantaggiato" contenuta nel  Regolamento comunitario 2204 del 2002, per esempio: i giovani che abbiano meno di 25 anni o che abbiano completato la formazione a tempo pieno da non più di due anni e che non abbiano ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente; i lavoratore migranti e le minoranze etniche; i disoccupati di lungo periodo, ossia persone senza lavoro per 12 dei 16 mesi precedenti, o per 6 degli 8 mesi precedenti nel caso di persone di meno di 25 anni.La proposta e l’appello che la Repubblica degli Stagisti lancia a tutti i deputati è quindi quella di accordarsi per introdurre almeno qualcuno di questi correttivi nel passaggio del decreto alla Camera, prima che esso venga definitivamente trasformato in legge dal Parlamento, in modo che i 500mila stagisti italiani, più tutti coloro che lavorano nel campo della formazione e dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro, possano tirare un sospiro di sollievo e che soggetti promotori e soggetti ospitanti possano avere il tempo di organizzarsi in base alla nuova normativa.Eleonora Voltolina[grazie ad Arnald per la vignetta] Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Nuova normativa sui tirocini nella manovra di Ferragosto, il diario di bordo: tutti gli articoli, gli approfondimenti e le interviste della Repubblica degli StagistiE in particolare:- Nuove norme sui tirocini, per applicarle bisogna capirle: ecco i punti ancora oscuri- Nuova normativa sui tirocini, non ci si capisce niente e si rischia la paralisi: le rimostranze di lettori e aziende sui punti oscuri e sul silenzio del ministero- La lettera di un addetto ai lavori: «Le nuove norme impediscono di utilizzare il tirocinio per i disoccupati in situazione di svantaggio ed emarginazione»- Manovra, la riforma della normativa sugli stage getta gli enti promotori nel caos: e scatta l'anarchia interpretativaE anche:- Stagisti a zero euro, no grazie: ecco perchè vietare il rimborso spese per legge sarebbe ingiusto e controproducente- Anche gli stage finiscono nella manovra del Governo: da oggi solo per neodiplomati e neolaureati, e per un massimo di sei mesi- Manovra, Michele Tiraboschi: «I nuovi paletti per i tirocini potranno essere modificati dalle Regioni»

«Allarme, con meno tirocini i giovani restano disoccupati, sarà un dramma per l'occupazione». Ma non è vero: ecco perchè

È apparsa l'altroieri sul quotidiano Sole 24 Ore, nella pagina dei commenti, una presa di posizione di Alessandro De Nicola sulla manovra ferragostana del governo, e in particolare sull'articolo 11 che introduce nuovi paletti per l’utilizzo dello strumento del tirocinio. De Nicola, avvocato e docente universitario, è una penna autorevole e tra le altre cose è presidente della Adam Smith Society. Il succo del suo intervento è che il giro di vite sugli stage, che prevede un dimezzamento della durata massima per tutti quelli non curriculari (portandola da dodici mesi a sei) e uno sfoltimento della platea dei potenziali stagisti (escludendo, salvo poche eccezioni, tutti coloro che abbiano conseguito il diploma o la laurea da più di un anno), avrà conseguenze drammatiche sull'occupazione giovanile.Dato che da anni su questo sito ci si occupa proprio di questo tema - accompagnando i giovani a scegliere gli stage più efficaci e a riconoscere le imprese virtuose, sostenendoli nelle difficoltà e denunciando i casi in cui imprese private ed enti pubblici si approfittano dello stage per poter disporre di personale a basso costo - è giusto esprimere la posizione della testata.Nell'articolo si afferma che il legislatore limita la possibilità di svolgere tirocini senza rendersi conto che «l'alternativa non è tra uno stage di dodici mesi ed uno di sei mesi e poi l'assunzione, ma semplicemente tra un tirocinio più lungo ed uno più breve o nessun tirocinio». La Repubblica degli Stagisti è fortemente convinta che ciò non sia vero. E per un semplice motivo: le imprese hanno business da mandare avanti. Hanno progetti, consegne, clienti, commesse. Hanno uffici da aprire ogni mattina e chiudere ogni sera. Hanno bisogno dei giovani.Fino a che la flessibilità non è esistita, lo hanno fatto con un binomio: o contratto di lavoro a tempo indeterminato, o nero. Non era un bel mercato, ne conveniamo. Poi è arrivata la flessibilità, purtroppo fatta male, con leggi fatte male, senza ammortizzatori sociali, con un sindacato-struzzo che ha lavorato solo per mettere al riparo chi aveva già un contratto, scaricando tutte le criticità su chi ancora doveva entrare nel mercato del lavoro. Il pacchetto Treu, tra le altre cose, a cavallo tra il 1997 e il 1998 ha formalizzato i tirocini, dando loro una cornice normativa. Da quel momento in poi i datori di lavoro hanno avuto la possibilità di accogliere persone in stage, con limiti blandissimi e controlli inesistenti. Molto velocemente ne hanno capito i vantaggi: nessuna sanzione prevista in caso di