Chi nasce in Italia sia italiano da subito: ma sono ancora tanti gli ostacoli alla legge

Annalisa Di Palo

Annalisa Di Palo

Scritto il 27 Mag 2013 in Articolo 36

Il dibattito si è riacceso di recente dopo le dichiarazioni della neo ministra per l'Integrazione Cécile Kyenge, la «ministra nera», come si è autodefinita di fronte ai media, generalmente avidi di ritratti nitidi. 49 anni, medico di origini congolesi, italiana - anzi emiliana, come ama ricordare - perché moglie di un italiano, all'indomani della sua elezione tra le fila del governo Letta la deputata Pd ha annunciato l'intenzione di stilare subito un ddl che riconosca in Italia lo ius soli, il diritto per i figli di immigrati ad avere la cittadinanza del Paese in cui nascono, indipendentemente da quella dei propri genitori. Le polemiche non si sono fatte attendere, scuotendo il già precario equilibrio politico su cui si basa l'allenza di governo. 

Ultimo in ordine cronologico il duello a distanza su RaiTre, nella trasmissione Che tempo che fa di ieri sera, tra il vicepremier Angelino Alfano che ha argomentato (alquanto arditamente, a dir la verità) che in Italia lo ius soli esisterebbe già, «perchè chi è nato qui, al compimento della maggiore età può già fare richiesta per la cittadinanza», e lo scrittore Roberto Saviano, che poco dopo si è schierato apertamente a favore di un'immediata legge che dichiari automaticamente italiani tutti coloro che nascono sul territorio italiano.

I rappresentanti delle cosiddette "seconde generazioni" sono più di 850mila ogni anno, su una popolazione complessiva di 60 milioni di persone. Nascono in ospedali italiani, crescono con cibo italiano, frequentano scuole italiane, parlano e pensano (anche) in italiano. Lavorano, o lavoreranno, contribuendo all'economia del Paese; fanno figli a loro volta. I bambini che nascono oggi da genitori immigrati se tutto va bene riceveranno la cittadinanza italiana, e i diritti annessi, dopo il 2031, dopo cioè aver superato i 18 anni e una sfibrante trafila burocratica. Il presidente Napolitano, a dispetto della sua consueta sobrietà espressiva, tempo fa la definì una «follia».

Seconde generazioni, seconda serie - cittadini di "serie B": 
questo sembra essere il paradigma. A smontarlo ci ha provato - e probabilmente ora a maggior ragione ci proverà - più d'uno. Tra questi c'è Anna Granata, 31enne psicologa e dottoressa di ricerca in Pedagogia interculturale alla Cattolica, autrice di Sono qui da una vita, sottotitolo «Dialogo con le seconde generazioni» (Carocci, 166 pagine, 16 euro). Un libro, nato proprio della sua ricerca di dottorato, che dà la parola va direttamente a loro: ai figli di immigrati
rappresentati da un campione di giovani di origine straniera tra i 18 e i 27 anni che vivono a Milano. Per poter affermare - di fronte al mondo della scuola, del lavoro, di fronte alle loro famiglie e comunità, all'intera società  -  il diritto ad una doppia appartenenza, ad essere ciascuno due "interi", e non due "metà": italiani e stranieri allo stesso tempo, senza dover necessariamente sacrificare un pezzo della propria identità a favore di un altro.

«Mi sento come una noce di cocco, nera fuori e bianca dentro»
scrive una ragazza di origini etiopi sul forum della Rete G2
- punto di riferimento web per le seconde generazioni: nera per etnicità ma bianca, italiana, per cultura. Senza contrapposizioni. Le fa eco Abdallah Kabakebbji, tra i fondatori dell'associazione Giovani musulmani d'Italia: «per cortesia non chiedetemi se mi sento più occidentale o più musulmano: sarebbe come chiedere se vuoi più bene al papà o alla mamma!». Mentre Akram racconta divertito di quando suo padre, sudanese, rispose per le rime ad una "sciura" un po' pettegola, in perfetto dialetto milanese («gelo nella sala, ma poi disgelo» ricorda). Rassmea invece, nata da genitori arabi, racconta dell'imbarazzo nel presentarsi in classe all'indomani dell'11 settembre, con il peso di chi sente di  dovere delle spiegazioni che non ha. Perché Rassmea, "araba" cresciuta in Italia, del fondamentalismo islamico allora non ne sapeva tanto di più dei suoi compagni di classe (poi ha recuperato). 

Molti di questi ragazzi e
ragazze, italiani di fatto, hanno iniziato solo da poco il cammino per ottenere la cittadinanza italiana, impigliati nelle maglie arrugginite della legge 91/1992, che disciplina la materia e che adesso la ministra Kyenge sta cercando di riformare, seppur conscia della difficoltà di trovare i numeri. «L'Italia ha uno statuto giuridico fortemente basato sui legami di sangue» nota l'autrice della ricerca Anna Granata. «È sufficiente avere un nonno italiano, pur senza conoscere la lingua e la situazione del nostro paese, per  essere chiamati a partecipare alla scelta di chi deve governare». In diritto si chiama ius sanguinis, diritto di sangue, trasmesso per eredità; dalla parte opposta c'è appunto lo ius soli: un principio quasi sconosciuto in Europa, e di casa solo in Usa, Canada, Brasile.

Ottenere la cittadinanza ovviamente non è solo un fatto simbolico, il che da solo basterebbe. Il caso di Sima, raccontato qualche tempo fa dalla Repubblica degli Stagisti, è esemplare:
24enne di origini indiane, in Italia da quando aveva un anno e italiana a tutti gli effetti, da quando si è laureata vive con l'incubo di essere espulsa dal suo Paese, scaduto ormai il visto provvisorio per motivi di studio. Ma, al di là dei casi estremi, vedersi riconosciuto formalmente il diritto di cittadinanza determina anche la possibilità di partecipare ad un concorso pubblico, o di votare: «non potremo diventare gli Obama italiani» scrive un giovane sul forum G2 «ma nemmeno insegnanti, avvocati, magistrati, ingegneri, architetti, poliziotti e qualsiasi altra attività che preveda l'accesso alla professione attraverso concorso pubblico». Un insensato spreco di energie.

«La società è posta di fronte a un bivio» scrive l'autrice «scegliere di tutelare il proprio passato o immaginare un percorso insieme a chi compone effettivamente, oggi, la società e può contribuire a garantirne un futuro». Secondo le stime nel 2015 un bambino su tre avrà almeno uno dei due genitori stranieri e che il 17% degli alunni delle scuole primarie sarà figlio di immigrati. Sono cifre, tra tante altre, che di fronte al bivio "auto preservazione" o "interculturalità" lasciano pochi dubbi su quale sia bene intraprendere per il bene dell'Italia di oggi e di domani.

Annalisa Di Palo

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