Categoria: Approfondimenti

Come cambia lo stage in Europa: viaggio in Spagna e Portogallo

La crisi influenza il modo in cui viene utilizzato lo stage? I Paesi della Penisola iberica sono tra quelli che più hanno accusato il colpo della depressione economica - che anzi in Spagna rischia di degenerare in default - eppure, come dimostra l'indagine pubblicata a maggio dalla Commissione europea, qui gli stagisti (e i lavoratori) godono di diritti e tutele assenti in contesti più floridi. In Spagna il tasso di criticità è altissimo: un giovane su due non lavora, i Neet sono due milioni e mezzo (un quinto degli under 29) e quasi uno studente su tre abbandona precocemente gli studi, tanto da richiedere un piano nazionale ad hoc. Dal Fondo "salva Stati" sono da poco partiti 100 miliardi di euro di finanziamento (a cui l'Italia contribuisce per il 17%).Lo stage però gode da tempo di diverse tutele, che la crisi ha scalfito solo in parte. Innanzitutto, pur mancando una normativa specifica, questo strumento è regolato da due testi: la riforma del sistema formativo professionale del 2002, destinata soprattutto ai giovani con bassi livelli di istruzione; e la Ley orgánica de la educación, in vigore dal 2009, che norma stage universitari, di inserimento e riqualificazione. La Formaciòn en centro de trabajo, gratuita, riguarda gli studenti delle superiori tra i 16 e i 18 anni ed è indispensabile per acquisire un diploma tecnico. Gli stage universitari si possono invece dividere grossomodo in due categorie, a seconda che esista o meno una convenzione - con contenuti simili a quella italiana, recentemente riformati. Chi ha acquisito almeno la metà dei crediti previsti può accedere, se vuole, a uno dei becas de convenios de cooperación educativa, concordati tra istituzione formatrice e aziende, che il più delle volte prevedono un contributo. Beca appunto, «borsa di studio», che per estensione è arrivata ad indicare lo stesso stage. Ogni anno lo fanno in circa 150mila universitari; ma il report non dà indicazioni sul contributo. Ce ne sono di diversi tipi: ad esempio i Becas de administraciones pùblicas, anch'essi finanziati, si svolgono negli enti pubblici (ma dal report pare riguardino solo 400 persone all'anno, un numero irrisorio rispetto alle decine di migliaia delle stime italiane); mentre quelli de collaboraciòn sono per studenti senior che fanno esperienza nella loro stessa università. I becas unitalerales invece sono offerti direttamente dalle imprese al laureato e non prevedono convenzione. Non a caso è qui che si registrano più spesso episodi di abuso. Un apposito ufficio del ministero del Lavoro è chiamato a vigilare sui 30mila percorsi attivati ogni anno, ma le ispezioni sono ritenute insufficienti. In compenso, anche per questo tipo di percorso «è previsto un finanziamento pubblico». Di nuovo non pervenuto.Infine, insieme all'equivalente del nostro praticantato, ci sono due veri e propri contratti di lavoro, più o meno sovrapponibili all'apprendistato professionalizzante e a quello di alta formazione italiani. Il Contrato para la formación è riservato a studenti di corsi professionali di età inferiore ai 25 anni (prima la soglia era 21) e dura da uno a tre anni. La retribuzione è proporzionale al tempo di lavoro e comunque mai inferiore al salario minimo interprofesional, che in Spagna ammonta a circa 21 euro al giorno. Il Contrato en prácticas, riservato a neolaureati fino a 29 anni, dura invece da sei mesi a due anni. La retribuzione non scende al di sotto del 60% (durante il primo anno) e del 75% (secondo) del salario minimo. Nel 2010 i giovani che hanno firmato queste forme contrattuali sono stati in tutto 110mila, quasi 60mila in meno in tre anni. Dagli indignados spagnoli alla «generazione disperata». Così si definiscono i 300mila giovani portoghesi che a fine 2011 sono scesi in piazza per reclamare il loro diritto a un futuro. Nella fascia 25-29 anni il tasso di disoccupazione in Portogallo non è a livelli critici (14%), ma un terzo degli under 34 anni è precario, con numeri in vistoso aumento; come aumenta quello delle false partite Iva (recibos verdes), che riguarda 77mila professionisti. Il paradosso è il solito: più alto è il livello di istruzione, più difficile diventa trovare lavoro. Il tempo medio di attesa per i trentenni supera addirittura i due anni. D'altra parte «per contrastare gli effetti della crisi il governo ha aumentato gli investimenti sullo stage», avviando molti programmi nazionali. Tutti fanno riferimento ad un decreto del 2009 che riserva questo strumento ai giovani fino a 35 anni (nessun limite è posto invece per i disabili) in cerca di prima occupazione e che abbiano almeno un diploma. Nel 2008, ad esempio, l'Iniziativa per l'investimento e l'impiego ha impiegato 100 milioni di euro e coinvolto 40mila giovani; ma il programma di maggior spicco è l'Inov, dell'istituto Iefp, l'Instituto do emprego e formação profissional, articolato in diverse misure (Inov Jovem, Art, Export, Contacto), a seconda di destinatari e settori di stage. Gli stagisti Inov ricevono fino a 838 euro al mese, a cui  si possono aggiungere anche dei benefit sociali, e le aziende che li  assumono ricevono un bonus monetario variabile da programma a programma. A livello pubblico si dispone di dati numerici piuttosto precisi, mentre rimane difficile stimare quanti tirocini sono stati avviati in ambito privato. Il primo anno di sperimentazione, nel 2006, l'Inov ha contato meno di mille partecipanti, per poi passare a 3mila due anni dopo e addirittura a 8.400 nel 2009: +400% in tre anni. In particolare l'"Inov Contacto", destinato ai laureati al loro primo impiego, ha collocato la metà dei suoi stagisti dal 2005 al 2008, in parte anche all'estero. E si è guadagnato un posto tra le best practices. Anche più alti i numeri del Youth Placement Program (Programa Estágios Profissionais), pensato per trentenni in cerca di primo impiego e under 36 disoccupati, che ogni anno raccoglie circa 20mila adesioni. Dati recenti dello Iepf riferiscono che nell'ultimo decennio in 170mila hanno beneficiato del programma, e di questi quasi quattro su cinque sono stati assunti. «La ragione del successo» spiega il report «è vista nel cofinanziamento pubblico». Trattandosi appunto di soldi pubblici, sarebbe stato opportuno rendere note le cifre: in questo il focus portoghese, come quello spagnolo - entrambi a cura del nostro Irs, l'Istituto per la ricerca sociale - appaiono piuttosto carenti, forse anche per oggettiva difficoltà di reperimento dei dati. Annalisa Di Palo Per saperne di più, leggi anche: - Paese che vai, stage che trovi: maxi report della Commissione europea- Nuova risoluzione Ue, regolamento europeo sugli stage più vicino

Il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, un problema sottovalutato