violazione, tanti giovani entusiasti e speranzosi, tante braccia e tanti cervelli svincolati da ogni contratto nazionale, privi di tutela sindacale, e per di più con la bella facciata della sono-così-generoso-che-ti-offro-una-formazione-e-guai-a-chiamarla-lavoro.Tornando al punto. Le aziende oggi come ieri come domani attuano un naturale turn-over, alimentato da chi va in pensione, chi dà le dimissioni, chi cambia lavoro, chi disgraziatamente si ammala o fortunatamente mette al mondo un figlio. E in questo turn-over un ruolo chiave ce l'hanno sempre avuto i giovani. Da una parte perché, in ragione dell’inesperienza e dell’assenza di anzianità, possono essere pagati di meno. Dall'altra perchè hanno competenze che i vecchi non hanno, specialmente in quest'epoca di impetuosa evoluzione tecnologica. Per far imparare un giornalista 50enne a scattare, ritagliare, caricare su un sito la foto di un evento, aggiungerla al pezzo e pubblicare, può passare anche un mese. A un ventenne non serve nemmeno spiegarlo: è lui che al limite ti spiega che guarda, così si può anche modificarla, vedi che questo effetto la migliora, e poi vuoi che ci aggiungiamo una didascalia? E il video dell’evento, non lo mettiamo?Quindi: le aziende hanno avuto, hanno e avranno sempre bisogno di giovani. Limitando il bacino dei potenziali stagisti non si limita la possibilità per i giovani di trovare un lavoro: perché l'agenzia pubblicitaria avrà sempre lo spot da consegnare entro la prossima settimana, la casa editrice le bozze da mandare in tipografia alla fine del mese, l'agenzia di consulenza la consegna urgente del report, e il reparto marketing della multinazionale dovrà presentare il business plan per la riunione semestrale. I negozi avranno il surplus di lavoro natalizio, gli alberghi e i ristoranti le stagioni turistiche. Il lavoro c'è e andrà sbrigato da qualcuno: per questo c’è letteralmente sete di giovani. L’unico effetto che questa norma avrà se resterà in vigore - e non verrà falcidiata o depotenziata con il passaggio in aula – sarà quello di far avvizzire, meglio tardi che mai!, quello che molti datori di lavoro pubblici e privati con pochi scrupoli hanno considerato l'albero della cuccagna. D'ora in poi, con i nuovi paletti, il numero degli stage non potrà che essere inferiore agli anni passati. E a quel punto si apriranno molte opportunità di lavoro vero, in primis attraverso i contratti di apprendistato. L’alternativa, parafrasando De Nicola, è tra mille stage che fino ai ieri potevano arrivare fino all'abnorme durata di dodici mesi, e di cui solo il 10-12% (uno su dieci!) portava a un contratto di lavoro, e cento stage da massimo sei mesi, a cui magari seguirà qualche assunzione in più. E a cui si andrà ad aggiungere l’attivazione di duecento, o trecento, o addirittura novecento contratti veri. Senza contare, attenzione, che gli stage di dodici mesi non saranno affatto vietati del tutto: quelli curriculari potranno continuare a durare anche così tanto.Il mercato è stato drogato, negli ultimi 15 anni, dalla gratuità del lavoro giovanile, essenzialmente attraverso l'attivazione di migliaia e migliaia di stage che invece sarebbe stato più corretto formalizzare come contratti di lavoro. È ora e tempo di darci un taglio.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Nuova normativa sui tirocini nella manovra di Ferragosto, il diario di bordo: tutti gli articoli, gli approfondimenti e le interviste della Repubblica degli StagistiE in particolare:- Nuove norme sui tirocini, per applicarle bisogna capirle: ecco i punti ancora oscuri- Anche gli stage finiscono nella manovra del Governo: da oggi solo per neodiplomati e neolaureati, e per un massimo di sei mesi- Manovra, Michele Tiraboschi: «I nuovi paletti per i tirocini potranno essere modificati dalle Regioni»E anche:- Urgono nuove regole per proteggere tirocinanti e praticanti: tante idee della Repubblica degli Stagisti nel disegno di legge di Cesare Damiano- La Carta dei diritti dello stagista ispira Regioni, associazioni politiche e siti web a tutelare gli stagisti. A cominciare dal rimborso spese

Stagisti a zero euro, no grazie: ecco perchè vietare il rimborso spese per legge sarebbe ingiusto e controproducente

