Troppi vincoli e troppa burocrazia, ecco perché il "bonus giovani" non è decollato

Valerio Mammone

Valerio Mammone

Scritto il 04 Lug 2014 in Articolo 36

Nei giorni scorsi l’Inps ha pubblicato i dati sul cosiddetto “bonus giovani”, un fondo da 794 milioni di euro che era stato stanziato dal governo Letta per il triennio 2013-2015 per incentivare le imprese ad assumere a tempo indeterminato i giovani tra i 18 e i 29 anni. Il governo aveva promesso 100 mila assunzioni, ma finora il numero è fermo a 22mila. Il che non vuol dire, tra l’altro, che siano stati creati 22 mila nuovi posti di lavoro: alcuni beneficiari dell’incentivo, il cui numero non è al momento disponibile, sono stati assunti ex novo; altri invece avevano già un rapporto di lavoro in essere, che è stato trasformato in un contratto a tempo indeterminato. Si tratta di una distinzione importante, perché in base a questo cambia la durata dell’incentivo: per ogni nuovo rapporto di lavoro a tempo indeterminato, le aziende percepiscono per 18 mesi – un bonus pari a un terzo dello stipendio lordo, con un tetto massimo di 650 euro. Questo significa che se il dipendente guadagna, ad esempio, 1500 euro lordi al mese, per 18 mesi lo Stato paga un terzo del suo stipendio e l’azienda il resto. Se il contratto a tempo indeterminato subentra a un rapporto di lavoro precedente, l’importo dell’incentivo resta immutato, ma cambia la durata: 12 mesi.
Insomma, il contratto è a tempo indeterminato, ma l’incentivo no: questo innanzitutto, secondo Francesco Giubileo, sociologo ed esperto di politiche attive del lavoro, ha reso l’intervento dello Stato meno appetibile. «Per un’azienda i costi di licenziamento sono nettamente superiori agli incentivi: in Italia una causa di licenziamento può arrivare a costare più di 50mila euro ed è per questo che si cerca spesso una soluzione attraverso il concordato o il negoziato».  C’è poi un altro aspetto da considerare. Se gli incentivi sono pochi, e distribuiti a pioggia, si corre il rischio che a beneficiarne siano soltanto le aziende che avrebbero comunque assunto nuovo personale a tempo indeterminato, e non quelle che ne hanno più bisogno. «Per questo, quando i fondi sono così limitati, dovrebbero essere utilizzati per accompagnare al lavoro determinati “target” di soggetti, siano essi specifici settori produttivi o territori particolarmente bisognosi», dice ancora ad Articolo 36 Francesco Giubileo. «Facciamo un esempio: lo Stato stanzia dei fondi per incentivare l’occupazione giovanile in una singola provincia. Al termine della sperimentazione scopre che quel particolare tipo di incentivo ha avuto successo: è evidente che questo consentirebbe, in un secondo momento, di adottare la stessa misura su scala molto più ampia, andando a colpo sicuro».
Per accedere ai finanziamenti, le aziende dovevano (e devono tuttora) rispettare una serie di obblighi e criteri, che potrebbero aver pregiudicato l’esito del provvedimento. Prima di tutto, la legge prevede un “incremento occupazionale”: questo significa che per usufruire del bonus le imprese devono assumere nuovo personale. Il governo ha messo questo vincolo per evitare che i soldi fossero utilizzati soltanto per stabilizzare i precari, ma in questo modo ha escluso dai giochi un certo numero di aziende. Quanti – visti i costi dei contratti a tempo indeterminato – possono permettersi di stabilizzare i precari e, addirittura, assumere altro personale? «Quello dei costi è in effetti uno dei problemi, anche se non il più importante» conferma Stefano Di Niola, responsabile nazionale mercato del lavoro della Cna, la Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa. «Bisogna considerare, innanzitutto, che in una fase di crisi nessun incentivo economico potrà mai compensare la necessità dell'impresa di ridurre i costi. Da questo punto di vista, l'errore più grande è stato legare gli incentivi all'aumento dei dipendenti. Il governo avrebbe dovuto stanziare dei fondi anche per l'occupazione non incrementale, estendendoli, per esempio, a chi non ha licenziato nei 6 mesi precedenti la richiesta dell'incentivo, oppure a chi deve sostituire un lavoratore andato in pensione. Insomma, criteri più elastici. E poi, perché un incentivo funzioni deve essere accompagnato da una serie di misure volte, per esempio, ad aumentare la domanda interna. Solo così si ottiene un'occupazione buona e stabile».
