Università sotto casa addio, io vado in Asia: piccola guida per neodiplomati per studiare in Estremo Oriente

Marta Latini

Marta Latini

Scritto il 10 Gen 2014 in Approfondimenti

Va dove ti porta il... cinese: sempre più giovani scelgono di imparare questa lingua perché è la più diffusa al mondo, viene parlata nei Paesi economicamente in crescita, e perché è ancora poco conosciuta. Dunque per chi vuole studiare il cinese e cominciare un percorso accademico, una volta terminata la scuola superiore, l’alternativa è: immatricolarsi ad un corso di laurea in Italia oppure recarsi direttamente all’estero, in Asia.
La Repubblica degli Stagisti ha scelto di dedicare questa seconda puntata proprio agli atenei asiatici e alla categoria degli undergraduate, ossia coloro che intendono conseguire il bachelor degree, assimilabile alla nostra laurea triennale.
Scorrendo il Qs Ranking l’Asia occupa una posizione di tutto rispetto: al ventiquattresimo posto spicca l’università di Singapore, tallonata due posti più in giù da quella di Hong Kong, entrambi ottimi punti di partenza per individuare le condizioni materiali in cui viene a trovarsi uno studente internazionale che decide di trasferirsi in questo continente.
A partire dagli aspetti più elementari e per questo essenziali: mangiare e dormire. L’università di Singapore conta circa 37mila studenti provenienti da un centinaio di Paesi differenti e offre un alloggio nel campus a 11mila di loro, compresi anche graduate o postgraduate students, già laureati e iscritti a programmi come Master (corrispondente alla nostra laurea specialistica), Master of Philosophy (MPhil), oppure Doctor of Philosophy (PhD).
Gli studenti sono divisi tra tra sei Halls of residence, quattro Student residences e tre Residential colleges, quest’ultimi aperti solo agli ammessi ai due programmi accademici multidisciplinari Usp e Utcp. Oltre al requisito minimo dell’iscrizione ad un corso full-time, uno studente internazionale deve anche esibire alcuni certificati emessi dal governo di Singapore, nella fattispecie da Ica (Immigration and custom authority) e Mom (Ministry of manpower).
Dopo aver verificato questi dati è possibile rivolgersi direttamente all’Hostel management office oppure orientarsi col menu a tendina fornito nella pagina web in inglese, dedicata alle tasse per il vitto e l’alloggio, in cui le varie opzioni sono elencate in modo schematico e puntuale in base alla sede residenziale, al tipo di camera prescelta e alla durata della permanenza. Ad esempio una camera singola in halls of residence costa in media, in dollari di Singapore (un dollaro singaporiano equivale a poco meno di 80 centesimi di dollaro statunitense), 1.800 nel primo semestre (circa 18 settimane) e 1.700 per il secondo semestre (17 settimane), per un totale di circa 2mila euro all’anno. Per il vitto, cioè colazione e cena, si paga mediamente una retta di 400 dollari per il primo semestre e 370 dollari per il secondo.
In ogni caso sono disponibili dei pacchetti comprendenti varie forme di finanziamento, tra le altre un'indennità, living allowance, di 3.600 dollari all’anno o una borsa di studio annuale di 500.
L’università di Hong Kong è altrettanto cosmopolita. Accoglie una novantina di nazionalità all’interno del campus, più di 9mila allievi internazionali, contando anche i postgraduate, ovvero circa il 34% del totale degli iscritti: tra questi la comunità italiana annovera una quindicina di studenti, quattro studenti in scambio e undici docenti la cui età media raggiunge i 42 anni.
I dormitori Residence halls costano per i non laureati 11.844 dollari di Hong Kong, pari a 1.100 euro (il dollaro in questo caso vale 13 centesimi di dollaro americano), per l’anno accademico corrente, che dura da settembre alla fine di maggio con la possibilità di svolgere un semestre estivo, dalla fine di giugno alla fine di luglio.
Gli undergraduate tuttavia non sono lasciati soli al loro destino e, solo dopo aver inoltrato l’application per il corso di studi, con il medesimo account possono fare domanda per candidarsi alla borsa di studio entrance scholarship, facendo riferimento alla pagina apposita. Gli schemi di finanziamento sono destinati a coprire i costi complessivi dell’esperienza universitaria, sono applicabili tanto ai local students, agli studenti del luogo, quanto ai non-local students, cioè anche a coloro che hanno bisogno del visto per studiare a Hong Kong, sebbene per quest’ultimi il numero di borse sia limitato e le rette previste siano più alte. Basti pensare che per uno studente del luogo le cosiddette tuition fees si aggirano intorno ai 42mila dollari, circa 3mila euro, mentre per il resto del mondo si moltiplicano arrivando a 135mila dollari, ossia più di 12mila euro. A questi numeri occorre sommare il contributo per il soggiorno, più indicativamente ulteriori 55mila dollari, più di 5mila euro, per le varie voci di spesa correlate alla vita quotidiana e allo studio. Pertanto, come per il Nord America, anche i costi degli atenei asiatici sono decisamente elevati e non sono per tutti, specialmente per chi arriva da fuori.