Chiusa a fine luglio la pratica del contratto di apprendistato, il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi sul suo blog dà appuntamento a settembre a Regioni e parti sociali «per discutere la parallela rivisitazione dei tirocini formativi e di orientamento - stage - in modo da prevenirne drasticamente gli abusi e valorizzarne le potenzialità quale canale di primo contatto dei giovani col mondo del lavoro». Intento lodevole, sempre che si parta col piede giusto: invece sembra che l'idea sia quella di vietare per legge che gli stagisti vengano pagati. Pessima soluzione. Se è vero che uno dei problemi del mercato del lavoro è l'abuso dello strumento dello stage, non è certo penalizzando gli stagisti e le (poche) realtà che si comportano virtuosamente, prevedendo per loro quei piccoli emolumenti chiamati “rimborso spese”, che si migliorerebbe la situazione. Anzi, la si livellerebbe verso il basso. Tagliare proprio la parte virtuosa del fenomeno anziché la peggiore – quella fatta di stage gratuiti - appare ben poco sensato.Un passo indietro. Lo stage non è un contratto di lavoro, non prevede né retribuzione né contributi, non impegna ad assumere nemmeno in piccola percentuale gli stagisti, e sopratutto la normativa non prevede sanzioni per chi la viola, con il risultato che oggi lo stage è un far west. Come la Repubblica degli Stagisti da anni denuncia, lo stage può essere un concorrente sleale per tutti gli altri contratti dedicati ai "profili junior", primo fra tutti l'apprendistato. Ma pensare che far diventare tutti gli stage gratuiti basterebbe a far crollare il loro utilizzo, perché i ragazzi chiaramente rifiuterebbero, è del tutto velleitario.Già oggi più della metà degli stage non prevede il becco di un quattrino: eppure i giovani italiani accettano lo stesso. Da una indagine Isfol - Repubblica degli Stagisti emerge infatti che il 52% dei tirocini non prevede nemmeno un euro di rimborso spese, il che non ha certo contribuito a far diminuire il fenomeno. Il risultato degli stage "non retribuiti" è semplicemente quello di obbligare le famiglie a fare ancora sacrifici. Creando tra l'altro fratture classiste tra chi può permettersi anni di "formazione gratuita" rimanendo a carico di papà, e chi non ne ha i mezzi.Si dovrebbe considerare la pura formazione come compenso del tirocinante? Peccato che uno su tre giudichi «mediocre» o «pessima» la qualità degli insegnamenti ricevuti. E poi, escludendo una trascurabile percentuale di incapaci o lavativi, dopo poche settimane ogni stagista diventa produttivo: questo apporto va riconosciuto attraverso un emolumento, essendo il denaro la misura con cui si valuta una prestazione e il mezzo attraverso cui si pagano affitto, cibo e altre amenità. Tra l'altro, anche senza considerare lo stage una prestazione, vietare il compenso non avrebbe comunque senso: l'esistenza delle borse di studio universitarie sancisce il principio che sia utile sostenere una persona in formazione. Il terzo dato di fatto è che gli stage gratuiti sono quelli in cui più spesso la qualità formativa è scarsa e la probabilità di essere assunti è bassa; chi invece investe anche economicamente su un giovane è più motivato a trattenerlo attraverso un'assunzione. Lo sbocco lavorativo è importante per gli stage: le imprese lo usano sempre più apertamente per “testare” le nuove risorse, e almeno un terzo delle persone lo fa proprio per trovare un impiego.L'ultima obiezione scaturisce da una panoramica comparativa con l'estero. È un ritardo sociale incredibile quello italiano: altrove in Europa i giovani vengono incentivati il prima possibile ad entrare in un “circolo retributivo”, e messi in condizione di emanciparsi dalla propria famiglia. In questa ottica in molti Paesi la legge impone di pagare almeno 400-500 euro gli stagisti. Istituzioni come la Commissione e Parlamento europeo garantiscono rimborsi di oltre mille euro al mese; una risoluzione votata l'estate scorsa all'unanimità dal Parlamento Ue chiede chiaramente che tutti gli Stati membri prevedano nelle legislazioni nazionali «un'indennità minima basata sul costo della vita del luogo dove si svolge il tirocinio», per evitare appunto la iattura degli stage gratuiti.Sarebbe grave che andassimo nella direzione opposta, introducendo un divieto che danneggerebbe  tanto per cambiare solo i soggetti più deboli di questa partita - i giovani. Gli strumenti per depotenziare l'utilizzo scriteriato degli stage e far sì che non siano più concorrenti sleali per altre tipologie di contratto ci sono tutti, basta usarli. Diminuire le durate, moltiplicare i controlli specialmente rispetto alla durata massima e al numero massimo di tirocinanti ospitabili, introdurre sanzioni, limitarne l'utilizzo al periodo di formazione e ai primi 6 mesi dal conseguimento del titolo, impedirne la reiterazione, vietarli nelle imprese in crisi. Queste sì che sarebbero azioni utili per prevenire gli abusi.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Senza soldi non ci sono indipendenza, libertà, dignità per i giovani: guai a confondere il lavoro col volontariato- Il presidente della Regione Enrico Rossi promette: «In Toscana ricevere dei soldi per uno stage sta per diventare un diritto»- Identikit degli stagisti italiani, ecco i risultati: troppo spesso i tirocini disattendono le aspettativeE anche:- La lista dei tirchi: la "black list" degli organismi internazionali che non pagano gli stagisti- Lo Youth Forum: «Gli stage gratuiti e senza prospettive ci sono in tutta Europa, e spesso sono sacrifici inutili»

E se il voto di un ventenne contasse triplo?