Piastrellisti, carpentieri, camerieri, meccanici, parrucchieri. Sono alcune delle professioni meno ambite in Italia stando ai dati messi in luce da una recente indagine di Confartigianato, in base alla quale circa il 65% delle offerte di lavoro che riguardano mestieri artigianali rimane pressoché ignorato. Stessa sorte anche per ciabattini, mulettisti o infermieri, introvabili secondo altri dati pubblicati da uno studio di Fondimpresa del Veneto. Da un'indagine del senatore Pietro Ichino, molto impegnato su questo tema, emerge come gli skill shortages - ovvero i posti di lavoro che restano scoperti per mancanza di manodopera dotata della qualificazione necessaria per occuparli - sarebbero addirittura 117mila, sparsi in tutte le regioni italiane e distribuiti in tutti i settori (censimento di Unioncamere nel 2011). Un problema sottovalutato in Italia, che tecnicamente viene definito mismatch tra domanda e offerta di lavoro. In pratica, nonostante i numeri allarmanti sulla disoccupazione crescente specialmente tra i giovani, si verifica il paradosso per cui migliaia di posti di lavoro rimangono vuoti. Gli annunci non trovano risposta e le aziende rinunciano a cercare. C'è ovviamente chi mette in guardia dalla scorciatoia di accusare i giovani di presunzione o "snobismo" verso lavori considerati poco gratificanti, sottolineando quanto sia comprensibile che una persona, a cui è stato "venduto" il sogno di una laurea e l'aspirazione a un'occupazione intellettuale in linea con le proprie attitudini, storca il naso di fronte a mansioni che avrebbe potuto svolgere anche senza passare per un ateneo. Innegabilmente è uno spreco per la società mandare a vuoto una risorsa meritevole e competente, costringendola a svolgere un mestiere per il quale non è necessario il grado di istruzione ottenuto. La questione ha infatti diverse sfaccettature e non si limita alla giacenza di posti di lavoro di natura manuale. Da una recente pubblicazione dell'Isfol emerge non solo un generico problema di mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro, ma anche di un educational mismatch, ovvero di «mancata corrispondenza tra livello di istruzione raggiunto e quello richiesto da un'impresa», oltreché di skill mismatch, vale a dire di «mancata corrispondenza tra le abilità di un individuo e quelle richieste dall'azienda». Insomma non si tratta solo di non riuscire a trovare giovani disposti a dedicarsi a impieghi manuali, forse perché cresciuti nel falso mito della superiorità dei lavori intellettuali o della poca dignità di quelli in cui si utilizzano le mani. Si ha a che fare con uno sfasamento più profondo, che inficia tutto il mercato del lavoro a vari livelli. Come appunto il caso dell'overeducation, ovvero di quando si viene assunti per svolgere un impiego per il quale è richiesto un grado di istruzione inferiore.  I dati a cui si riferisce il rapporto Isfol risalgono al 2009 (non sono numerosissimi gli studi sull'argomento), e rivelano come in Italia ci sia uno degli scarti minori tra diplomati e laureati occupati rispetto agli altri Paesi europei. Se da noi circa il 74% di chi possiede un diploma ha un impiego e chi dispone di istruzione universitaria lavora nel 77% dei casi, in Francia la differenza è di almeno cinque punti percentuali in più mentre supera i dieci punti in Germania. La media Ue è in generale del 10% in più di occupabilità per chi ha un titolo universitario. A fronte di ciò, in Italia sono quattro laureati su dieci a essere interessati dal fenomeno del mismatch, dati che fanno concludere ai ricercatori dell'Isfol che «il possesso di un titolo universitario non implica necessariamente l'accesso a occupazioni di rango tale da ricompensare l'investimento in istruzione effettuato». Per non parlare poi di un'altra caratteristica squisitamente italiana: la carenza di personale qualificato in posti di lavoro di alto livello rispetto alla media internazionale. Il 19% della totalità dei posti di lavoro risulta 'qualificato', e di questi solo il 54% è ricoperto da persone con istruzione universitaria. In Spagna sono il 75% (su un totale di occupazioni qualificate pari al 20%), in Francia e in Germania il 70. La recessione economica mette tutti nelle condizioni di essere più pragmatici. E allora, se è la concretezza l'obiettivo, forse anche il sistema dell'istruzione andrebbe riformato e adeguato alle richieste del mercato del lavoro. E i ragazzi andrebbero indirizzati da subito, da giovanissimi, prospettando loro quali sono le effettive possibiltà di impiego una volta che si affacciano al mercato del lavoro. Così facendo, si andrebbe peraltro incontro alle richieste dei giovani: quasi il 60% di quelli intervistati da Eurobarometro nel 2011 ritiene molto utile l'orientamento ai fini della ricerca di un'occupazione. In una recente intervista Ichino ha ricordato l'importanza delle agenzie private di outplacement, a fronte di servizi pubblici per l'impiego spesso incapaci di svolgere questo compito. «Oggi in Italia sono poco utilizzate, perché non abbiamo ancora maturato la cultura dell’assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca dell’occupazione; ma ci sono anche da noi, e funzionano bene. Certo, i servizi di outplacement costano cari: mediamente, l’equivalente di cinque o sei mensilità dell’ultima retribuzione del lavoratore interessato. Ma sempre meno della cassa integrazione “a perdere”». Ichino ipotizza anche una possibile opzione per i fondi: «Potrebbe essere utilizzato anche quel 60% dei contributi del Fondo sociale europeo che spetterebbero all’Italia, ma che finora non siamo stati capaci di utilizzare per inadeguatezza delle nostre iniziative nel mercato del lavoro rispetto ai requisiti di efficienza ed efficacia giustamente posti dal Fondo stesso». Senza contare le possibili ricadute di questi giacimenti di lavoro sugli inattivi, chi né studia né lavora: «Tali qualifiche sarebbero accessibili agevolmente da quasi tutti i nostri Neet; ma nessuno li informa, né dell’esistenza di questa possibilità di lavoro, né dei canali formativi disponibili per raggiungerla. E non è solo questione di mancanza di buona informazione: ai nostri giovani forniamo informazioni sbagliate, che li inducono a compiere scelte sbagliate». Una distorsione grave, a cui porre rimedio al più presto. Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Meritocrazia, una notte per convincere i giovani a crederci (e le aziende a metterla in pratica)- Disoccupazione giovanile, la vera emergenza nazionale: l'SOS di Italia Futura e le interviste a Irene Tinagli e Marco Simoni- Istat, pubblicato il nuovo rapporto sull'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro: situazione preoccupante sopratutto al Sud