E anche qui viene in soccorso la struttura del career center, in questo caso la sezione Careers and placement del Cedars, Centre of development and resources for students, a cui è assegnato, tra i vari compiti, quello di pubblicare non solo le offerte di lavoro ma anche le opportunità di tirocini, con o senza compenso, in vari settori. L’attenzione al collegamento tra lo studio e la preparazione parallela al mondo del lavoro sembra essere una sorta di principio ispiratore totalizzante del sistema formativo: al punto che, attraverso il programma Counselling and person enrichment programme (Cedars-CoPe), gli studenti possono contare su una serie di servizi, quali consulenze o workshop, anche per «costruire la forza del carattere, vivere una vita soddisfacente e psicologicamente sana, e sviluppare attitudini positive e life skills per il loro successo personale cosicché sono in grado di dare un contributo alle loro comunità dimostrando leadership e sensibilità». Questo è ciò che si legge sulla pagina di presentazione del Cedars, dove la filosofia dell’università di Hong Kong campeggia riassunta in modo inequivocabile: «gli studenti dovrebbero cominciare a pianificare presto la loro carriera, preferibilmente nel primo anno di studi».
Come Ilaria Ribis, nata a Milano, 20 anni, con diversi stage all'attivo in studi internazionali che operano nel common law, il ramo in cui vorrebbe lavorare dopo la laurea. Per motivi familiari Ilaria ha vissuto in Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Londra e non ha mai studiato in una scuola in Italia.
Da un paio di mesi si è trasferita nel campus a Hong Kong perché sta seguendo un dual degree programme in Law istituito dall’università di Hong Kong e dal King’s college di Londra, al termine del quale avrà due lauree in legge: la durata del curriculum è di cinque anni, di cui i primi due a Londra e i restanti tre in Asia. Dove Ilaria vorrebbe restare al termine degli studi: «Hong Kong sta diventando una delle più grandi capitali finanziarie al mondo, penso che sarà molto più facile trovare lavoro e per la mia crescita personale mi interessa imparare la cultura del posto e il cinese».
Per la giovane studentessa l’ammissione a un’università così competitiva non è stata una passeggiata: i requisiti infatti non si fermano ad un voto di maturità alto e al possesso della certificazione di lingua inglese. Bisogna dimostrare di avere capacità in un’altra lingua, e soprattutto di eccellere anche in altri ambiti della propria vita: «L’application deve riportare tutte le cose che hai fatto, a livello di volontariato, di stage o di sport». In aggiunta a tutto questo gli affitti della città sono a dir poco stellari, per cui è opportuno fare un colloquio di selezione per i dormitori, ciascuno dei quali ha tradizioni proprie e richiede un certo standard di inquilini.
L’università assiste molto lo studente, da una parte aiutandolo a relazionarsi da subito con il mondo lavorativo, tanto che a giurisprudenza si fanno addirittura delle simulazioni delle udienze, in un mini-tribunale. Dall’altra c’è un sostegno materiale a trovare lavoro già durante la fase della formazione, attraverso gli stage curriculari e non solo: «I tirocini di solito si fanno nel penultimo anno di studi perché subito dopo lo stage ti fanno un colloquio di lavoro per poi farti sapere se, quando hai finito l’università, vogliono prenderti a lavorare da loro come avvocato» aggiunge Ilaria «I programmi che sto studiando io non prevedono stage ma sono ben collegati con gli studi legali e facilitano l’accesso. Gli studi vanno dalle università per conoscere gli studenti migliori».
Il programma accademico di Ilaria è sviluppato in dieci corsi all’anno e le lezioni si suddividono in lectures, con un centinaio di allievi, e tutorials, ristrette a una ventina di persone, dove si entra più nello specifico delle materie; le prove si articolano in esami scritti due volte a trimestre e in temi da preparare a casa che valgono il 20% del voto finale. Infine il curriculum principale, detto major, può essere affiancato anche da un minor, che «non è una vera e propria laurea ma un’esperienza che lo studente accumula in un’altra facoltà». Ilaria propende per l’idea di specializzarsi in un minor in psicologia, ma ha tempo fino a gennaio per decidere. E come lei sicuramente anche altri abitanti del campus, tra cui diversi italiani: «La maggior parte è qui in exchange, per un anno oppure sei mesi. Molte persone sono venute per fare un’esperienza ma poi decidono di restare perché ne vale la pena».

Marta Latini

[la foto Nus è di Dominic Soon- licenza creative commons]

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