Giovani e rappresentanza politica, come far contare di più il voto degli under 30? Il dibattito si è infiammato, un po’ off-topic, all’evento Start-Up Italia organizzato dal Partito democratico a Milano per discutere di imprenditorialità giovanile, incentivi e prospettive. Il sasso lo lancia Emil Abirascid [foto a destra], giornalista e animatore di StartUp Business, paragonando il peso politico delle nuove generazioni in Italia – scarso per non dire nullo – a quello nei paesi arabi come Libano, Tunisia, Giordania, dove i ventenni sono una fascia d’età numericamente – e di conseguenza politicamente e socialmente – molto più potente.In Italia i giovani sono pochi in assoluto, a livello demografico: e quindi per farli contare di più perché non far valere di più il loro voto? Ecco la provocazione di Abirascid: «Dovremmo far valere il voto degli under 30 tre punti, e via a scendere, fino ad arrivare agli under 65: a loro solo mezzo punto. Perché hanno già dato! Già li sento» ridacchia «i sessantenni a protestare…». In realtà a sollevare le prime perplessità dalla prima fila è una quarantenne, l’ex ministro per le Politiche giovanili Giovanna Melandri, che ironizza: «La proposta sarebbe lievemente incostituzionale…».Riccardo Luna, direttore uscente di Wired e moderatore dell’incontro, coglie la palla al balzo per chiamare la Melandri a commentare la proposta di legge del ministro Meloni su un tema limitrofo. Un dispositivo normativo che proprio la settimana scorsa ha iniziato il suo iter in commissione Affari costituzionali, e che mira a equiparare le età di elettorato attivo e passivo. Se passasse, permetterebbe di essere eletti alla Camera a 18 anni (oggi una volta diventati maggiorenni si può votare per la Camera ma non si può essere eletti al suo interno – questo significa “elettorato passivo” – fintanto che non si è compiuto il 25esimo anno di età) e di essere eletti al Senato a 25 (oggi solo gli over 40 possono diventare senatori). Luna chiede a bruciapelo «Melandri, il Pd sostiene la proposta?», lei parla per sé e risponde «Personalmente sì, del resto è un’idea che noi abbiamo sostenuto fortemente per le amministrative. Ma prima» aggiunge «bisognerebbe attuare riforme più urgenti, come la riduzione del numero dei parlamentari. L’età dell’elettorato non è poi così grave…». «Come no!» la interrompe Alessandro Rosina, anche lui seduto in prima fila dopo essere intervenuto nel panel precedente. «Sì che è grave e urgente, perché gli under 40 sono esclusi da un ramo del Parlamento quando però il sistema italiano è un bicameralismo perfetto!». [nella foto a destra, l'intervento della Melandri; sullo sfondo Alessandro Rosina]Il professore, 43enne autore del fortunato saggio Non è un paese per giovani, sottolinea che in un sistema in cui ciascuna legge dev’essere approvata da entrambi i rami del Parlamento, averne uno “anagraficamente caratterizzato” e cioè completamente privo di giovani significa offrire ad esso una sorta di potere di veto. Col rischio che qualsiasi legge innovativa e a favore dei giovani diventi di fatto “stoppabile” dal gruppo dei senatori, più inclini a conservare i privilegi delle generazioni più anziane. E aggiunge a margine: «Negli altri Paesi squilibri del genere sono considerati addirittura incostituzionali, perché un gruppo anagrafico non può essere discriminato rispetto agli altri». In effetti, parlando di incostituzionalità, far valere di più il voto di un giovane sarebbe non solo “leggermente”, ma completamente in contrasto con la nostra Carta. Ma la provocazione di Abirascid è preziosa: fare in modo che il nostro Paese torni ad essere un posto in cui le idee e le esigenze dei giovani contano è il primo imprescindibile passo per far tornare l’Italia un paese per giovani.Eleonora Voltolinapubblicato sul blog del Fatto Quotidiano

Senza soldi non ci sono indipendenza, libertà, dignità per i giovani: guai a confondere il lavoro col volontariato

Oggi vengo a parlarvi di soldi – di quei soldi che i giovani italiani non vedono, perchè incastrati in quello che è stato definito il lavoro low cost. E vi parlo di soldi partendo da un articolo della nostra Costituzione, il numero 36, che dice che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa». La dignità è un concetto che più volte è emerso nel corso di questa giornata di convegno; ma i giovani italiani spesso lavorano percependo retribuzioni al di sotto della soglia di dignità, o non percependone affatto. Il lavoro così viene confuso con il volontariato, una sovrapposizione gravissima e molto pericolosa. In particolare la Repubblica degli Stagisti monitora la fase di passaggio dalla formazione al lavoro: per inquadrare il problema, si calcoli che ci sono in Italia oggi circa 500mila stagisti all’anno, e un numero di praticanti non ben definito ma superiore