Yalla Yalla, la start-up che fa viaggiare tutta la Rete

Il settore delle vacanze in Italia? «È ancora molto off-line, ma ci sono possibilità di miglioramento e di crescita». Per sfruttarle nel 2010 il 32enne Manuel Mandelli ha trovato in un "senior", Paolo Pezzoli, il socio ideale per dare vita a Yalla Yalla, agenzia di viaggio con sede a Rimini capace di arrivare, nel giro di poco più di un anno, ad un fatturato di oltre 10 milioni di euro.Dopo la laurea in finanza nel 2004 all'università Bocconi di Milano, Manuel ha iniziato subito a lavorare nel settore del turismo. «Terminati gli studi sono entrano come stagista nel gruppo Ventaglio, dove poi sono stato assunto a tempo determinato, per poi diventare direttore finanza e controllo. Nel 2007 ho lasciato per diventare amministratore delegato di Value Group, realtà che opera nel comparto turistico». Nel 2010 l'incontro con Pezzoli, che allora aveva 50 anni e una lunga carriera di imprenditore alle spalle - avendo già fondato un'azienda di animazione nei villaggi, un tour operator e per ultima, nel 1998, Easymarket (poi ceduta nel 2005 al gruppo Tui Travel).«Ci ha presentati un conoscente comune», ricorda Mandelli, «parlando ci siamo resi conto che avevamo le stesse idee sul mercato e su come sarebbe dovuto evolvere: avevamo chiaro il fatto che le persone hanno la necessità di andare in vacanza, un bisogno al quale difficilmente rinunciano». Anche in un momento difficile, come dimostrano i risultati ottenuti da Yalla Yalla proprio nel mezzo della crisi economica. Per ritagliarsi uno spazio all'interno del mercato, i due imprenditori hanno ribaltato il concetto seguito da tutti gli operatori Internet, che presentano offerte vantaggiosissime. Il punto è che «si parte da prezzi molto bassi e poi alla fine, aggiungendo diverse clausole, si arriva ad un altro. Molto più alto di quello di partenza». Una brutta sorpresa che i due imprenditori non riservano ai loro clienti: «Noi facciamo vedere, da subito, il prezzo finale. E questo, nel 2010, non era così scontato». La scelta si è rivelata vincente visto che «dopo aver lanciato il nostro sito, abbiamo visto che i nostri concorrenti si sono allineati».Il progetto legato a questa agenzia di viaggi online è partito subito in grande. La start-up è nata infatti come società per azioni e ha raccolto un capitale pari a 1 milione e 825mila euro. Mandelli e Pezzoli hanno rispettivamente il 31,8% e il 29,7% e hanno saputo coinvolgere altri due soci nel loro progetto: il fondo Vam Investments e il fondatore di Venere.com Matteo Fago, rispettivamente col 30,1% e l'8,4% delle quote. «Questi capitali ci hanno portato a raggiungere il pareggio prima di cominciare, permettendoci di investire in marketing per finanziare la crescita dell'azienda». La diffusione del marchio è passata innanzitutto da Google search: si è trattato di ottimizzare il sito in modo che apparisse tra i primi risultati forniti dal motore di ricerca. Quindi è approdata sui social network come Facebook e Twitter, fino ad arrivare proprio in queste settimane a lanciare una campagna pubblicitaria in televisione. «Il passo successivo è stato quello di stringere accordi di collaborazione con grandi portali di viaggio: LastMinute, sul cui sito vendiamo le nostre vacanze, e TripAdvisor, sul quale offriamo i nostri prezzi nelle pagine dedicate agli hotel recensiti dagli utenti», spiega Manuel.Non solo. Guardando all'esperienza di mercati online più evoluti di quello italiano, come quello anglosassone, sono state introdotte iniziative di marketing per attirare potenziali clienti: «Abbiamo il 'save the date', una giornata in cui vengono effettuati forti sconti». Oppure  particolari promozioni, come quella dello scorso mese di maggio, che offriva gratuitamente l'assicurazione in caso di annullamento del viaggio. E che a giugno è diventata un buono per parcheggiare gratuitamente in aeroporto. Grazie a queste iniziative Yalla Yalla è cresciuta in fretta, arrivando a dare lavoro a venti persone, «la maggior parte a tempo indeterminato, più qualche contratto di apprendistato. E con un'età media di 30 anni». Tra questi ci sono anche  stati due stagisti, poi inseriti in organico al termine del periodo di tirocinio.E con i 10 milioni di euro del fatturato 2011? «Sul fronte operativo eravamo al pareggio, ma abbiamo deciso di investire 600mila euro per farci conoscere, chiudendo così con un disavanzo». Quest'ultimo investimento si sta però rivelando lungimirante, visto che per il 2012 si prevede un fatturato tra i 25 ed i 30 milioni. «Quest'anno gli investimenti pubblicitari saranno due o tre volte superiori rispetto al passato e per dicembre dovremmo riuscire a raggiungere il pareggio». C'è voglia di crescere ancora, insomma. Del resto è il nome stesso dell'azienda che incita a non fermarsi: «Eravamo in Nord Africa e c'era questo ragazzino che vendeva giocattoli. Per attirare l'attenzione ripeteva 'yalla, yalla', che significa 'vai, vai'. L'idea è stata di Paolo». In effetti non poteva esserci nome più adatto per un'agenzia di viaggio.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Liber Aria, in Puglia una start-up sfida il mercato editoriale- Sardex, la start-up con la valuta virtuale che fa girare l'economia- Timbuktu: è italiano il magazine per bambini più scaricato dall'Apple Store- ApparatiEffimeri, la pubblicità giovane si proietta sugli edifici- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Liber Aria, in Puglia una start-up sfida il mercato editoriale

Liber Aria. Perché «libero richiama i libri, aria è perché lavoriamo in rete. E poi è l'anagramma di libreria. E ancora perché siamo indipendenti, e in questo nome c'è la matrice della parola libertà». Giorgia Antonelli spiega così la scelta di battezzare Liber Aria la casa editrice online nata come associazione culturale nel 2008 e trasformata in srl nel novembre del 2011.Pugliese, 32 anni, questa giovane startupper vanta un curriculum accademico di tutto rispetto: una laurea in lettere ad indirizzo storico-sociale all'università di Bari, un dottorato di ricerca in storia contemporanea concluso nel 2008, quindi l'abilitazione all'insegnamento alla Ssis, la scuola di specializzazione all'insegnameno secondario chiusa nel 2009 e sostituita dal Tfa, il cosiddetto tirocinio formativo attivo. Ed è appunto presentandosi in classe che riesce ad ottenere uno stipendio. Per ora dalla sua start-up non ricava nulla, ma assicura i pagamenti ai suoi collaboratori. «In quest'ultimo anno scolastico ho lavorato grazie al bando regionale 'Diritti a scuola', che prevede l'affiancamento dei precari ai docenti di scuola. Ho ottenuto 12 punti in graduatoria e inoltre sono stata pagata», racconta.Alla regione Puglia Giorgia deve anche la nascita della sua casa editrice. «Nel 2008 ho partecipato, insieme alla mia amica Maya Calamita, a 'Principi attivi', un'iniziativa che offriva un contributo di 25mila euro a giovani che volessero lanciare un'attività». Si tratta di un progetto che rientra in 'Bollenti spiriti', il programma regionale di politiche giovanili. A questo proposito, è aperto il bando 2012: gli aspiranti startupper pugliesi hanno tempo fino al 19 ottobre per partecipare. Ottenuto il finanziamento, «abbiamo dato vita ad un'associazione culturale che si occupava di editoria online e print on demand, ovvero la possibilità di ordinare un libro e di farsi recapitare a casa la copia stampata». Il progetto regionale ha avuto la durata di diciotto mesi, passati i quali è stato necessario presentare un rendiconto delle attività svolte. «Per un po' sono andata avanti con l'associazione, poi ho deciso di provare a farne un lavoro: tanto ero una precaria della scuola e della ricerca». E siccome un'associazione non può emettere fatture di vendita, è stata creata una srl: «la mia socia aveva un altro lavoro e ha deciso di non far parte di quest'impresa, nata ufficialmente nel novembre del 2011». E così Giorgia ha cominciato quest'altro percorso da sola.Per versare i 10mila euro di capitale sociale e per finanziare le prime attività «ho chiesto un prestito ad un familiare e mi sono impegnata a saldare il debito con i primi guadagni». Dopo la fondazione, «siamo partiti con i Singolari, ovvero racconti che si possono acquistare in rete come si fa con le canzoni, pagandoli 49 centesimi», racconta Giorgia, «a settembre, però, arriveranno anche i libri, sia in forma digitale che sul tradizionale supporto cartaceo». Nonostante debba ancora compiere un anno di vita, l'azienda si è già strutturata dando lavoro a tre persone. Intanto la responsabile dell'amministrazione, che ha un contratto a tempo indeterminato. «Ho potuto farlo perché aveva dei requisti che lo consentivano, visto che si tratta di una donna che era disoccupata da tempo», spiega la startupper. Che in tema di lavoro ha le idee chiare: «io vorrei che ci fossero delle politiche di sostegno alle aziende, che prevedano sgravi per chi assume».Oggi non ce ne sono, fatto salvo quelle per le persone disoccupate da almeno due anni, e così la responsabile editoriale e quello dell'ufficio diritti sono assunti con un contratto a progetto. E poi c'è la responsabile grafica, che ha una partita Iva. Tra il personale e i costi di gestione - il nuovo sito lanciato a maggio ha inciso per qualche migliaio di euro - le spese sostenute si aggirano ad oggi intorno ai 30mila euro l'anno. La previsione definitiva si avrà con la chiusura del bilancio 2012, il primo anno completo di attività di Liber Aria. Le cui spese salgono anche perché «noi non facciamo editoria a pagamento: non sono gli autori a pagare per essere pubblicati, ma siamo noi a garantire loro un compenso». Oltre ad essere costoso, questo meccanismo «richiede una selezione più rigida delle opere». Almeno a livello promozionale però si cercano soluzioni meno onerose come l'utilizzo dei social network. Liber Aria è presente infatti sia su Twitter che su Facebook. «Il 20 maggio abbiamo organizzato una festa per la presentazione del nuovo portale, stiamo lavorando anche per avere delle presentazioni delle opere dei nostri autori e per ottenere delle recensioni dei nostri libri».Per diventare imprenditrice, però, non bastano passione e inventiva. «La mia tesi era dedicata alla Comunità europea, quindi qualche elemento di economia l'avevo. Diciamo che mi sono fatta le ossa scontrandomi con le cose reali: i pagamenti, il commercialista, il bilancio». Per approfondire al meglio tutti gli aspetti di una casa editrice «nel 2011 ho frequentato un corso sull'amministrazione e la gestione organizzato dalla Minimum Fax». Un'esperienza importante prima di fondare l'azienda. Ed è stato su questi banche che Giorgia ha imparato che «per ora il pareggio lo calcoliamo libro per libro, non abbiamo ancora la forza per un piano editoriale complessivo. Dovremo avere anche i libri cartacei per capire quando raggiungeremo il break even, credo che lo vedremo il prossimo anno».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Sardex, la start-up con la valuta virtuale che fa girare l'economia- Timbuktu: è italiano il magazine per bambini più scaricato dall'Apple Store- ApparatiEffimeri, la pubblicità giovane si proietta sugli edifici- Dalla pianta di jatropha il seme di una start-up, anzi due- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Coworking: quando i freelance condividono spazi, spese e progetti