Inoltre non è che un'azienda possa scegliere il suo under 30 in autonomia e assumerlo usufuendo dell'incentivo. Perché per la platea di potenziali beneficiari vi è il vincolo di soddisfare almeno uno di questi requisiti: non aver avuto un impiego regolarmente retribuito nei sei mesi precedenti la firma del contratto; non avere un diploma di scuola superiore o professionale; vivere da soli, con almeno una persona a carico. Ottenere queste informazioni spesso ha un costo e secondo Pietro Ichino, giurista e senatore di Scelta Civica, «col senno del poi si può affermare che, con requisiti meno stringenti, i risultati sarebbero stati più conformi alle attese. Se per capire come funziona un incentivo è necessario un consulente, una parte dell'incentivo si perde per remunerare il consulente; e tutti coloro che non si avvalgono di un consulente non entrano nel gioco». Il fatto che gli incentivi abbiano una durata limitata complica ancora di più le cose: «I costi dei consulenti aumentano. Se il provvedimento fosse stato più duraturo, il costo necessario per acquisire le informazioni sarebbe stato spalmato su di un periodo di tempo più lungo e, in questo modo, si sarebbe ridotto».
Secondo i dati della Cgil, nei primi cinque mesi di vita della legge (da agosto 2013 a metà gennaio 2014) l'incentivo è stato utilizzato per l'assunzione di 14mila lavoratori, prevalentemente in cinque regioni: Lombardia, Campania, Lazio, Piemonte e Veneto. In pratica, buona parte delle assunzioni è stata fatta a ridosso dell’approvazione del provvedimento. Cosa è successo dopo?  «Dopo è arrivato Matteo Renzi e il decreto Poletti che ha proseguito sulla strada della flessibilità e della deregolamentazione del mercato del lavoro, e ha investito nella riduzione del costo del lavoro, delle tutele e dei diritti», dice Andrea Brunetti, responsabile della politiche giovanili della Cgil. «Certo, gli incentivi potevano essere pensati meglio, ad esempio individuando settori specifici cui indirizzarli; ma almeno Letta ha messo un po’ di benzina nei serbatoi delle piccole e medie imprese. Col decreto Poletti, invece, Renzi gli ha indicato la scorciatoia per risparmiarla». E la sua opinione non è isolata: «Il contratto a tempo indeterminato oggi è messo "fuori mercato" - almeno nel primo triennio del rapporto fra un datore e un prestatore di lavoro - dalla liberalizzazione del contratto a termine», dice ancora Pietro Ichino, certo non vicino – in genere – alle posizioni della Cgil. «Per renderlo più competitivo occorre innanzitutto ridurre drasticamente la protezione della stabilità nel periodo iniziale, limitando il controllo giudiziale alle discriminazioni e rappresaglie e affidando la protezione della persona che lavora a una indennità di licenziamento proporzionata all'anzianità di servizio. E poi, occorrerebbe concentrare sul contratto a tempo indeterminato la riduzione del cuneo fiscale e contributivo».

Insomma, se a metà 2013 il governo aveva stanziato per l’occupazione giovanile 794 milioni di euro, finora ne sono stati spesi circa 160 milioni. Che fine faranno gli altri soldi? «La stessa fine che fanno, tristemente, i miliardi stanziati ma non spesi per incapacità di spenderli», conclude Pietro Ichino. «Verranno utilizzati per "tappare buchi" altrove».

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