a 100mila, forse 200mila, forse addirittura 300mila. In oltre la metà dei casi non percepiscono un euro di rimborso spese. Vi sono poi i giovani inquadrati come lavoratori autonomi: quelli che lo sono davvero, i professionisti, spesso guadagnano meno di 10mila euro all’anno, un dato emerso da una recente indagine Ires. E poi ci sono gli autonomi che mascherano lavoro dipendente: falsi cocopro e false partite Iva, che oltre che sottoinquadrati sono nella maggior parte anche sottopagati.Con quale risultato? Che i giovani pesano sulle famiglie, alimentando un circolo vizioso che azzera il conflitto generazionale. Conflitto che, anche se qualcuno la pensa diversamente, molte volte è utile anzi indispensabile per permettere ai figli di fare scelte per conto proprio, perfino in contrasto con i genitori. Basti pensare a chi sogna di fare un mestiere che la famiglia non approva: se si è costretti a farsi mantenere dai genitori, quelli avranno sempre voce in capitolo in ogni scelta, e non sarà facile porsi in contrasto con chi paga affitto e bollette. Un cordone ombelicale che impedisce ai giovani di diventare adulti. Il fatto che  dipendano così a lungo dalle loro famiglie ricrea tra l’altro una sorta di classismo, blocca la mobilità sociale; solo chi ha una famiglia abbiente alle spalle può infatti permettersi lunghi anni di gavetta non pagata, o pagata pochissimo. Quelli che non hanno la famiglia a sostenerli, finisce spesso che debbano abbandonare i propri sogni professionali.Senza soldi, senza autonomia economica, non c’è nemmeno quella libertà di cui parla la Costituzione. Le magre prospettive di reddito che i giovani italiani vedono stagliarsi all’orizzonte producono conseguenze nefaste. Innanzitutto la fuga dei cervelli, perchè all’estero gli stipendi sono più alti, e quindi tanti giovani emigrano. Poi la disillusione: i risultati di un sondaggio realizzato da Termometro Politico e presentato la settimana scorsa a Italia 110, un altro evento del PD, sono drammatici perchè tratteggiano un profilo di giovani terrorizzati, senza più alcuna fiducia nel futuro: ultraconservatori, senza la minima propensione a quel rischio che invece dovrebbe essere la naturale caratteristica della loro età. Fino alla conseguenza più preoccupante: il freno a mano tirato sulla costruzione di una vita autonoma. Giovani in casa dei genitori fino a trent’anni, che non riescono a farsi una famiglia, a mettere al mondo dei figli, creando una spaventosa denatalità di cui tra qualche anno tutto il Paese subirà le conseguenze. E allora, i soldi: si riparta dai soldi. Per quanto riguarda lo stage, considerando il fatto che oltre la metà non viene pagata, noi ormai più di due anni fa abbiamo lanciato la nostra Carta dei diritti dello stagista, il manifesto di come dovrebbe essere un buono stage, prevedendo fra i punti fondamentali quello di un dignitoso rimborso spese. E piano piano, finalmente, anche altri soggetti sono andati nella stessa direzione: la Cgil con la sua campagna «Giovani non + disposti a tutto», con uno spin-off tematico sugli stage dal titolo «Non + stage truffa». Il senatore Pietro Ichino che nella sua proposta Codice del lavoro in 70 articoli ne ha dedicato uno alla regolamentazione dello stage. Il ddl Damiano, presentato pochi mesi fa alla Camera, che si propone di riordinare la materia di stage e tirocini e introduce, sul modello della normativa francese, un compenso minimo di 400 euro al mese. La Regione Toscana, che proprio qualche giorno fa ha presentato nell’ambito del progetto «Giovani sì» una misura specificamente destinata agli stagisti, anche qui prevedendo un emolumento minimo di 400 euro, di cui 200 li metterà la Regione ma altri 200 i soggetti ospitanti. E poi le promesse fatte in campagna elettorale da due neosindaci, Fassino e Pisapia: il primo in maniera più soft, il secondo con promesse specifiche, si sono impegnati a rivoluzioneranno la gestione dei tirocini all’interno dei propri Comuni, introducendo un rimborso spese. La Repubblica degli Stagisti controllerà che mantengano le promesse. Anche perchè è importante, importantissimo che il pubblico dia il buon esempio. Se invece è la pubblica amministrazione la prima a comportarsi malamente con i suoi stagisti, comprensibilmente l’impresa privata si sentirà autorizzata a fare altrettanto. Faccio solo un riferimento flash al caso dell’Inps e dell’Avvocatura dello Stato che non pagano i giovani che fanno la pratica forense nei loro uffici legali: dal 1° al 24° mese questi praticanti non ricevono un euro, e questo malgrado il Codice deontologico forense prescriva chiaramente che ogni avvocato sarebbe tenuto a erogare al praticante un compenso commisurato all’apporto che il giovane fornisce allo studio. Proprio gli enti pubblici violano i codici deontologici.Quindi, i soldi. Una giusta