Da alcuni anni una piccola rivoluzione sta interessando il mondo del lavoro autonomo: il coworking. Dalla semplice condivisione di spazi alla creazione di una vera e propria rete professionale ma soprattutto sociale, gli uffici a tempo si affermano come antidoto alla crisi. Il comune di Milano, nell'ambito della rassegna "Verso - Fondata sul lavoro" che si è conclusa pochi giorni fa, ha organizzato un incontro dedicato ai professionisti e alle imprese per fare il punto della situazione sui modelli di coworking già attivi in città e per confrontare le loro esperienze e proposte con quelle di altri professionisti provenienti da tutta Italia e dal resto d’Europa. L'obiettivo del comune, attraverso l'impegno dell'assessore alle politiche del lavoro Cristina Tajani e di Renato Galliano direttore del settore innovazione economica e università, è aprire un tavolo di lavoro che consenta alla pubblica amministrazione di sostenere queste nuove iniziative e capire se l'aiuto deve essere rivolto sul fronte della domanda - i coworkers - oppure dell'offerta - gli spazi che offrono le postazioni di lavoro. Ma cos'è il coworking e come funziona? Ci sono diversi modi per organizzare e pensare la condivisione del lavoro.I precursori furono, nel 2008, Massimo Carraro e Laura Coppola, rispettivamente copywriter e art director dell’ agenzia di pubblicità Monkey Business, che in via Ventura, nello storico quartiere di Lambrate a Milano, aprirono il primo ufficio in condivisione della città, Cowo, semplicemente per fornire una sedia e una connessione a internet a tutti quei freelance che soffrivano l'isolamento della propria professione. «Non siamo un incubatore di start up o un business center, vogliamo solo essere uno spazio dove persone che fanno lavori diversi entrano in contatto fra loro, creando magari nuove occasioni professionali e collaborazioni trasversali» spiega Carraro «Con 200 euro al mese più Iva mettiamo a disposizione una postazione singola- ce ne sono 7 disponibili nella sede di via Ventura 8- a cui avere accesso 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Per 500 euro al mese, Iva esclusa, si affitta una delle due stanza intera disponibili. Siamo anche attrezzati alla ricezione in drop-in, solo qualche ora saltuariamente». In poco tempo Cowo ha esteso il suo raggio d'azione su tutto il territorio nazionale. Chiunque abbia uno spazio o delle postazioni libere in ufficio può affiliarsi al marchio versando quote di associazione a partire da 250 euro più Iva e aprire un nuovo centro. Secondo le analisi di Carraro, le transazioni economiche che ogni anno interessano un progetto di coworking delle dimensioni raggiunte da Cowo -presente in più città e in ben 13 regioni-  si aggirano intorno ai 400 mila euro, una cifra interessante se si considera che non sono richiesti particolari investimenti iniziali. «Al netto dei costi non si diventa ricchi facendo coworking, ma il ritorno in termini umani è un'esperienza piú che arrichente» ha aggiunge Alberto Masetti - Zannini presidente e fondatore di Hub Milan, associazione ed srl  con due dipendenti, aperta dal 2010 che si ispira al modello di Hub nato a Londra già nel 2005. Hub Milan, nella sua sede di via Paolo Sarpi è sia uno spazio dove trovare una scrivania per lavorare, sia un acceleratore di progetti e idee per nuovi imprenditori sociali. «Vogliamo includere nelle esperienze di condivisione imprenditori, operatori del non-profit, liberi professionisti e giovani studenti, creativi ed esperti d’informatica, chiunque voglia portare la propria idea per realizzare progetti che abbiano un intento sociale, ambientale e sostenibile» dice Masetti-Zannini. Dalla matrice internazionale di Hub Milan, al dibattito è stata presentata anche l'esperienza francese di La Cantine, primo spazio di coworking nato a Parigi nel 2008 all'interno dell'associazione di aziende "Silicon Sentier" che oggi vanta numeri importanti: oltre 300 coworker, 1.600 eventi organizzati nel 2011, più di 70 mila visitatori, un giro d'affari di quasi 400 mila euro - a conferma delle analisi di Massimo Carraro- facilitati con finanziamenti per metà provenienti dall'Unione Europea, per l'altra metà dal sostegno del comune di Parigi e della regione île-de France. Una delle caratteristiche che accomuna questi spazi è anche l'intento di renderli luoghi di partecipazione attiva, dove conciliare il lavoro con momenti di svago e ritrovo oppure con le incombenze della vita familiare. Con questo scopo nascerà il prossimo novembre Piano C, da un'idea di Riccarda Zezza, ex manager di banca, che ha pensato ad una nuova idea di coworking al femminile, dove le donne potranno trovare un aiuto non solo professionale, che viene dal fare network, ma anche personale, come asili, servizi di spesa a domicilio, corsi per il benessere: tutti servizi messi a disposizione dalla struttura ospitante le coworkers.Tanti modi per fare coworking ed essere coworkers, fra gli altri partecipanti al dibattito anche: Tag di Brescia, sempre a Milano Make a cube, Atelier dell'innovazione, We fab e Toolbox Office di Torino. «Per tutti è importante ricevere il sostegno e il riconoscimento da parte delle istituzioni» riflette Dario Banfi, membro di Acta (associazione consulenti del terziario avanzato):«Se è vero che i coworking hanno una valenza sociale per l’azione di riaggregazione che stanno esercitando intorno a un mondo di lavoratori piuttosto abbandonati dalle politiche sociali, da Milano può partire un messaggio simbolico, in vista anche dell'Expo 2015, che ospiterà i nomad workes provenienti da tutto il mondo». Tavolo aperto quindi per il comune di Milano e appuntamento all’autunno, con la terza Cowoking Conference europea che si terrá a Parigi tra l' 8 e il 10 novembre.Lorenza MargheritaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Milano si impegna per attrarre i cervelli in fuga- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire

Tra burocrazia e ritardi, l'impresa a 1 euro resta ferma al palo

La società semplificata a responsabilità limitata resta incagliata nella burocrazia. Il ministero della Giustizia non ha infatti ancora definito il modello standard di statuto societario - e non è chiaro se l'abolizione del limite di età deciso con il decreto Sviluppo, ora al vaglio del Parlamento per la conversione in legge, possa incidere o meno sul percorso di attivazione della cosiddetta «impresa a 1 euro». Il risultato è che, a sei mesi dalla sua approvazione, nessuno ha ancora potuto approfittare di una norma voluta (e sbandierata) dal governo con l'obiettivo dichiarato di favorire l'imprenditoria giovanile.A metà giugno la Repubblica degli Stagisti si era occupata della questione, raccontando di come l'iter si fosse bloccato. Entro il 25 maggio il ministero della Giustizia avrebbe dovuto definire il modello standard dello statuto societario, in pratica un modulo prestampato da compilare all'atto della costituzione dell'azienda. In questo modo, riducendosi per i notai l'impegno, sarebbero calati anche i costi per gli aspiranti imprenditori. Via Arenula, però, si è mossa in ritardo. Proprio lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto emanare il decreto, il dicastero lo ha inviato al Consiglio di Stato per un parere. La magistratura amministrativa ha esaminato la questione il 7 giugno, rendendo note le proprie conclusioni una decina di giorni dopo.Due i rilievi: il primo riguarda la necessità di acquisire il concerto del ministero dello Sviluppo Economico. In pratica, il CdS rileva come la norma preveda che siano i tre ministeri coinvolti – il terzo è quello dell'Economia – ad emanare «in concerto» il decreto attuativo. Il punto è che non è stato il ministro Corrado Passera ad esprimere l'adesione al modello standard di statuto. Semplicemente, un funzionario di questo dicastero ha confermato, lo scorso 15 maggio, l'adesione al progetto. Una formula ritenuta insufficiente dal Consiglio di Stato che – questa la seconda osservazione – ha anche suggerito una nuova formulazione per l'articolo 1 del decreto attuativo dedicato al modello standard di statuto societario.Cavilli burocratici che, per quanto mettano il testo al riparo dai vizi di forma, stanno rallentando l'applicazione della norma sulla ssrl. La Repubblica degli Stagisti ha contattato più volte l'ufficio stampa del ministero della Giustizia, chiedendo se il parere del CdS sarebbe stato recepito e, nel caso, quale sarebbe stata la tempistica prevista per l'emanazione del decreto. L'ufficio stampa non è stato però in grado di fornire una risposta, a causa del fatto che l'ufficio legislativo opera senza una guida da quando lo scorso 7 giugno l'ex responsabile Augusta Iannini è stata eletta dal Parlamento alla vicepresidenza dell'autorità garante per la privacy. Allo stesso modo non è stato possibile chiarire se l'iter di conversione in legge del decreto Sviluppo, che ha esteso la possibilità di dar vita a una ssrl anche agli over 35, possa in qualche modo rallentare ulteriormente la definizione del modello standard di statuto societario, ultimo tassello mancante nel mosaico disegnato dall'esecutivo per definire la società semplificata a responsabilità limitata.Poca fortuna ha avuto anche Amalia Schirru del Partito Democratico, che già a fine maggio aveva presentato un'interrogazione per chiedere al governo chiarimenti rispetto alla tempistica di definizione dei provvedimenti necessari a permettere la creazione delle ssrl. Lo scorso 11 giugno la deputata sarda ha ricevuto una risposta firmata da Marcella Panucci, capo della segreteria del ministro Paola Severino. Risposta ben poco esauriente, in cui si legge solo un'informazione scontata - cioè che il 25 maggio il ministero ha trasmesso la documentazione al Consiglio di Stato per un parere - e una rassicurazione generica circa una «rapida approvazione del decreto» una volta ricevuto il pronunciamento del CdS.Nonostante le promesse, però, dopo quasi un mese ancora nulla si è mosso. «Ci aspettavamo la messa in atto del regolamento» dice alla Repubblica degli Stagisti la Schirru «ma non ci sono novità rispetto a questo provvedimento. Non vorrei che  siccome nel decreto Sviluppo di modificano i criteri del limite di età, questo comporti un ulteriore allungamento dei tempi». L'auspicio è che «si trovi una soluzione entro luglio: parliamo di crescita e ripresa economica, ma mettendo continuamente cavilli rimaniamo in ritardo su tutto». Senza che nemmeno si riesca a capire quanto tempo ci vorrà prima che la Ssrl esca dalle secche della burocrazia.Riccardo SaporitiSe hai trovato interessante questo articolo, leggi anche:- Che fine ha fatto l'impresa a 1 euro per i giovani? Incagliata nella burocrazia- Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireE anche:- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa- Non più bambini, oggi le Cicogne portano babysitter- Matteo Achilli e Davide Cattaneo, due giovani imprenditori si raccontano

La riforma del lavoro porterà più lavoro ai giovani? Secondo Pietro Ichino sì

La legge numero 92/2012 che introduce la riforma del mercato del lavoro entrerà in vigore dal 18 luglio. Ma riuscirà davvero a ridurre la disoccupazione e correggere quelle deformazioni strutturali che impediscono a migliaia di giovani di trovare lavoro e di essere «mobili» nel mercato? Il senatore Pietro Ichino, intervenuto all’inizio di luglio a Milano al convegno «La riforma del lavoro: che cosa c’è, cosa manca, luci e ombre» organizzato dagli studi di giuslavoristi Ichino-Brugnatelli e Lablaw, è convinto di sì. Il problema principale è che il mercato del lavoro italiano sembra favorire la mobilità solo di chi è già in possesso di un’occupazione, rendendo difficile l’assorbimento di chi si affaccia al lavoro e di chi è disoccupato. Da uno studio dell'Ocse del 2008 sui flussi mensili tra disoccupazione e occupazione, l'Italia è emersa come il paese con il tessuto produttivo più vischioso poiché la mobilità dei lavoratori riguarda per lo più chi un lavoro lo ha già. Nel 2011, nonostante la crisi, sono stati firmati circa dieci milioni di contratti, di cui quasi due milioni a tempo indeterminato: si tratta però di opportunità offerte a persone “migranti” da un’azienda all’altra, e in misura infinitesimale a inoccupati e disoccupati. Gli interventi apportati dal governo in materia di licenziamenti mirano a sbloccare questo "circolo causale" come spiegato da Ichino: «Se il mercato del lavoro non permette a chi ne è rimasto fuori di rientrare con facilità, il licenziamento causa un danno maggiore e il controllo giudiziale si fa più severo, pertanto le aziende sono costrette a  conservare i posti di lavoro anche se la produttività dei lavoratori è diminuita». Accantonata l'idea di un modello di contratto unico e di flexsecurity a causa delle pressioni generate dal disaccordo tra associazioni sindacali e datoriali, il governo ha scelto, in materia di licenziamenti, di passare in generale per tutte le aziende da un regime di «property rule» basato sulla reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa o giustificato motivo (in sostanza si tratta della “tutela reale” prevista attualmente dall’art.18 della legge 300/1970 per aziende con più di 15 dipendenti), ad un sistema di «liability rule» che prevede la corresponsione di un indennizzo economico al lavoratore ingiustificatamente licenziato.Ma se il dibattito sui licenziamenti si concentra sulle conseguenze che si generano all’uscita dal mercato del lavoro, secondo il senatore Ichino, la causa dei problemi va ricercata all’ingresso : «Nel nostro paese il forte tasso di disoccupazione giovanile è frutto di uno scollamento tra il mondo della scuola e della formazione e quello del lavoro, causato anche dalla scarsa gestione da parte delle regioni, sui cui grava la competenza, delle risorse impiegate a fini formativi» riflette il senatore: «basta con i corsi inutili che le regioni erogano per reintegrare dalla disoccupazione gli ex lavoratori. La situazione attuale necessita di un intervento in via sussidiaria da parte dello Stato per ripristinare livelli standard di preparazione. Anche le università hanno una loro responsabilità per aver istituito corsi di laurea che creano aspettative impossibili da realizzare nell'attuale mercato del lavoro del nostro paese». A conferma di ciò Ichino ha citato gli ultimi dati resi pubblici dall'eurobarometro: «Il 40% dei giovani svedesi tra i 15 e i 25 anni è disposto a svolgere lavori manuali per i quali il mercato del lavoro riserva il 42% dei posti disponibili mentre in Italia -dove il 48% della domanda di forza lavoro proviene da settori a vocazione artigianale e operaia- solo il 5% dei giovani è consapevole di poter trovare un posto in questi campi». Ma chi cercano le aziende italiane? I dati pubblicati dal progetto Excelsior, sistema informativo per l’occupazione e la formazione coordinato dal Ministero del lavoro, Unioncamere e Unione Europea fotografa per il secondo trimestre 2012 in vista della stagione estiva in corso [nel grafico sopra] una forte richiesta di lavoro giovanile nell’ambito del settore turistico, del  commercio e dei servizi alla persona, con quasi ventimila nuovi reclutamenti. In generale per le assunzioni non stagionali, oltre il 46,3% della domanda di lavoro si concentra sulla ricerca di chi ha conseguito un diploma di scuola secondaria, mentre solo il 14,9% dei posti di lavoro disponibili attende i laureati. In questo scenario la riforma appena varata dal governo convoglia gran parte dei contratti destinati ai giovani verso l’apprendistato, visto come soluzione ideale per conciliare la formazione con il lavoro, ma come dice Ichino: «Si tratta di un contratto ancora molto complicato da applicare per le aziende, ma è pur sempre un primo passo per migliorare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».  Lorenza Margherita Per saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Riforma del lavoro approvata: e adesso- Il contratto di apprendistato dopo l'esame del Senato che succede?- «La riforma del lavoro? Non è una riforma» secondo i consulenti del lavoro    

