I giovani secondo Pier Luigi Celli? Una «generazione tradita». Di cui continuano a parlare soprattutto i vecchi

Annalisa Di Palo

Annalisa Di Palo

Scritto il 20 Feb 2011 in Approfondimenti

La provocazione fa passare meglio certi messaggi. Lo sapeva bene Pier Luigi Celli quando nel novembre 2009 ha affidato alle colonne di Repubblica una lettera aperta diretta al figlio Mattia, allora studente di ingegneria al secondo anno di specialistica. «Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai». Da cui, a malincuore, l'invito: laureati e lascialo, vai a lavorare all'estero. Che venendo dal direttore generale della Luiss, docente universitario, lunghi anni di top management alle spalle in aziende come Rai, Eni, Enel, Omnitel, Wind, Hera, e Unicredito Italiano, aveva un valore tutto particolare. E apriti cielo: 2500 commenti alla pagina web dell'articolo, reazioni discordi ma tutte accalorate dal mondo della cultura e delle istituzioni, Presidente della Repubblica compreso; grande dibattito mediatico - presto esauritosi. Arrivò anche la risposta pubblica di Mattia Celli, che concordava ma rimandava la decisione al dopo laurea.
Ad un anno di distanza il direttore, classe 1942, torna nero su bianco a rompere il «silenzio quasi assordante» sul tema della transizione dall'università al lavoro con «La generazione tradita», sottotitolo Gli adulti contro i giovani (Mondadori). Il punto di partenza è quella lettera, ma si tratta di un pretesto. Diversamente da ciò che fanno intuire i toni audaci della copertina, la provocazione si diluisce in una lunga riflessione - posata, a tratti digressiva, punteggiata di echi filosofici e letterari -  sulla fotografia sbiadita che per i giovani è oggi l'Italia: un «Paese in cui l'uso discrezionale delle regole sembra virtù sociale emergente di chi "sa stare al mondo"»; senza opportunità, rissoso, individualista. Vecchio.
E proprio sui "grandi" pesa secondo Celli il fardello della colpa
: eroici nel Sessantotto, fiaccati negli anni Settanta, arresi negli Ottanta, hanno consegnato alle nuove generazioni una società normalizzata sul ribasso, dove concorrere solo per una «competizione mediocre» in cui la scelta cade tra accontentarsi, subire o partire. «Un lavoro qualsiasi diventa spesso l'unico approdo, qualunque sia il pegno da pagare», mentre loro, gli adulti, rimangono avidamente aggrappati a poltrone più o meno strategiche, dalla politica, all'università, all'impresa. E allora la diffidenza è legittima, se a parlare è un settantenne che di poltrone strategiche ne ha occupate, e ne occupa,  molte. Celli è cosciente del rischio di risultare «patetico», o ipocrita, ma si assolve nella convinzione di farlo con il 
«rispetto che si deve a chi ha ereditato, senza averne colpa, situazioni che noi stessi abbiamo contribuito a creare, e che ora siamo così inclini a giudicare». Un velato mea culpa insomma, non si sa se e quanto di circostanza. Il problema che pone è comunque tangibile e grave, e si può scegliere di tenere lì l'attenzione, più che su chi lo denuncia.
Pochi i numeri, e già noti: nel 2010 un terzo della popolazione 15-29  anni è senza lavoro; nel 2009 le assunzioni a tempo indeterminato segnano meno 30%, rimpiazzate da stage e contratti atipici, mentre i licenziamenti per il 90% hanno interessato i posti a tempo determinato, avverando l'equazione flessibilità uguale precarietà. Due milioni e mezzo di disoccupati in Italia e il 60% di loro ha meno di 34 anni. Dati da leggere sullo sfondo di una crisi economica che ha solo inasprito una situazione già compromessa, diventando spesso pretesto.
A compensare cifre preoccupanti ci sono idee belle e condivisibili: il ritorno al dialogo, alle virtù civili dimenticate - responsabilità, rispetto, dignità, coraggio - l'invito a guardare ai giovani con «generosità e lungimiranza»,  a riconsegnare loro la scommessa di un futuro rubato. Come farsi perdonare?, si chiede l'ultimo capitolo. Aiutandoli, creando già nell'università le condizioni per intraprendere un «apprendistato esperenziale» che integri le nozioni universitarie con le nozioni di vita, con un occhio di riguardo per l'imprenditoria e l'innovazione, sul modello di progetti come Italia Camp. Perché in quella lettera, e nel libro, «l'obiettivo era arrivare a una reazione che impegnasse a restare, nonostante tutto». E a combattere. I vecchi guerrieri, però, forse dovrebbero farsi da parte: e lasciare - non solo a parole ma anche nei fatti - spazio ai giovani.

Annalisa Di Palo


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