retribuzione come primo tassello per un riequilibrio generale dell’occupazione. E anche però incentivi fiscali per l’imprenditoria giovanile, e sgravi per i lavoratori autonomi con redditi bassi. Bisogna proteggere i giovani dallo sfruttamento, introducendo un salario minimo per i lavoratori sul modello del minimum wage anglosassone, o dello Smic francese: sono contenta di aver sentito stamattina Stefano Fassina [foto], nella relazione introduttiva di questo convegno, dire chiaramente che questi punti sono parte integrante del Progetto nazionale per l’occupazione giovanile e femminile, che il PD si impegna a sostenere. Personalmente sono anche convinta della necessità di lavorare per la realizzazione dell’idea di contratto unico proposta da Ichino.L’altra faccia della medaglia del lavoro low cost è la necessità di applicare la massima severità nei confronti di chi sfrutta, e si avvale di lavoro gratuito o semigratuito. Perchè purtroppo una legge che prescriva delle regole ma senza introdurre una sanzione in caso di violazione, derubrica immediatamente quelle regole al rango di meri suggerimenti. Bene quindi, in questo senso, di nuovo il ddl Damiano, che introduce sanzioni per chi viola la normativa sullo stage: per le violazioni più lievi prevedendo lo stop temporaneo alla possibilità di accogliere stagisti, per quelle più pesanti obbligando ad assumere lo stagista con un contratto di apprendistato, che è appunto il contratto giusto per la formazione-lavoro. Bene anche la Regione Toscana, che ha basato il suo progetto su un protocollo, condiviso con le parti sociali, per tirocini di qualità. Ma sopratutto è necessario guarire i datori di lavoro, pubblici o privati che siano, dalla miopia: bisogna far capire che sfruttare i giovani, puntare tutta la propria politica sulla riduzione del costo del lavoro, non conviene! Basta con l’ipocrisia della «formazione»: il tempo e l’impegno vanno sempre pagati.Chi osteggia il cambiamento obietta: ma così ci saranno meno posti di stage, meno posti di lavoro. Forse è vero. Ma si può continuare a barattare la qualità con la quantità? Vogliamo dieci stage gratuiti o tre stage ben pagati? Vogliamo dieci contratti a progetto da 600 euro al mese, o quattro pagati 1.500? Io ho scelto, la Repubblica degli Stagisti ha scelto. Nella convinzione che poi non sia nemmeno sicuro che i posti diminuirebbero in maniera così evidente: perchè prima o poi tutti capirebbero che farsi concorrenza sul costo del lavoro è una scelta strategicamente perdente.Solo con dignitose retribuzioni fermeremo l’emorragia di cervelli, attiveremo un sano e ormai imprescindibile ricambio generazionale, rispetteremo la Costituzione. E daremo un futuro alle nuove generazioni.Eleonora Voltolina[testo tratto dall'intervento al convegno «Prima il lavoro» del PD. Genova, venerdì 17 giugno]Per saperne di più su questo argomento: - Urgono nuove regole per proteggere tirocinanti e praticanti: tante idee della Repubblica degli Stagisti nel disegno di legge di Cesare Damiano - La proposta di Ichino per riformare la normativa sugli stage: più brevi e retribuiti. E lunedì 3 maggio la racconta in CattolicaE anche:- Milledodici, ovvero almeno mille euro netti al mese per almeno un anno. Ecco le condizioni minime per offerte di lavoro dignitose- Nelle pagine del Rapporto sullo stato sociale un allarme sulla questione giovanile: e tra 15 anni la previdenza sarà al collasso

Quanti sono gli stagisti negli enti pubblici? Ministro Brunetta, dia i numeri

Diamo una mano al ministro Brunetta. Tra le decine di interrogazioni parlamentari che giacciono senza risposta ce n'è una in particolare che dovrebbe stare a cuore a tutti coloro che sono interessati al mercato del lavoro, all’occupazione giovanile e alle tematiche del pubblico impiego. È quella che all'inizio di aprile - i tempi stretti, si sa, non sono propri della politica e delle istituzioni - Donella Mattesini (PD) ha rivolto al ministro della pubblica amministrazione per chiedergli un semplice numero: quello degli stagisti in forza presso gli enti pubblici italiani. Il dato infatti è sconosciuto. Grazie all'Unione delle Camere di commercio si conosce in maniera abbastanza precisa il numero di persone che ogni anno fanno questo tipo di esperienze nelle imprese private - 322mila nel solo 2009, un dato aumentato addirittura del 41% negli ultimi quattro anni - ma invece quello di chi va negli enti pubblici è ignoto. Punto di domanda. Black out.E allora diamo una mano al ministro Brunetta. Un aiutino, una vocale, la telefonata da casa. Ministro, solo gli studenti universitari che ogni anno fanno stage negli uffici di sua competenza - comuni province e regioni, ministeri, tribunali, università, agenzie ambientali, istituti previdenziali, asl, comunità montane… - sono quasi 80mila. Ci si arriva partendo dai dati Almalaurea, con qualche approssimazione e un pizzico di disinvoltura nell'ampliare il dato alla totalità degli studenti universitari italiani. Un altro aiutino: di tutto l'esercito degli stagisti negli enti pubblici, questi 80mila rappresentano esclusivamente quelli che svolgono tirocini mentre fanno l'università. È plausibile che a fare stage nelle pubbliche amministrazioni dopo la laurea siano altrettanti. Quindi potremmo dire, con buona probabilità, che più o meno 150mila studenti universitari e neodottori dopo la laurea fanno ogni anno stage negli enti pubblici. Oltre a questi, drenati dalle università, è assodato che ce ne siano altre decine di migliaia: innanzitutto la categoria dei diplomati, poi quella dei laureati non "neo", infine quella di chi fa master o scuole di specializzazione che al loro interno, o al termine, prevedono più o meno lunghi periodi di stage "per completare la formazione".E quindi circa 200mila giovani ogni anno entrano negli enti come stagisti, danno una mano, imparano ma spesso anche insegnano - basti pensare alle competenze informatiche che a molti funzionari pubblici difettano - e sopratutto producono. Dalle piccole cose, le fotocopie le relazioni le tabelle excel, alle grandi cose, quando per esempio - e capita, eccome se capita - allo stagista vengono affidati compiti specifici da svolgere in autonomia, perché il personale è poco e il lavoro è tanto. 200mila è però un numero impreciso. Conoscere quello esatto sarebbe utile per molte ragioni, innanzitutto per comprendere meglio il fenomeno: ragionare su un tema conoscendone l'entità è sempre meglio che andare a tentoni. In secondo luogo, per capire quanto gli enti si appoggino sugli stagisti; è cosa nota che, a partire dai tagli e dai bilanci in rosso, gli amministratori della cosa pubblica cercano di reperire risorse là dove costano meno: ed è innegabile che i tirocinanti costino meno, anzi non costino nulla, non avendo diritto allo status di "lavoratori", a uno stipendio, a una prospettiva occupazionale. Tre mesi, sei mesi, talvolta addirittura un anno di stage e poi arrivederci e grazie, del resto si sa che nel pubblico non si assume a chiamata, bensì soltanto tramite concorso. Ed è il mito dell'impiego pubblico, della serie "forse qualcosa ne ricavo, forse mettendo un piede dentro finisco per restare" - per giovani costantemente alla ricerca di un minimo di stabilità, in un mondo del lavoro che offre ben poche certezze - la leva che spinge questo abnorme numero di ragazzi ogni anno ad accettare di lavorare gratis per lo Stato. Perché di questo si tratta.Un altro aiutino, ministro. Solo al ministero degli Esteri attraverso il programma Mae-Crui entrano 1.800 tirocinanti ogni anno. Vergognosamente senza percepire nemmeno un euro di rimborso spese, malgrado vengano sparpagliati per il mondo e finiscano talvolta nelle ambasciate e nei consolati più lontani. Nessun tipo di rimborso, tutto a carico loro, perfino il viaggio, l'alloggio, addirittura l'assicurazione medica indispensabile in quei Paesi dove la sanità è a pagamento. Pensare che basterebbe destinare lo 0,2% del bilancio del Mae a questo scopo, e tutti gli stagisti potrebbero godere di un rimborso spese decente…  Ma questa è un'altra storia, e chiama in causa un altro ministro, il suo collega Frattini. Coraggio, ministro Brunetta. Faccia un censimento degli stagisti negli enti pubblici. È importante per lei per capire cosa succede nella sua parrocchia, è importante per tutti noi scoprire alla fine chi paga i tagli alla pubblica amministrazione... Non sarà mica che, invece di riformarla e renderla più efficiente, si stia semplicemente spostando il peso della carenza e dell’inadeguatezza del personale su giovani di belle speranze ma senza tutele?Eleonora Voltolinapubblicato sul blog del Fatto QuotidianoPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Mae-Crui, la vergogna degli stage gratuiti presso il ministero degli Esteri: ministro Frattini, davvero non riesce a trovare 3 milioni e mezzo di euro per i rimborsi spese?- Rimborso spese per gli stage Mae-Crui, a chi sì e a chi no. La protesta di una lettrice: «Non è giusto: tutti dovrebbero ricevere un sostegno»

Sulla Rete i giovani italiani scalpitano per fare rete: ITalents sbarca su Facebook, ed è boom

Ieri su Facebook è nato un gruppo: ITalents. Sai che novità, dirà qualcuno. E però. Però in un giorno ha superato i 700 iscritti, il che non è proprio scontato quando si coinvolge la gente su temi seriosi – lavoro, meritocrazia, opportunità, impegno civico – e non su sesso, berlusconi o facezie. Però i 700 sono quasi tutti giovani e praticamente tutti entusiasti, propositivi, pronti a lanciare idee e provocazioni, a mettersi a disposizione e a chiedere come fare, in concreto, per collaborare con ITalents. Qualcuno anche un po’ imbarazzato, perchè il termine «talenti» mette quasi soggezione – mentre in realtà la parola va intesa nella sua accezione allargata: non sono ITalents solo i cervelloni o i ricercatori, ma anche i tanti che hanno idee, voglia di fare, di inventare. Settecento persone in un solo giorno, e il numero cresce a vista d’occhio: segno che i giovani italiani scalpitano per fare rete, dare il proprio contributo, combattere per trascinare l’Italia fuori dal declino, dentro il nuovo Millennio. Di per sè, anche ITalents è prima di tutto un’idea. L’idea che l’Italia sia rimasta drammaticamente indietro e che vada con urgenza ripensata, innovata, migliorata. E che questa rivoluzione possa essere compiuta mettendo in connessione e collaborazione i tanti 20-30enni italiani intraprendenti, intelligenti, brillanti che esistono. Sia quelli scappati all’estero sia quelli rimasti in Italia. Lo slogan infatti è questo: chi è dentro non dev’essere un talento sprecato, chi è fuori non si deve sentire un talento esiliato.ITalents è un’associazione non profit, nata all’inizio di quest’anno. Faccio subito coming out: sono fra i fondatori, insieme ai giornalisti Roberto Bonzio (Italiani di Frontiera) Claudia Cucchiarato (Vivo altrove) Piero Di Pasquale (già vicedirettore di Rai International) e Sergio Nava (La fuga dei talenti), al professor Alessandro Rosina (autore di Non è un paese per giovani), all’imprenditore Enrico Castellano (business angels Italian Angels for Growth), a Benedetta Rizzo (think tank veDrò) e Alberto Matassino (associazione TrecentoSessanta).ITalents vuole diventare un «creative energy accelerator», per aiutare la creatività italiana a sprigionarsi e i talenti migliori a emergere. Non è un caso che l’associazione nasca proprio nell’anno in cui si festeggia il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia: l’ambizione è quella di costruire un’”Italia diffusa”, dove più dei confini conti la rete. Con l’obiettivo di un cambiamento prima di tutto culturale: per compiere passaggi importanti – che qualcuno pensa impossibili, sta a noi dimostrare che sbaglia – come quello dalla logica della cooptazione a quella del merito. La meritocrazia, diciamo la verità, non è molto ben vista dalle nostre parti: perchè implica il fatto che passi il più bravo, non il più anziano nè il più ammanicato nè il meglio imparentato, non il più leccapiedi o il più lottizzato o il più raccomandato. E nemmeno il primo in lista d'attesa. Il più bravo, indipendentemente dalla sua età, dall'anzianità di servizio, dalla fedeltà al capo. Un bel triplo salto carpiato rispetto alla logica imperante in Italia, intrisa di gerontocrazia: un carpiato che potrebbe finalmente avviare quel rinnovo generazionale di cui abbiamo un bisogno ormai non più procrastinabile. ITalents vuole coagulare le idee, anche partendo dalle buone pratiche messe in atto all’estero, per ridisegnare un’Italia che offra opportunità alle nuove generazioni, retribuzioni decenti per giovani dipendenti e professionisti, sostegno a chi ha un'idea imprenditoriale e vuole provare a realizzarla. Un'Italia liberata dai meccanismi stantii dell'assistenzialismo e finalmente dotata di sistema di welfare attivo dove tutti i cittadini vengano sostenuti nel loro percorso lavorativo. Un sistema aperto alle novità, dove l’innovazione abbia la meglio sulla conservazione. Scrive oggi Irene Tinagli sulla Stampa, in un editoriale per altri versi meno condivisibile, alcune sacrosante parole rispetto all’atavica paura della novità che si riscontra nel belpaese: «Chiunque in Italia abbia provato a proporre un’idea nuova, in aziende pubbliche o private così come in università o in centri di ricerca, sa cosa significa scontrarsi con quella diffidenza di chi, di fronte a un progetto innovativo, non si chiede quale sia la potenzialità e il contributo al bene collettivo che questo progetto può dare, ma si chiede prima se e come può danneggiare il suo interesse particolare, scalzarlo dalla sua posizione, o se magari può essere usato per indebolire una parte avversa». Contro questo atteggiamento si può e si deve combattere, si può e si deve vincere.Entro l’estate dovrebbe essere pronto il grande sito di ITalents, capace di inglobare tutti i contributi che verranno dai giovani che vorranno entrare a far parte del progetto. Un sito ambizioso come ambiziosi sono gli obiettivi dell’associazione: mettere a disposizione uno spazio aperto, in grado di facilitare le interconnessioni e le relazioni, di funzionare da piattaforma per sviluppare idee e realizzarle concretamente, per proporre soluzioni e innovazioni. ITalents d’Italia, ovunque voi siate, siete tutti invitati a raccogliere la sfida.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su ITalents, guarda il video della presentazione al Festival del Giornalismo 2011