Sardex, la start-up con la valuta virtuale che fa girare l'economia

Questa è una start-up nata sui libri di storia: perché il primo esperimento di monete complementari risale alla banca del popolo fondata nel 1849 dall'anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon. Ed è da qui che i fratelli Giuseppe (32 anni) e Gabriele Littera (28) insieme all'amico Carlo Mancosu (32) [a destra nella foto accanto a Giuseppe] sono partiti per dare vita a Sardex. Tutti laureati, tutti precari, nel luglio del 2009 hanno fondato un'azienda che, partita da Serramanna in provincia di Cagliari, ha costituito un circuito di credito commerciale che coinvolge oltre 550 aziende in tutta la Sardegna.Il nome di questa start-up coincide con quello della valuta virtuale che viene utilizzata negli scambi tra le diverse imprese che aderiscono. Il meccanismo è molto semplice: alle imprese viene assegnato un credito in Sardex, che possono utilizzare per scambiarsi servizi tra di loro. Così il produttore di pentole pagherà con questa valuta virtuale gli articoli di cancelleria al proprio fornitore. E quest'ultimo potrà utilizzare questi crediti per fare la spesa dal macellaio. Le realtà che fanno parte del circuito operano in tutti i settori, con alcune eccezioni: armi, farmaci, benzina, energia. Bene, ma come guadagna la start-up? «Abbiamo due tipologie di entrata: la prima è legata all'iscrizione, una quota una tantum versata dalle aziende che va da un minimo di 150 euro ad un massimo di 1000 ed è commisurata alle dimensioni dell'impresa» spiega Mancosu «la seconda è relativa agli abbonamenti annuali, che vanno dai 350 ai 2mila euro», stabiliti anche in questo caso in funzione della società in questione.Un giochino intellettuale? Nient'affatto, visto che questa start-up con un capitale sociale di appena 16mila euro ha raggiunto i 140mila euro di fatturato nel 2010, per salire oltre i 300mila l'anno successivo. Certo, al momento Sardex non è ancora in grado di assicurare uno stipendio vero e proprio ai tre founder e a Piero Sanna (33 anni), compagno di liceo di Carlo e Giuseppe entrato in società lo scorso anno: «Viviamo con i nostri genitori, che ringraziamo. E comunque ogni tanto un rimborso ce lo concediamo». Però l'azienda garantisce un reddito a 15 dipendenti assunti a tempo indeterminato, la metà dei quali con modalità part-time. Il personale è stato inserito anche grazie alla legge 407/90, che prevede una serie di agevolazioni come l'abbattimento del 50% del costo del lavoro per l'inserimento di persone disoccupate da almeno 24 mesi. E nel dicembre del 2011 ha visto l'ingresso nella società del fondo di venture capital dPixel.Ma perché un'azienda dovrebbe aderire al circuito? In fondo una moneta 'reale' esiste già, tanto che un Sardex vale esattamente un euro. «Noi però diamo la possibilità alle imprese di accedere ad un mercato complementare, che non richiede il ricorso alla liquidità». Un elemento sempre più raro in momenti di crisi. Di più: «Creiamo un mercato di tutti quei prodotti che non riescono ad essere venduti perché nessuno ha il denaro per pagarli». In questo modo «le aziende abbassano i costi e mettono da parte moneta corrente per impegni come il pagamento delle tasse. O dei dipendenti». Che il meccanismo funzioni non lo dicono solo i numeri di questa start-up, che in tre anni ha visto transazioni per 2,5 milioni di Sardex - ovvero 2,5 milioni di euro. Ma anche quelli di realtà più radicate. Come quella della svizzera Wir Bank che con oltre 70mila imprese aderenti ha in circolazione una massa monetaria pari a tre miliardi di Wir, questo il nome della sua valuta, somma che corrisponde a tre miliardi di franchi svizzeri. I ragazzi di Sardex hanno fatto tappa anche nella sede centrale di questa azienda per una visita di tre giorni, con l'obiettivo di approfondire le dinamiche di funzionamento per poi replicarle al meglio in Sardegna.Certo la strada da percorrere è ancora molto lunga. «Una delle difficoltà maggiori, specie all'inizio, è quella di spiegare il tipo di servizio che offriamo, costruire quel legame fiduciario che è alla base del nostro lavoro». Oltretutto sfidando settori con una scarsa informatizzazione. Loro, che per ridurre i costi di avviamento sotto i 10mila euro hanno scelto di affidarsi al software libero, si sono trovati nella condizione di dover «rispolverare il fax». Difficoltà tecnologiche a parte, «abbiamo fatto breccia nel modo più semplice, spiegando alle aziende che aderendo a Sardex avrebbero potuto pagare utilizzando dei prodotti che non riuscivano a vendere». Ed è così che questi quattro giovani hanno convinto più di 550 imprenditori a dare loro fiducia.Al punto che «alcuni di loro si versano una parte della retribuzione in Sardex, utilizzando questi crediti per spese personali». Ed è in questa direzione che si muove la start-up. «Vogliamo aprire ai dipendenti delle imprese del circuito, versando in Sardex una parte dei premi di produzione o dello straordinario». Ovvero quella parte di salario che, per mancanza di liquidità, la società per cui lavorano non riesce a versare. La sperimentazione partirà già quest'estate. In caso di successo, chissà che non si decida di estendere questa valuta virtuale anche ai semplici consumatori.Nata in Sardegna - la sede è il vecchio granaio di una casa di corte dell'Ottocento recentemente ristrutturata - l'azienda non vuole per ora varcare i confini dell'isola. Ma ha saputo attirare l'attenzione un po' da tutto il mondo: dalla Sicilia, con i ragazzi di Sicanex.net che hanno ottenuto una consulenza nella fase di creazione della loro start-up, e addirittura dall'Ecuador. Serramanna è stata infatti una delle tappe di un tour europeo di una delegazione della Banca centrale, interessata a realizzare un circuito di compensazione commerciale. Anche questo, insomma, è made in Italy che si esporta.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Timbuktu: è italiano il magazine per bambini più scaricato dall'Apple Store- ApparatiEffimeri, la pubblicità giovane si proietta sugli edifici- Dalla pianta di jatropha il seme di una start-up, anzi due- Non più i bambini: oggi le Cicogne portano le babysitter- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Come funziona lo stage in Europa: viaggio in Germania e Olanda

Se mancano i dati di un problema, è come se quel problema non esistesse - ed è quindi difficile, quasi impossibile, affrontarlo. Per questo la Commissione Ue ha da poco pubblicato un maxi report che, nazione per nazione, misura la qualità dei percorsi di stage in Europa. Dopo il focus sul report italiano, la Repubblica degli Stagisti va a spulciare le pagine dedicate alla prima della classe, la Germania, e ai vicini Paesi Bassi.Guardando al caso tedesco si ha la conferma di come la crisi economica sia solo in piccola parte una spiegazione allo stato di sfruttamento degli stagisti. Come noto, in Germania il tasso di disoccupazione giovanile è ben al di sotto della media europea, fermo al 9%. Eppure dall'indagine Ue, curata dal Bibb - l'Istituto federale per la formazione professionale - emerge che essere stagisti nel Paese locomotiva d'Europa non è affatto semplice. Innanzitutto manca una vera e propria legge sul praktikum e le norme vengono attinte da testi diversi, a seconda dei casi.  Per tutti gli stage - e prima ancora per tutti i rapporti di impiego - vale la disciplina sugli orari lavorativi, a cui per i tirocini curriculari si sovrappongono i vari regolamenti scolastici o universitari. Che però in genere definiscono solo la durata del percorso e poco altro. «Mancano altre regole precise» si scopre nel report: «gli accordi possono essere conclusi sia per iscritto che oralmente, il rimborso è discrezionale e non ci sono ferie». Non c'è nemmeno l'obbligo di mettere nero su bianco il progetto formativo. Gli stage inseriti in percorsi di formazione professionale sono poi disciplinati dalla legge BBiG, secondo cui a qualsiasi giovane «impiegato per acquisire esperienza professionale» spetta un adeguato rimborso. Il problema è che manca una definizione di «adeguato» e si va un po' a braccio: più alto è il livello di formazione, e quindi l'apporto che lo stagista può dare, più l'emolumento dovrebbe crescere. Fino a raggiungere, nei settori più gettonati, cifre da stipendio vero e proprio, di circa 2mila euro lordi al mese. Gli autori però non condannano a priori i tirocini gratuiti: talvolta, lasciano intuire, l'azienda beneficia poco dello stage rispetto al giovane stesso, magari alle prime armi. In Germania la tipologia di tirocinio più comune è comunque il Duale Berufsausbildung, letteralmente «doppia formazione»: teorica nei luoghi della formazione e pratica in azienda. Quindi stage fatti da studenti, sia obbligatori che volontari, questi ultimi la stragrande maggioranza (riguardano ad esempio l'85% degli universitari e durano spesso sei mesi). Diffusi anche i percorsi post laurea: persino nella fascia 30-34 anni il fenomeno interessa il 17% del totale - solo una manciata di punti percentuali in meno rispetto alle classi più giovani. Un aspetto positivo evidenziato dal report è che i dati sulla Generation Praktikum non mancano. L'argomento infatti è di grande interesse per i partiti politici, in gran parte convinti che, se non sono in grado di autosostenersi, gli stagisti costituiscono un peso per la società ed è quindi nell'interesse del Paese cambiare rotta. Per il momento però il 73% degli stage curriculari non è pagato, mentre per quelli volontari la soglia si abbassa al 56%, comunque molto alta. In merito alle cifre, quando è possibile parlarne, i dati medi sono discordanti: si va dai 540 euro mensili calcolati dalla Fondazione Böckler ai 640 euro della Confederazione Trade Unions tedesca. Il ministero del Lavoro ha pensato bene di dare il buon esempio e a tutti i suoi stagisti offre un rimborso mensile di 300 euro, sul modello francese (che però prevede un rimborso minimo di 430 euro). Invitando, ma non obbligando, aziende e istituzioni a fare altrettanto.A dispetto delle condizioni di stage tutt'altro che ottimali, i giovani tedeschi però sono molto soddisfatti di quello che imparano: per ben l'83% degli intervistati si è trattato di una gavetta che valeva la pena di fare. Stando al report, un'iniziativa come Generaktion Praktikum, una sorta di equivalente austro-tedesco della Repubblica degli Stagisti, ha gioco relativamente facile: «in linea di massima il cattivo utilizzo di stage è l'eccezione e la maggior parte dei tirocini di fatto agevolano le transizioni scuola lavoro. Dal punto di vista della Germania» è la conclusione «sembra non esserci l'urgenza di una forte azione legislativa».  Saranno d'accordo le decine di migliaia di stagisti tedeschi e le poche realtà che lavorano per tutelarli? Certo rimane la consapevolezza, chiaramente espressa nel report, che l'assenza di un rimborso obbligatorio, di una documentazione scritta e di limiti temporali ben definiti sono tutti problemi che attendono una soluzione.Spostandosi più a nord, nei ricchi Paesi Bassi, lo scenario in parte cambia, in virtà di una caratteristica quasi unica nel panorama europeo: nelle scuole superiori, soprattutto professionali, lo stage è prassi comune e gli stagisti sono spesso poco più che adolescenti. Le  recenti riforme dell'istruzione si sono fortemente ispirate al principio di coordinamento e continuità scuola-lavoro, con il risultato che oggi le transizioni appaiono «piuttosto agevoli, se confrontate con il resto d'Europa». Il tasso di disoccupazione anche qui è tra i più bassi d'Europa, meno del 9%; anche se, ad onor del vero, la qualità dei primi impieghi appare piuttosto scarsa.Anche nei Paesi Bassi non esiste alcuna legge ad hoc. Soltanto i percorsi che si potrebbe definire "di riqualificazione" (per lo più destinati ad adulti, una minoranza) sono regolamentati nel dettaglio dal Wet Educatie en Beroepsonderwijs - la legge sulla formazione professionale e l'istruzione in età adulta, appunto - del 1997. Ma come detto la tendenza è piuttosto quella di anticipare lo stage, fin dalle superiori. Negli istituti professionali anzi sono obbligatori e «occupano dal 20 al 60% di un programma di studio», si legge nel testo, curato ancora una volta dall'istituto Bibb. Nel 2010 ben 350mila ragazzi e ragazze tra i 16 e 20 anni hanno completato un tirocinio di questo tipo, ricevendo un rimborso in oltre la metà dei casi. Qualcuno si è anche preoccupato di calcolarne l'ammontare medio, nel lontano 2003, rivelando la cifra di 1,70 euro all'ora (che oggi l'inflazione farebbe salire a circa 2 euro, quindi un rimborso totale di circa 250 euro mensili per un impegno full time). In compenso, più ci si prepara più si possono vantare dei diritti: ad esempio solo un sesto degli universitari di secondo livello ha lavorato gratis - ed è uno dei pochissimi dati a disposizione su questa categoria - mentre un buon 20% ha ottenuto una somma superiore ai 500 euro al mese. Nelle università (a formazione scientifica o generale, 14 in tutto) come nei college (più orientati alla formazione professionale superiore, ben 44) «gli studenti in genere completano uno stage curriculare di circa nove mesi, durante il terzo anno di studi, allo scopo di acquisire esperienza sul campo. La tesi o il progetto finale di laurea è spesso frutto di questo tirocinio». A differenza di quelli post formazione, questi percorsi sono regolamentati, seppure non da un testo unico. Ad esempio è obbligatorio stilare un "contratto" tra le tre parti coinvolte - istituzione formatrice, soggetto ospitante e giovane - che espliciti contenuti, durata dello stage (la legge non pone limiti specifici) ed eventuali benefits. L'equivalente del nostro progetto formativo. Il giovane inoltre gode di un doppio cuscinetto di protezione: da un lato la scuola o università incarica un suo funzionario di vigilare sullo svolgimento della formazione; dall'altra aziende e organizzazioni devono dimostrare di possedere determinati requisiti di qualità. E vengono iscritte in un apposito registro. E per chi ha finito gli studi? Dalla parte di questi giovani ci sono solo alcune piattaforme online, come Stageplaza o Stagemarkt, che però spesso operano più come punti di incontro tra domanda e offerta di stage che come luoghi virtuali da cui affermare e diffondere i diritti dei giovani in formazione.  Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Paese che vai, stage che trovi: maxi report della Commissione europea- Nuova risoluzione Ue, regolamento europeo sugli stage più vicino- Un sondaggio dello European Youth Forum svela il prototipo dello stagista europeo: giovane, fiducioso e squattrinato

Timbuktu: è italiano il magazine per bambini più scaricato dall'Apple Store

Ancora doveva nascere e già riceveva un premio. Lo scorso 23 febbraio, sul palco dell'Italian innovation day ospitato dall'università di Berkeley, in California, sono salite Elena Favilli  e Francesca Cavallo [a sinistra nella foto], rispettivamente amministratore delegato e direttore creativo di Timbuktu Labs, la start-up che hanno poi fondato, sull'onda di questo successo, nel maggio del 2012 e che realizza una rivista per bambini pensata per essere visualizzata sui tablet iPad. «La tesi di Elena, che si è laureata in Semiotica all'università di Bologna, era dedicata al tema nei nuovi media e giornalismo e si occupava della realizzazione di un magazine innovativo per iPad», racconta alla Repubblica degli Stagisti Francesca Cavallo, «io sono sempre stata appassionata di pedagogia (nonostante una laurea in Scienze della comunicazione alla Statale di Milano, ndr); dal nostro incontro il progetto ha preso la strada di un magazine per connettere grandi e piccini». Perché Timbuktu è esattamente questo: non si tratta semplicemente di un giornale per bambini che, adeguatosi ai tempi, non si trova in edicola ma si scarica gratuitamente dall'Apple store. Questa rivista, pubblicata esclusivamente in inglese, prende spunto dall'attualità per raccontarla ai bambini, combinando elementi puramente ludici ad altri di natura educativa, nella convinzione che i bambini imparino divertendosi. Non solo: a differenza dei tradizionali videogiochi, questo strumento è pensato per essere visualizzato insieme da genitori e figli. Tanto che lo slogan che accompagna le presentazioni del progetto è «Timbuktu makes family the coolest place to be». Ovvero, grazie a questo magazine, la famiglia è il posto più bello che c'è.A questo progetto le due fondatrici sono arrivate da percorsi molto diversi. Elena, 30 anni, dopo la laurea ha svolto alcuni stage nella sede di San Francisco di McSweeney's, in quella di New York della Rai e alla redazione fiorentina di Repubblica, quindi ha lavorato come giornalista a Colors Magazine e Il Post. La formazione di Francesca, invece, è legata al mondo del teatro. Oltre a due tirocini come assistente alla regia di Paolo Rossi e dei tedeschi Familie Floez, nonostante abbia appena 29 anni ha lavorato come regista, ha fondato la compagnia Kilodrammi e ha dato vita al festival internazionale Sferracavalli. Il loro incontro è avvenuto proprio a Bologna, nell'ambito della premiazione di Working capital, un premio indetto da Telecom Italia per le tesi di laurea al quale hanno partecipato entrambe. E che ha visto Elena vincere 25mila euro, soldi utilizzati per avviare il magazine.Il primo numero, dal titolo «The ice issue», è nato di notte e durante i fine settimana, come un progetto alternativo al lavoro di entrambe. Da subito, però, Elena e Francesca hanno coinvolto due amici: Samuele Motta, oggi direttore artistico, e Diego Trinciarelli, che si occupa dello sviluppo web. La versione beta, la prima ad essere pubblicata nella primavera dello scorso anno, è stata scaricata 20mila volte in tre mesi. Un risultato che ha convinto le due giovani che ci fossero i margini per fare il salto di qualità. Ma in particolare è l'incontro con Joe Petillon, partner del fondo d’investimento americano Banner Ventures, avvenuto nel giugno del 2011 alla Startup Initiative di Intesa San Paolo, a cambiare il destino di Timbuktu.Petillon si è appassionato al progetto e ha fatto da mentore alle ideatrici di questo magazine. Ed è grazie a lui se, a novembre, Elena e Francesca hanno partecipato a Mind the Bridge, iniziativa che vuole creare un ponte tra le start-up italiane e quelle della Silicon Valley, e hanno vinto la possibilità di trascorrere tre mesi in California. Ecco allora il volo per San Francisco e un periodo molto intenso: di giorno il lavoro a Timbuktu, di sera le feste che animano la baia. Alle quali le due imprenditrici non partecipavano per diletto, ma per fare networking. Ovvero per conoscere potenziali investitori interessati al loro progetto. Ed è proprio grazie a questa intensa attività di pubbliche relazioni che sono state selezionate per l'Italian Innovation Day. Nel frattempo, hanno lanciato il secondo numero del magazine intitolato «The night issue», che ha ottenuto 8mila download nella prima settimana. E poi c'è stata la premiazione, a febbraio di quest'anno, nell'ambito dell'IID. Ma è un'altra la notizia che ha fatto partire, effettivamente, il progetto: l'ingresso in 500Startups, forse il più importante incubatore di impresa americano, che accoglie Timbuktu a partire dal maggio di quest'anno, data che coincide con la nascita ufficiale dell'azienda.Elena e Francesca hanno fondato la loro società a Mountain View, la cittadina della contea di Santa Clara dove è nato Google e dove ora risiedono. Nonostante la sede si trovi in California, però, le due giovani hanno scelto una forma societaria tipica della costa orientale degli Usa: la loro, infatti, è una Delaware corporation. Vengono chiamate così quelle aziende che scelgono questo stato dell'East Coast per insediare la propria sede legale. Ad attirare le aziende nel 'first state'  sono una legislazione molto snella, un tribunale che si occupa esclusivamente delle controversie legate al mondo del lavoro, ma soprattutto il fatto che lo Stato non applichi alcun tipo di tassa sugli utili. «Noi abbiamo scelto di dar vita alla nostra azienda con questa forma giuridica perché facilita la raccolta di capitale negli Stati Uniti ed è relativamente agile da costruire», spiega Francesca. Per quanto una delle principali difficoltà, all'inizio, sia stata rappresentata dagli aspetti legali: «sono abbastanza stressanti. Nonostante negli Usa pare che sia più semplice che in Italia, ci sono comunque montagne di documenti da guardare, capire, firmare».Grazie ai 25mila euro messi a disposizione da Telecom Italia, Timbuktu ha potuto finanziare le prime spese legate all'acquisto della strumentazione tecnologica e al pagamento degli artisti che hanno realizzato l'impianto grafico, per un totale di 20mila euro. Mentre dei contenuti degli articoli si sono occupate direttamente Elena e Francesca. Nato senza alcun tipo di ricerca di mercato e senza contributi pubblici di alcuna natura, nel maggio del 2012 Timbuktu è entrato in 500Startups, che ha messo a disposizione un investimento di 65mila dollari, una sede fisica ed un mentore che segue lo sviluppo dell'attività, chiedendo in cambio il 6,5% delle quote societarie. Oggi l'azienda è in una fase pre-revenue, il che significa che ancora non sta fatturando. «Stiamo investendo nello sviluppo dell'azienda e riusciamo a coprire le spese», spiega Francesca. Tanto che sono già alla ricerca di due stagisti nelle università vicine alla Silicon Valley, per un progetto formativo di 3 mesi che prevede un rimborso spese di 10 dollari l'ora. Mentre, almeno per il momento, non sono previsti stipendi né per le due fondatrici, né per il direttore artistico, né per il responsabile Web. Una situazione che Elena e Francesca si augurano di poter cambiare presto. Magari già a metà luglio, quando 500Startups ha in programma un demo day, ovvero una giornata di presentazione a potenziali investitori delle diverse realtà incubate. Un momento cruciale per il futuro di quest'azienda, che ha bisogno di recuperare fondi per 500mila euro per raggiungere il pareggio di bilancio, risultato che si punta ad ottenere nel giro di un anno e mezzo. All'evento di quest'estate le due giovani imprenditrici si presenteranno forti dei risultati della loro rivista che, per quanto ancora non abbia una periodicità ed abbia pubblicato solo due numeri, a marzo è arrivata nella Top5 dell'AppStore statunitense.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- ApparatiEffimeri, la pubblicità giovane si proietta sugli edifici- Dalla pianta di jatropha il seme di una start-up, anzi due- Non più i bambini: oggi Le Cicogne portano le babysitter- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire